1- FARINA CONFESSA: ‘’HO SCRITTO IO L’ARTICOLO CHE HA FATTO CONDANNARE SALLUSTI’’ 2- BEL CORAGGIO. LO RIVELA SOLO DOPO CHE VITTORIO FELTRI IERI SERA A “PORTA A PORTA” L’HA SMERDATO: “L’AUTORE DELL’ARTICOLO INCRIMINATO È FARINA. È UN VIGLIACCO, L’HO DIFESO TUTTA LA VITA MA È UN PEZZO DI MERDA CHE NON SI È PRESO LE SUE RESPONSABILITÀ E ORA SALLUSTI CON UN GRANDISSIMO CORAGGIO PAGA UNA COLPA NON SUA” 3- FARINA, COME DEPUTATO PDL, AVREBBE POTUTO GODERE DELL’IMMUNITÀ PARLAMENTARE 4- BETULLA FARINA ORA FRIGNA. “CHIEDO UMILMENTE SCUSA AL MAGISTRATO COCILOVO, NON AVEVA COSTRETTO AD ABORTIRE NESSUNO”. MA COCILOVO NON MOLLA: “NON HANNO PUBBLICATO UNA RETTIFICA O UNA LETTERA DI SCUSE, NÉ ACCETTATO LA TRANSAZIONE”

1- CAMERA; FARINA, SCRISSI IO L'ARTICOLO INCRIMINATO - DEPUTATO CHIEDE GRAZIA O REVISIONE PROCESSO
(ANSA) - Renato Farina "confessa" nell'Aula della Camera di essere l'autore dell'articolo, a firma 'Dreyfus' per il quale il direttore de 'Il Giornale' Alessandro Sallusti é stato condannato dalla Cassazione. Per questo il deputato del Pdl chiede la grazia per il giornalista o la revisione del processo a suo carico.

"Intervengo per un obbligo di coscienza e per ragione di giustizia. Se Sallusti conferma la sua intenzione di rendere esecutiva la sentenza accadrà un duplice abominio: sarebbe sancito con il carcere l'esercizio del diritto di opinione e Sallusti finirebbe in prigione per errore giudiziario conclamato.

Quel testo a firma 'Dreyfus' - dice - lo ho scritto io e me ne assumo la piena responsabilità morale e giuridica. Chiedo umilmente scusa al magistrato Cocilovo: le notizie su cui si basa quel mio commento sono sbagliate. Egli non aveva invitato nessuna ragazza ad abortire: la ha autorizzata, ma non è la stessa cosa. Chiedo umilmente per Sallusti la grazia al Capo dello Stato o che si dia spazio alla revisione del processo. Se qualcuno deve pagare per quell'articolo, quel qualcuno sono io", ha concluso.


2- SCOPPIA L'IRA DI FELTRI: «DREYFUS È FARINA, È UN VIGLIACCO»
http://pubblicogiornale.it/politica/scoppia-lira-di-feltri-dreyfrus-e-farina-e-un-vigliacco/

Colpo di scena all'ultimo minuto di Porta a Porta, registrato a Roma e in onda in serata su Rai Uno.
Stanno già correndo i titoli di coda. Si è parlato del Lazio, dell'Ilva, finché Vespa introduce l'argomento della condanna di Sallusti.

Vespa chiede un'opinione a Vittorio Feltri che critica «tutti i politici di destra e di sinistra che, in sessant'anni, non hanno abrogato una liberticida legge fascista».
Ma subito dopo, la principale firma del Giornale rivela l'identità del giornalista che si cela dietro quello pseudonimo, Dreyfus, che con un suo articolo ha portato alla condanna del collega Sallusti: «Bene, avevo sperato che avesse lui il coraggio di farsi avanti. Adesso questo nome voglio farlo io, lo fanno molti. Ma è bene che sia conosciuto da tutti: si tratta di Renato Farina».

Non è una rivelazione da poco, visto che il giudice della corte di Cassazione, che ha spalancanto di fronte al direttore del Giornale le porte del carcere, è stato pesantemente influenzato dall'irreferibilità dell'autore del pezzo incriminato.

Si spengono le telecamere. Vespa si avvicina a Feltri chiedendogli come mai solo adesso abbia scelto di rivelare quell'identità. A questo punto Feltri si arrabbia: «L'ho difeso tutta la vita, speravo che avesse un minimo di coraggio, invece è un vigliacco. Speravo si prendesse le sua responsabilità. Non si è verificata né una cosa né un'altra. È semplicemente un pezzo di merda e Alessandro [Sallusti, ndr] sta pagando con un grandissimo coraggio per una colpa che non è sua»

Il paradosso vuole che Farina sia parlamentare eletto nelle liste del Pdl e che probabilmente avrebbe potuto godere, al contrario di Sallusti, dell'immunità parlamentare di fronte alla richiesta di arresto.

