LA FIAT CHE FU(GGE) - IL VECCHIO LEONE ROMITI AMAREGGIATO "NON VOGLIO PARLARE, È UN MONDO IN CUI NON MI TROVO PIÙ" - FASSINO MINIMIZZA "GLI IMPIANTI PRODUTTIVI RESTANO A TORINO" (SÌ, VUOTI)

Gianni Barbacetto per ‘Il Fatto Quotidiano'

La Fiat (Fabbrica Italiana Automobili Torino) non c'è più. Al suo posto, da ieri c'è la Fca (Fiat Chrysler Automobiles). Sede legale in Olanda, sede fiscale a Londra, quotazione principale alla Borsa di New York, secondaria a Milano. Un'azienda nata in Italia, a Torino, nel 1899, dopo più d'un secolo è diventata compiutamente una multinazionale che ha reciso più d'una radice con la città d'origine. Intendiamoci, quello di ieri è solo l'ultimo passo di un lungo addio: la Fiat ha da tempo cambiato pelle, la sede in Olanda l'ha già avuta in passato, le sue fabbriche da anni sono all'estero.

Ma è inutile far finta di non vedere: questo è un passaggio d'epoca. Ciò che c'è negli Stati Uniti pesa molto di più di quello che resta in Italia. Il pezzo forse più storico dell'industria italiana se ne va, dopo aver a lungo goduto dei soldi dello Stato italiano, alla ricerca dei luoghi dove far arrivare più benefici ai suoi azionisti. È il mercato, bellezza. Ma almeno si possa dire che questa operazione lascia una città più povera e un Paese industrialmente più fragile. Ciò che va bene alla Fiat va bene all'Italia, diceva Gianni Agnelli. Da ieri questo motto non vale più.

"Lo so già che cosa vuole chiedermi", reagisce Cesare Romiti appena viene raggiunto al telefono. "Ma non voglio parlare. Mi amareggia troppo. È un mondo in cui non mi trovo più". Chissà, c'è però chi fa risalire già a lui l'inizio del declino, quando arrivò da Roma a Torino con il mandato della famiglia a diversificare, a fare meno automobili e più altro. Negli stessi anni, la famiglia Ford puntava invece sull'auto e faceva forti investimenti per provare almeno a giocarla, la partita mondiale che stava per iniziare.

Ora, se la nuova Fca va a porre la sua sede a Londra per motivi fiscali, vuol dire che la nuova multinazionale nasce da una fuga dal fisco italiano. Le tasse saranno pagate ancora in Italia, garantiscono i registi dell'operazione, ma se davvero non cambiasse nulla, tanto valeva restare a Torino. Invece la fuga è conveniente, anche per i dividendi. Come fanno, allora, il governo e la politica a mostrarsi sereni e perfino euforici? Il sindaco Piero Fassino minimizza, ricordando che ciò che conta è la permanenza degli impianti produttivi a Torino.

Ma Mirafiori è già una cattedrale in gran parte deserta, come le chiese d'Europa nel tempo della secolarizzazione. Nell'era della città fordista, le sue linee producevano sette modelli, adesso uno. Il presidente del Consiglio Enrico Letta si rallegra perché la Fiat è diventata un "attore globale" mentre prima era un "attore nazionale" e ritiene che la questione della sede "sia assolutamente secondaria: quello che conta sono i posti di lavoro, il numero di macchine vendute e la globalità di questo soggetto". Si sa che la sede della Fiat è da tempo sull'aereo di Sergio Marchionne.

Ma intanto, a proposito dei posti di lavoro evocati da Letta, gli occupati a Mirafiori sono ora 5 mila, erano 130 mila gli addetti Fiat a Torino nella fase di massimo sviluppo. Inutile, certo, farsi prendere dalla nostalgia per un mondo industriale che da tempo è finito. La ricetta suggerita dal capo del governo è dunque calcistica : "Tutti gli italiani devono fare il tifo per Fiat, perché riesca a diventare un grande attore globale". Si può tifare, effettivamente, anche per una squadra straniera.

Chi entra al Politecnico di Torino non può fare a meno di vedere che proprio lì accanto c'è il centro studi della General Motors. Sono venuti a Torino dall'America per imparare a fare i motori. Ora, chi li ha fatti per più di cento anni, va in America per garantire valore ai suoi azionisti. E chi ha il coraggio di dire che questa storia poteva andare diversamente? Il fordismo è morto da tempo, l'automobile è diventata un prodotto "cow", maturo, il mondo si è globalizzato. C'è il vento della storia che soffia, sopra i tetti del Lingotto, sopra le porte di Mirafiori. Come l'angelo di Benjamin, è sospinto inesorabilmente di spalle, con le ali inutilmente dispiegate e con lo sguardo volto all'indietro, a contemplare macerie.

Chi ha il coraggio di confrontarsi con un simile soffio? Eppure questo sarebbe il mestiere della politica. Avere l'ambizione di misurarsi con i processi storici cercando di guidarli, non di esserne travolti. Obama ci sta provando: se Marchionne va in America, è perché gli Stati Uniti - anzi, la politica degli Stati Uniti - gli ha garantito le condizioni economiche per svilupparsi là, salvare la Chrysler, sposarla con la più piccola Fiat.

Gli Agnelli, intanto, se ne sono andati da tempo. Non vivono neppure più a Torino, hanno più interessi in Asia che in Europa. E i soldi chissà dove, se è vero che le indagini fatte dopo le proteste di Margherita Agnelli per la spartizione dell'eredità dell'Avvocato hanno fatto intravedere un malloppone nascosto all'estero, il mitico tesoro di Gianni Agnelli, oltre 1 miliardo di euro. Almeno in questo, c'è continuità storica. La Fiat di Marchionne fugge dal fisco italiano, come già ne era fuggito il tesoro dell'Avvocato, che in fondo si considerava già lui una multinazionale.

 

GIANNI AGNELLI E CESARE ROMITI Cesare Romiti Romiti Agnellimarchionne elkann x mirafioriFiat Pandalingotto

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