DAL DEBUTTO CON SCORSESE ALLA PROSTATA OFFERTA A SORRENTINO: 50 ANNI DI CINEMA E TEATRO DI HARVEY KEITEL - "ALL'INIZIO VENDEVO SCARPE. ORA HO IMPARATO A RESTARE BAMBINO. RECITARE, SIMULARE, GODERE DELLE COSE BELLE"
Malcom Pagani per "Il Fatto Quotidiano" di sabato 23 maggio 2015
5m11 moana pozzi harvey keitel cabalaclub 85
Un'ora imprecisata nella notte di Manila: “Bob De Niro, il mio amico di una vita intera, telefonò eccitato: 'C'è una grande festa, Harvey. Vuoi venire a Cannes? Mi raccomando, arriva in fretta e portati lo smoking'. Un 'Tuxedo' adatto, sul set di Apocalypse Now, io non ce l'avevo. Ma tenevo appeso nell'armadio un vestito marrone fatto a mano, il mio miglior vestito, usato a Teatro per Morte di un commesso viaggiatore. Nelle filippine, con Francis Ford Coppola, le cose non erano andate troppo bene e viaggiare verso Cannes rappresentava un'ottima scusa per dimenticare tutto.
Così salii in aereo e dopo un lunghissimo viaggio mi trovai catapultato in Costa Azzurra. Davanti al palazzo del cinema. I fotografi scattavano, la gente sorrideva e io ero l'unica macchia di marrone in un mare di pinguini neri”. In Pulp Fiction, impegnato a chiarire gerarchie e immediate prospettive a uno stravolto John Travolta: “Chiariamoci campione, non sono qui per dirti per favore, sono qui per dirti cosa fare” Harvey Keitel indossava l'impeccabile smoking del Winston Wolfe di Quentin Tarantino chiamato a trasformare i problemi in soluzioni.
Quando la Giuria agli ordini dei fratelli Coen avrà risolto i propri, il cattivo tenente di un vecchio incubo di Abel Ferrara saprà se marciare verso il palco senza più divise. Al ritmo del Marine che fu ai tempi del Vietnam.
Passo rapido, incertezze simili a quelle di Orson Welles: “Con Otello, nel '52, non sapevo se mi avrebbero premiato. Perché a Cannes non te lo dicono mai se hai vinto fino all'ultimissimo minuto” e liturgia obbligata della guerra in miniatura prevista da ogni gara.
Le Scale. La sala. Il pubblico. Un film, Youth di Paolo Sorrentino, che qualunque risultato l'attesa finisca per restituire, ha offerto a Keitel una delle battaglie più onorevoli e gratificanti delle oltre centodieci combattute dal 1967. Nel duetto con Caine: “Non esistono attori migliori di lui, forse ce ne sono allo stesso livello, ma nessuno è veramente più bravo di Michael”. Nel rapporto con la troupe: “Li ho ringraziati spiegando che qualcosa di quell'esperienza mi sarebbe rimasto dentro per sempre”.
Nel buonumore che al tavolo di un bar affacciato sul Pantheon gli fa intonare Frank Sinatra “When i was seventeen, it was a very good year” e segnare ironicamente a dito una terrazza sulla piazza: “Vent'anni fa conobbi un produttore che abitava proprio qui sopra. Gli spiegavo che razza di fortunato bastardo fosse a vivere lì e intanto ragionavo a voce alta ''siamo giovani, perché io dormo in un posto incomparabilmente meno bello?”.
Mangia un cornetto, riconosce le note di un organo in lontananza, prova a ricordare tutti gli altri indirizzi di un errare avventuroso e come si trovasse in una delle scene finali di Youth, dispone sul prato della memoria i fotogrammi, le voci, i costumi, le tappe essenziali di una lunghissima parabola.
La prima, Who's that knocking at my door, coincise con l'esordio di Scorsese: “Cercavo di fare un po' di esperienza come attore, ma guadagnavo vendendo scarpe, non certo recitando. Girammo “Who's that knocking at my door” nei weekend. Solo nei weekend. Era inverno. Faceva un freddo cane”. Osservandolo sorridere e diventare serio, increspare il volto e riempire gli occhi di lacrime da un istante all'altro ricordando Carlo Lizzani: “Parlando di comunismo, Carlo discuteva di qualcosa di gentile, di un'idea di condivisione generosa, non di stalinismo” vengono in mente le maschere indossate in una vita.
