DOPO DIECI ANNI TORNA IN LIBRERIA IL ROMANZO DI FULVIO ABBATE “QUANDO E’ LA RIVOLUZIONE”: “MARIO SCHIFANO FA USO DELLA PROPRIA ROLLS-ROYCE CON ESPLICITO IMBARAZZO, MEGLIO, NON VUOLE DARE L’IMPRESSIONE D’ESAGERARE CON LO SFARZO. DETESTA ANDARE FORTE, VUOLE CHE A SUPERARLO CI SIANO ANCHE LE 500 E LE BIANCHINE, PERCHÉ DA SINCERO COMPAGNO, COME S’È ACCENNATO, UN PO’ SI VERGOGNA DEL PRIVILEGIO..."
Estratto del libro di Fulvio Abbate “Quando è la rivoluzione” (Baldini+Castoldi)
fulvio abbate quando e la rivoluzione
Schifano, raccontano certi conoscenti frequentatori saltuari del suo studio, fa uso della propria Rolls-Royce con esplicito imbarazzo, meglio, non vuole dare l’impressione d’esagerare con lo sfarzo e lo sbraco di classe come fanno certi ricchi senza talento se non per l’accumulazione capitalistica, perché nell’intimo lui, nonostante la smisurata generosità verso se stesso e gli altri, nonostante l’amore per la bella vita, è rimasto un ragazzo semplice, senza arie, nato in Libia al tempo delle Colonie, l’estremo Meridione d’Italia.
Non per nulla quando, da pischello, lavorava come garzone, come cascherino, alla pasticceria «Valzani» di vicolo del Moro a Trastevere gli altri impiegati più grandi, compreso il figlio dei principali, lo chiamavano «Il Tripolino».
mario schifano e franco angeli
A Schifano, l’ex ragazzino di Homs trapiantato in viale Spartaco, quartiere del Quadraro, infatti basta soltanto che al Piper Club, la discoteca folle di via Tagliamento, accanto a Patty Pravo, ci sia un gruppo, un complesso di musica psichedelica che abbia preso addirittura il suo nome, Le Stelle di Mario Schifano, così come Andy Warhol con i Velvet Underground, con altrettante flippate bionde e castane che ballano come scimmie meravigliose intorno ai suoi astri sotto la cascata di musica.
anita pallenberg mario schifano
Se il gruppo si chiama in quel modo, dipende dal fatto che in molti quadri Schifano ama dipingere proprio le stelle, con tecnica spray, utilizzando alcune mascherine di varie dimensioni; sono quindi lavori che nascono velocemente, tanto da sembrare realizzati in serie, come fossero appunto poster, figli o frutto di una rotativa umana, non per nulla una volta il pittore ha detto d’essere in competizione proprio con quest’ultima.
mario schifano senza titolo 1971
Con la stessa tecnica, confermando così il proprio sincero impegno politico, Schifano nel 1968 ha realizzato anche un ciclo di lavori che s’intitola Compagni, compagni, dove appaiono, dipinte con altrettanta frenesia stenografica, i contorni di due figure umane, forse proprio cinesi: uno tiene la falce mentre l’altro regge il martello, un quadro, quest’ultimo, tutto di un rosso furioso, quasi come l’altro che aveva quasi piazzato in casa dell’avvocato Agnelli.
ANDY WARHOL FOTOGRAFATO DA MARIO SCHIFANO
Quando gli hanno chiesto come mai gli piace così tanto finanziare i maoisti, e perfino altri gruppi come Potere operaio, Lotta continua e Stella rossa, lui non s’è mica nascosto, rifiutando di rispondere: «Ho fatto dei quadri, ho fatto due film. Il popolo non lo servo con i colori o la cinepresa. Lo servo con il denaro. Do denaro a questi ragazzi. D’altra parte, perché no? Il denaro lo guadagno con brutale facilità».
fulvio abbate nel ritratto di maio schifano
Schifano, dicevamo, con la sua macchina detesta andare forte, vuole che a superarlo ci siano anche le 500 e le Bianchine, perché da sincero compagno, come s’è accennato, un po’ si vergogna del privilegio individuale: il lusso, il piacere d’avere tutto quello che gli va, comunque non gli dispiace, lo ritiene anzi quasi doveroso negli artisti, in un certo genere di artisti, un fatto di vera libertà, una forma collezionistica dell’essere liberi. E poi, non è forse vero che il suo modello è proprio Andy Warhol, il primo artista moderno, tremendamente contemporaneo, nonostante la collezione di parrucche bianche sforbiciate, colui che ha spiegato che il successo si misura unicamente con il denaro, con le belle frequentazioni, con una segreteria telefonica possibilmente colma di messaggi.