Feltri se ne va, scuotendo il capo: «Ci sono giornalisti, e poi ci sono gli uomini. Ho difeso per tanto tempo Renato. Ho parlato con lui per un'ora al telefono dicendogliene di tutti i colori. E' una delle più grandi delusioni umane della mia vita».

Renato Farina per anni ha firmato con uno pseudonimo anche perché è stato radiato dall'Ordine in seguito all'inchiesta Abu Omar, in quanto è risultato essere uno dei giornalisti che ricevevano soldi dal dirigente dei servizi segreti Pio Pompa.


3- "ORMAI L'ITALIA È COME LA SIRIA MA ANDRÒ IN CELLA, NON HO PAURA"
RABBIA, POLEMICHE E DIMISSIONI: IL GIORNO PIÙ LUNGO DEL DIRETTORE

Paolo Berizzi per "la Repubblica"

«Andrò in carcere, la cosa non mi fa minimamente paura». Il nodo della cravatta "Regimental" allentato, tirato in volto, la voce arrancante come gli capita soltanto nei ruvidi confronti televisivi. Alle 6 e 10 di sera le parole di Alessandro Sallusti tagliano il silenzio al terzo piano della redazione del "Giornale". Sono passati 24 minuti dal primo lancio di agenzia; la conferma della condanna a 14 mesi di reclusione per diffamazione adesso è un fatto, e il direttore - come era stato deciso in caso di sentenza negativa («aberrante», dice il caporedattore centrale Riccardo Pelliccetti) - convoca l'assemblea più sofferta nella storia del quotidiano fondato nel 1974 da Indro Montanelli. Sallusti è in piedi, emozionato. Ha di fronte i suoi vice e i capiredattori.

«Era doveroso dirlo prima a voi...». Inizia così l'atto finale della giornata più lunga, un discorso che si chiuderà cinque minuti dopo con un commosso «vi ringrazio e niente... finisce qui». È il sipario da calare o da aprire su una storia storta che negli ultimi giorni aveva visto Sallusti nel ruolo di «globetrotter televisivo »: ospitate, interviste, telefonate a raffica. Per perorare la sua causa e cercare di allontanare il fantasma del carcere. «Ma alla fine non sono riuscito a suscitare nulla, e adesso mi fermo».

In via Negri chi gli ha parlato nelle ultime ore dice che era sicuro che sarebbe finita così: «come in Siria», «come in Corea del Nord», come in un «paese schifoso», come riferiscono i suoi difensori più accesi. Infatti si era preparato Sallusti. «Dobbiamo farne una battaglia di libertà: per il nostro giornale, per tutti quelli che fanno il nostro mestiere. Perché questa è una sentenza politica...».

Ribadisce il concetto durante il discorso - ripreso dalla telecamera - alla redazione. Un "video esclusivo" sparato sul sito del "Giornale". Una liturgia non improvvisata per rispondere a viso aperto, e in tempo reale, a quei magistrati di cui - consiglia - «dovreste andarvi a vedere le storie politiche». Sono le 18.06. Il direttore convoca i suoi in riunione straordinaria.

L'orario è quello che precede il momento in cui il Capo e i suoi vice, al solito, si riuniscono per impostare la "griglia" della prima pagina. Il titolo è già fatto. Lo annuncia Sallusti alle telecamere di Barbara D'Urso, «amica di lunga data» e conduttrice di Pomeriggio Cinque. «"Sallusti va in galera", è il titolo più semplice della mia vita». Sull'home page del sito del "Giornale", appena la sentenza è ufficiale, campeggia la scritta "Vergogna", a caratteri cubitali.

Lui inizia a parlare. Poi riassumerà intervenendo alla pomeridiana di Canale 5. «Finita questa assemblea andrò dall'editore a dimettermi. Il giornale non può avere un direttore non libero, sarebbe imbarazzante per chi fa della libertà un baluardo». Oltretutto, spiega, «non sarò libero neanche di fatto, non potrei fare il mio lavoro nemmeno da un punto di vista materiale. Vado in carcere... ».

Il carcere e la giustizia politicizzata sono il perno intorno al quale ruota il discorso: un po' commiato e un po' intemerata. «Rifiuterò l'affido ai servizi sociali - una roba da Pol Pot - , non lo chiederò perché avendo commesso un reato intellettuale non mi va di farmi redimere o rieducare. Le uniche persone alle quali ho permesso di educarmi sono i miei genitori». Sallusti, nel giorno del giudizio, tira dritto e tiene il punto. Prima di decidere le sue mosse si è consultato a lungo, tra gli altri, con Daniela Santanchè, anche compagna nella vita, e con Silvio Berlusconi, suo editore attraverso il fratello Paolo. Gli ultimi contatti, in mattinata. E fa niente se Vittorio Feltri se la prende anche con il Cavaliere («la diffamazione è una legge fascista, nemmeno lui ha fatto niente per cambiarla»).