Pochissimo Carnevale, tracce di sofferenza in quasi ogni suo personaggio: “Ma non è vero, in Buffalo Bill di Altman interpretavo un umoristico cugino dell'eroe a dir poco dissacrante” e ruoli indimenticabili. Esule inglese in Nuova Zelanda travolto dall'amore e dalla musica per Jane Campion, ispettore sulle tracce di due donne in fuga in Thelma & Louise di Ridley Scott, giornalista cibernetico nella Glasgow futurista immaginata da Tavernier, agente assalito dai dubbi tra i ceffi che Spike Lee aveva conosciuto da vicino a Brooklyn.
Keitel ha camminato sugli stessi marciapiedi del regista cresciuto nella New York popolata dai paisà e viaggiando ovunque e da nessuna parte, ha saputo fare la cosa giusta. Nell'ultimo domicilio utile, una stanza d'albergo con vista sulle Alpi e sul passare dell'età, sarebbe rimasto a lungo. Senza stanchezza. A riposare lavorando. Sul ring della recitazione.
A 76 anni: “Ci salgo con maggiore consapevolezza di ieri, ma senza smettere per un solo secondo di lottare”. Incontrare persone come Sorrentino, sostiene: “Equivale a trovarti in situazioni in cui sei costretto a metterti alla prova con te stesso. Un esercizio che fa bene e un confronto serrato che chi fa il mio mestiere non dovrebbe dimenticare mai di praticare”.
Nel film di Sorrentino lei interpreta un regista. Ne ha conosciuti tanti.
E ho conosciuto tanti attori che proprio per essere stati dall'altra parte della barricata, sapevano destinare attenzioni fondamentali a chi dirigevano.
Le è mai capitato di litigare con i registi incontrati nel percorso?
Mi è capitato. Con Theo Angelopoulos, il regista greco de Lo Sguardo di Ulisse, arrivammo praticamente alle mani durante una discussione. Eravamo nei balcani e viaggiavamo nelle peggiori condizioni possibili. A Mostar, la gente andava in giro armata. Con i Kalashnikov a tracolla. Succedeva - e posso dirlo senza rischio di smentita perché ero in quella macchina - che la neve e i checkpoint riuscissero a bloccarci in uno spazio di tre metri per quindici ore consecutive. Eravamo emozionati, scossi, stravolti per la morte di Gian Maria Volontè sul set. In quelle condizioni perdere la calma era un'opzione e infatti accadde puntualmente.
Lei porta rancore?
Volevo dirle proprio questo. Io non porto mai rancore. E non confondo lo scontro con il confronto. Lo cerco. Ne ho bisogno. Il confronto mi aiuta a vivere e a sapere perché, come è noto, non ne sai mai abbastanza. Angelopoulos poteva insegnarmi qualcosa e diventammo fratelli. Inseparabili.
Quello fu un viaggio molto speciale, uno dei più belli della mia vita, con un gruppo di gente straordinaria. La stessa febbre creativa, la stessa sensazione di partecipare a un'avventura indimenticabile l'ho ritrovata nel film di Sorrentino. Nel suo mondo. Nella sua visione del cinema e della vita.
Sarebbe capace di definirla?
Come fai a definirla? Come fai a descriverla? Ha a che fare con i sogni, con l'immaginario, con quello che ti lega a una storia quando i camion hanno portato via anche l'ultimo trofeo di scena. A fine riprese sono andato da Paolo: “Non ti illudere, non ho mica finito con questo film, io”. Sono stato fortunato a incontrarlo.
Vi incontrerete nuovamente?
harvey keitel con travolta samuel jackson e tarantino
È possibile. Lo spero. E in ogni caso, il film che ha girato Sorrentino va ben oltre me. Parla da sé. Ha qualcosa che sfugge alle classificazioni. Io posso descrivere solo i luoghi e le circostanze in cui si sono svolti i fatti ed elaborare le mie emozioni. Il resto, tutto il resto, è di chi lo vede.
Matthew Sport, il suo personaggio In Taxi Driver, si muoveva sul confine del bordello senza mai varcarne la linea. Nel film di Sorrentino il confine insuperabile è l'età avanzata?
Molti dei film che ho interpretato e molti dei personaggi a cui ho dato corpo avevano dei confini da varcare. C'erano confini in Taxi Driver e ci sono confini anche in Youth. L'ambiente, l'età, le convinzioni, i ricordi. A volte il confine riesci ad attraversarlo. Altre no. Esattamente come accade a milioni di persone ogni giorno.