MARIO SCHIFANO E ANITA PALLENBERG
Forse per questa ragione non ha potuto fare a meno di essere in prima fila nell’opera di sostegno alla causa dei maoisti; dapprima il campeggio fra gli occupanti delle case popolari a Paola, in Calabria, poi i quadri realizzati appositamente per l’organizzazione, talvolta con le immagini degli stessi militanti mentre sfilano sollevando il libretto rosso, immagini che finiscono emulsionate sulla tela e ricoperte con appena una passata di rosso, giallo, arancio, bianco, viola, a smalto, giusto come contrappunto, come certi ritocchi fotografici che servivano un tempo a dare vita e incarnato alle facce degli antenati, lavori all’anilina; infine lo troviamo a Cinecittà...
manifestazione di servire il popolo
Cinecittà, lui la conosce bene: nel 1944 gli Schifano appena rimpatriati in fretta per ragioni di furia bellica dalla Libia, dove il padre faceva l’archeologo presso gli scavi di Leptis Magna, finirono proprio in quegli stabilimenti, trasformati per necessità in campo di raccolta, un luogo dove piazzare i profughi, i paesani italiani, ma anche i polacchi, una babele di città.
Schifano non è infatti un tipo nostalgico, per nulla, e in questo senso va compresa la sua amicizia frenetica ed empatica con Moravia, e un po’ meno nei confronti di Pasolini, che lui ritiene «troppo in bianco e nero», mentre Alberto, no; Moravia, sempre agli occhi di Schifano, è un essere modernissimo, interamente in quadricromia, come certe cravatte sgargianti, le stesse che appaiono nei ritratti che Elisabetta Catalano gli ha fatto per le quarte di copertina. Schifano lo ritiene «un mutante dalla calotta d’acciaio, destinato a vivere fino a centoquattro anni»; insomma Schifano stravede per Moravia, ricambiato.
Marinella Cacciavillani, alla semplice vista del cappello di Bernardo, perde ogni sentore di dubbio, e lo dice espressamente che «nessuno meglio di lui ha la faccia da vero regista impegnato, ed è inutile che Bernardo, discreto e sensibile com’è, neghi tutto, si schernisca, ne sorrida, sostenendo che il cappello gli serve soltanto per farsi immediatamente individuare dalla segretaria di edizione o dal direttore della fotografia nel bordello del set durante la lavorazione, tipo che perfino gli attrezzisti o il fonico in presa diretta, la bassa forza, quando lo voglio beccare sanno subito dov’è.
Guardano e dicono: ècchelo, sta lì Bernardo, se capisce che è lui dar cappello... No, nessuno me lo toglie dalla testa che Bernardo lo porta perché sa che è giusto così, per valorizzare l’importanza di quello che sta facendo, quindi la sua testa, la sua fantasia, il suo talento, la sua immaginazione che nun se trova n’artro com’a Bernardo nostro...» così pensa, imperterrita, la signora.
Sempre secondo lei, quando sarà giunto il momento di spiegare ai bambini la storia contemporanea attraverso il solito album di figurine, lì dentro il cappello di Bernardo ci sarà sicuramente, accanto al kepì di de Gaulle, gli occhiali in cellometallo di Malcolm X, il basco di Che Guevara, il crespo tondo di Angela Davis, la scarpa dell’anarchico Pinelli rimasta in mano al brigadiere..., e sarà una figurina molto ricercata, sarà, come si dice in gergo collezionistico, una «bisvalida».
Meglio di quella della tiara di Paolo VI. Non per nulla Montini a un certo punto ha preferito vendere il copricapo per poi donare il ricavato dell’asta ai poveri del mondo, «davvero un bel gesto, io però me la sarei tenuta comunque, nun se sa mai, oggi domani se tratta d’anna’ a un ricevimento ‘mportante...» sempre Marinella.
Quindi l’affermazione di un nuovo mondo, se non altro dell’apparenza alternativa, che renderà perfino possibile, fra molto altro, la nascita di una boutique come quella di Marinella, «La Rivoluzione» di via del Vantaggio, dove accanto a robine e capetti di pregio trovi anche cose da Porta Portese, sia pure redente dalla ricollocazione nel Tridente: trench dell’esercito americano, borse di Tolfa, salopette colme di ramages, cose che insieme alla giacca di velluto verde smeraldo, i jeans o vellutoni a costa francese, un foulard di seta indiana, un cappotto di montone con il pelo che sbuffa dalle maniche, magari portati insieme a una Jaguar, fanno la loro porchissima figura, e per finire, se proprio non vuoi farti mancare nulla, al cappello, un feltro, un Borsalino «piuma», o un berrettone alla Marcel Duchamp o Bertolt Brecht, ovvero dello stesso genere cui ci ha abituati appunto Bertolucci.
«Altrimenti, perché mai certi amici, gente che la pensa sputato come noi, cioè nel modo che sappiamo, splendida borghesia intellettuale sostenuta da un palmarès notevole, tipo che sono cresciuti sulle ginocchia di Luchino Visconti, residenti fra i quartieri Trieste, Flaminio e Parioli, dovrebbero chiamare proprio Bernardo il primo figlio, no, no, prova a indovinare come mai?»