«Non ho nessuna intenzione di chiedere la grazia a Napolitano - va in affondo Sallusti - perché in quanto capo della magistratura italiana ha grosse responsabilità. In questi sette anni non ha difeso i cittadini a sufficienza dall'invadenza e da una giustizia veramente politicizzata ». La tesi del direttore del "Giornale" è che la sentenza della Cassazione sia stata emessa da magistrati a lui politicamente avversi. «Sono il primo direttore condannato per una banalissima causa di diffamazione».

L'hanno paragonato a Giovannino Guareschi ma lui dice che non vuole «fare la vittima». «Il problema di questo Paese - si sfoga con Barbara D'Urso - non è che mancano gli euro, ma che mancano le palle. Non sono un politico, non sono attaccato alla sedia, guadagno molto bene certo ma per difendere la mia dignità sono pronto a perdere anche lo stipendio». La storia di questa condanna forse è solo all'inizio.


4- COCILOVO "CAMPAGNA SUL NULLA VOLEVO SOLO LA RETTIFICA DI UNA NOTIZIA FALSA"
Raphaël Zanotti per "la Stampa"

«Sarebbe bastata una lettera di scuse. Non a me, per carità, quanto ai lettori, per la notizia errata pubblicata dal giornale. E invece nulla, in sei anni quella lettera non è mai arrivata». Quando lo si raggiunge a casa, a Torino, il giudice Giuseppe Cocilovo non vorrebbe rilasciare dichiarazioni. Un operatore del diritto difficilmente fa commenti su una sentenza di cui non si conoscono ancora le motivazioni.

Ma sulla condanna, sul carcere per un giornalista, qualche parola il giudice la spende. E sono parole di amarezza: «Non immaginavo neanch'io si sarebbe arrivati a questo punto. Si figuri, da giudice di sorveglianza non auguro ad alcuno di finire in galera». Ma poi, riflettendo, una domanda la pone lui: «Però, mi dica: cosa dovrebbe fare una persona quando è diffamata e un giornale non corregge i propri errori?».

Il fragore mediatico di questi giorni ha travolto anche lui, il giudice Cocilovo, che ritrova nella sequenza dei fatti il senso di una sentenza. «Libero pubblicò una notizia sbagliata - racconta - Lo fecero anche altri, all'epoca. Un infortunio giornalistico, lo capisco: la fretta di scrivere una notizia, le fonti non sempre affidabili, può capitare. Ma poi quello stesso giorno c'erano stati un comunicato ufficiale, lanci Ansa. Tutti gli altri hanno riparato a quell'errore, hanno informato correttamente i loro lettori. "Libero" non l'ha mai fatto, nemmeno quando l'ho richiesto. Hanno detto che quando uscivano i lanci Ansa erano in auto e non li avevano visti, e negli anni successivi?».

Ci sono due parole che ricorrono spesso durante la telefonata: «intenzionale» e «deliberata». Il giudice si riferisce alla diffamazione subita. Perché un conto è sbagliare, un altro è insistere nell'errore anche dopo.

Qualcuno ha detto che andare contro un giudice è impossibile per vie legali. La casta si chiude, fa quadrato. Cocilovo nega: «Casta? Ci sono voluti 6 anni per arrivare a una sentenza per una diffamazione. E non si trattava di un maxiprocesso per mafia. Piuttosto sono altre le caste, quelle che parlano di libertà di stampa, di tutela della categoria dei giornalisti: cosa c'entra, mi chiedo. Qui si tratta di libertà di diffamare deliberatamente».

Fino a qualche giorno fa, tra i legali del direttore Alessandro Sallusti e l'avvocato del giudice Cocilovo, sembrava si potesse arrivare a una soluzione extragiudiziale. Poi tutto è saltato. Perché? Sallusti dice perché «quel signore pretendeva da me altri soldi».

La versione del giudice Cocilovo è diversa: «Abbiamo fatto una proposta transattiva: avrei ritirato la querela dietro il pagamento di 20.000 euro da devolvere a Save the Children. Invece il giorno dopo mi trovo un editoriale di Sallusti in cui sembra che io voglia quei soldi per me, si chiama a raccolta l'intera categoria nel nome della libertà di stampa, s'incassa la solidarietà del Capo dello Stato e si cerca la sponda del ministro della Giustizia. Una campagna stampa allucinante. E allora le domando: qual è la casta?».

L'episodio in sé e il dibattito che ne è scaturito non è detto che vadano a braccetto. È evidente che colpisce il fatto che un direttore di giornale possa finire dietro le sbarre perché non ha controllato la veridicità di quanto scritto da uno dei suoi cronisti, ma il giudice Cocilovo in questo dibattito - non vuole entrare: «Non è compito di una delle parti stabilire se una norma è giusta o sbagliata. E nemmeno nella mia veste di giudice sarebbe istituzionalmente corretto. Mi limito a riaffermare, da parte in causa, che tutto questo si sarebbe potuto evitare con una semplice rettifica».

 

 

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