Il suo confine è stato l'esercito?
Sono stato Marine da giovane e poi sono diventato attore. Due cose, due eventi, due istantanee che non rinnego e fanno parte dello stesso viaggio.
harvey keitel con robert duvall in apocalypse now
Cosa cercava da soldato?
Da Marine non inseguivo la violenza. Cercavo un'identità. Sotto le armi non ci insegnavano a essere violenti. Ma a essere presenti, diceva l'etica militare, per proteggere chi non poteva difendersi da sé. L'etica era anche propaganda e per capirlo servì un po' di tempo. Leggere, sapere, studiare, farsi un'opinione. Trovare altre persone con i tuoi stessi interessi.
Si arruolò presto?
Mi arruolai a sedici anni. Compilai la domanda e qualcuno mi disse: “Ora sei fante di tutte le arti e maestro di nessuna”. Volevo solo scoprire come diventare maestro di qualcosa. E come sarei riuscito nell'intento se non tentando tutte le strade? Ho esplorato. Ho viaggiato. Ho sbagliato. Ho compiuto buone scelte. L'esplorazione è un'evoluzione. È tentare di diventare il fante di tutte le arti. Goethe diceva: “Chi è maestro di qualcosa, capisce cosa voglia dire essere maestri del nulla”. La penso allo stesso modo. Se capisci il genio di una singola cosa, non è improbabile che tu scopra il genio in ogni cosa.
Nel film di Sorrentino la memoria può ferire e divertire al tempo stesso. A settantasei anni guardarsi indietro è consigliabile?
Dipende dallo spirito. Mi sento meglio che a sedici anni. A sedici anni non sapevo niente. La giovinezza è un'arma. È un cavallo selvatico. Devi saperlo dominare. Devi sapergli parlare. Essere fortunato. Avere gli amici giusti. Se la giovinezza fosse un orizzonte davanti ai miei occhi la prenderei a calci. Ci lotterei. La fermerei per dirle: non avrai la meglio su di me.
Cosa ricorda delle amicizie degli inizi?
Robert De Niro me lo presentarono in un parco. Iniziammo istintivamente a sorriderci e a capirci dopo pochi secondi. Senza smettere, abbiamo continuato a farlo per più di quarant'anni. L'altro grande amico dell'epoca è Marty.
Martin Scorsese.
harvey keitel alice non abita piu qui
Marty, appunto. Lui era studente della New York University, io vendevo scarpe e da non molto avevo dismesso la divisa da Marine. Incontrarlo mi cambiò la vita. Diventammo subito amici fraterni. Condividemmo un appartamento. Ci riconoscemmo perché ci sembrava di avere ascendenze comuni. Ci pareva di aver affrontato lo stesso percorso da figli di emigranti che la sera impazzivano per Johnny Carson al Tonight Show. Gli stessi sogni.
Le stesse aspirazioni. Durante Who's that knocking at my door girammo alcune scene di nascosto nella casa di Marty a Little Italy. Il padre rincasò senza saperlo, si trovò di fronte al film e ci cacciò tutti in un secondo. Io e Scorsese ci siamo divertiti come pazzi. Insieme facevamo cose folli. Giravamo fino a notte tarda, giocavamo, scherzavamo sempre. Avevamo paura delle donne. Un giornalista ci fece separatamente la stessa domanda: “Cosa vi spaventa più delle donne?”. Marty rispose senza incertezze: “Tutto”.
Avevate paura di qualcosa o eravate più inclini a spaventare? Ellen Burstyn si disse terrorizzata dal dividere la scena con lei in Alice non abita più qui.
Se mai ho avuto timore o paura, l'ho avuta soltanto di me. La strada per diventare attore è piena di confronti con te stesso. E l'unica paura che conosci è la tua. Quella che ti appartiene. Non ci sono scorciatoie. E non ci sono sconti. L'unica strada che può farti uscire dalla paura è percorrere la stessa che ti ha portato ad avvertirla.
Sosteneva quasi lo stesso concetto in Mean Streets.
Me la ricordo bene quella scena. Giravamo in chiesa. Dialogavo con la croce e dicevo che il dolore dell'inferno ha due aspetti. Uno lo puoi toccare con mano e l'altro lo senti nel cuore. Il secondo, quello spirituale, è quello che fa più male. È il peggiore. E prima o poi siamo tutti chiamati ad affrontarlo perché se non si vuole restar ciechi, non si può fare a meno di sapere qualcosa in più su se stessi. Nella vita non c'è niente di peggio di sapere poco di qualcosa.
Indagare su se stessi brucia.
Brucia di più di quanto non si immagini. E comunque, tutte le volte che metti le mani nelle fiamme, entri in un inferno. Il mio mestiere impone collisioni spaventose tra impulsi distanti, ragionamenti dissimili e persone diversissime. Ogni film è un miracolo. Una sforzo totalizzante, nella stessa direzione, di una comunità molto spesso eterogenea.
Ha partecipato da protagonista a film pluripremiati, ma ha ricevuto una sola candidatura all'Oscar e forse meno premi di quanti non avrebbe meritato.
La candidatura arrivò come miglior attore protagonista per Bugsy e fu del tutto immeritata. Quando mi prospettarono l'ipotesi gli chiesi se scherzassero: “Sono stato più bravo in qualche provino alla scuola di recitazione, è impossibile”. Invece avvenne e andò esattamente come mi dissero quelli che facevano parte del sistema. Bugsy era una grande produzione hollywoodiana. E la candidatura quasi un atto dovuto.
Lei ha spesso partecipato a film indipendenti .
Ho fatto i film che volevo fare.
Anche come produttore. Investì ne Le Iene di Tarantino quando nessuno voleva metterci sopra un dollaro. La sceneggiatura le venne fatta leggere da Lily Parker, membro dell'Actor Studio.
Sono felice che ricordi Lily Parker. Una volta mi intervistarono su Tarantino e spiegai che non avevo niente da aggiungere su quel che era stato già detto su Quentin, ma se che se avessero proprio voluto gli avrei raccontato il viaggio intrapreso per arrivare fin lì. Lilly Parker mi portò il copione: “Penso ti possa piacere” disse. Lo lessi e lo trovai straordinario. Quel film si doveva fare. Allora contattai un amico di Quentin, Lawrence Bender e organizzai un incontro con Tarantino.
Sulla porta, all'inizio, Quentin sbagliò anche a pronunciare il mio cognome. Poi ci sedemmo. Mi disse che aveva immaginato il film pensando alla mia interpretazione. Io ero curioso di capire come avesse fatto a scrivere una cosa così forte. Gli domandai se avesse vissuto in quartieri degradati o se avesse avuto qualche parente invischiato in loschi traffici. Rispose di no entrambe le volte e poi sillabò una cosa definitiva. Disse: “Io guardo i film”.
A Tarantino era piaciuto anche Il cattivo tenente di Abel Ferrara.
Sul processo di apprendimento di un attore, Abel Ferrara e quel film mi hanno insegnato tanto. È stato uno dei ruoli più spirituali che abbia mai avvicinato. Il tenente di Ferrara non ha fatto cose cattive. Ha fatto cose sbagliate. È diverso. Ho sempre cercato di capire chi andavo a interpretare. Di aderire alle motivazioni meno evidenti che muovono le azioni dei personaggi. Prenda Taxi Driver.
Non aspiravo certo a vendere l'anima e la carne di un'altra persona, ma lavorare su una figura che è nata in un contesto preciso e non ha avuto altra lezione che quella estrema del suo ambiente, è stato veramente interessante. Nel cinema non cerco consolazione. Cerco arricchimenti. Insegnamenti.
Cosa ha imparato dalla lezione in 50 anni di cinema e teatro?
A muovermi come i bambini A restare come loro. A recitare. A simulare. A fingere di essere qualcuno. E dall'altro lato, ad essere come si aspetta qualcun altro provando a godere delle cose belle. Dei momenti. Della felicità degli altri. Sa cosa mi disse un amico tanti anni fa proprio qui, in questa città?
Cosa le disse, signor Keitel?
Mia figlia aveva pochi mesi, era in America con la madre e io andai a far spese per la piccola in un negozio. Tornai in albergo carico di buste. L'amico mi guardò e osservò pacchi e pacchetti: “Ho appena speso mille dollari di vestiti per mia figlia e ha solo tre mesi!” mi giustificai. E lui: “Harvey, è esattamente quel che ci si aspetta da te”. Ho appena compiuto settantasei anni. Una battuta migliore non è mi più capitato di ascoltarla.
youth la giovinezza sorrentino 5