MA CHE SIAMO, IN UN FILM DI MUCCINO? - ‘UN'ADOLESCENZA DIFFICILISSIMA. INIZIAI A BALBETTARE DAL GIORNO ALLA NOTTE, IN TERZA MEDIA. NON RIUSCIVO A DIRE NEANCHE IL MIO NOME’ - ‘VIA DALL’AMERICA? ERO STANCO DI ESSERE CONSIDERATO UN ETERNO ESORDIENTE. GLI AMERICANI SI ERANO DISAMORATI DI ME MOLTO RAPIDAMENTE, E' UN SISTEMA CANNIBALE - GUADAGNINO VOLEVA CHE DIRIGESSI ‘CALL ME BY YOUR NAME’ MA… - I RAPPORTI CON MIO FRATELLO SILVIO? ‘A CASA TUTTI BENE’'...
Malcom Pagani per www.vanityfair.it
gabriele muccino sul set di a casa tutti bene
Adolescenza di un regista: «La mia è stata difficilissima. Iniziai a balbettare dal giorno alla notte, quando ero ancora in terza media, per l’ansia di dovermi esprimere e adattarmi a quello che gli altri si aspettavano da me. La società degli uomini avrebbe dovuto accogliermi e io mostrarmi a mia volta simpatico, dinamico, spiritoso e vitale. Nell’istante in cui fui chiamato a definire personalità e identità, all’improvviso mi mancarono letteralmente le parole. Non riuscivo a dire neanche il mio nome.
gabriele muccino sul set di a casa tutti bene con stefano accorsi
Gli altri mi suggerivano le sillabe da mettere in fila e io arrancavo davanti agli amici e alle ragazze. Una cosa terribile. Avevo passato l’infanzia in una felice e silenziosa solitudine, tra mucche, colombi e contadini, scappando da Roma in corriera per rifugiarmi nella casa dei miei genitori in campagna e quando decisi di socializzare ebbi grandissime difficoltà.
Ho attraversato quell’età nel travaglio diventando una spugna che tutto osservava e ogni cosa, con struggimento, assorbiva. Ero in ritardo rispetto ai miei coetanei, non sapevo chi fossero i Beatles. Soffrivo. Il cinema è stato il mio modo di comunicare al mondo che avevo qualcosa dentro. Il mio modo di urlare “adesso sedetevi, devo dirvi quattro cose”».
gabriele muccino angelica russo
Gabriele Muccino giura che nell’immaginare A casa tutti bene, il suo undicesimo film (commedia amara, feroce, tenera, disperata, ilare e malinconica, recitata con efficacia da un gran cast, prodotta da Marco Belardi e in sala dal 14 febbraio), l’esigenza sia stata la stessa: «È nato in una notte. Mi sono svegliato e avevo l’idea in testa». E che questa idea, «una famiglia intrappolata su un’isola», abbia rappresentato «un fiume in piena e un’epifania improvvisa. Volevo un film onesto e non consolatorio».
Aveva bisogno di rinascere?
«Non avrei mai immaginato di girare film a Hollywood e di entrare in un sistema così distante dal nostro. Lasciare Los Angeles dopo 12 anni non è stato facile. Con questo lavoro ho ritrovato una natura che qualcuno pensava si fosse rarefatta nel tempo o comunque dispersa nelle collocazioni professionali incalcolabilmente diverse da quello che pensavo di fare nella vita».
gabriele muccino sul set di a casa tutti bene.
Come ci è riuscito?
«Con la fermezza e con la forza di dire “sono stanco di vivere qui”, “sono stanco di competere”, “sono stanco di essere considerato un eterno esordiente” e “sono stanco di perdere film a cui tengo”».
Le è successo?
«È una frustrazione tremenda e prima o poi succede a tutti. È il sistema a pretendere la competizione, a dire: “You are your last movie”. Sei sempre l’ultimo film che hai fatto, sei sempre l’ultimo risultato che hai ottenuto. Appena sbagli due mosse, passi dall’essere il più desiderato all’essere appestato. Finisci nella directors’ jail, nella prigione dei registi che non vuole più nessuno.
gabriele muccino sul set di a casa tutti bene
Gli americani si infatuano molto facilmente e, come in ogni infatuazione, si disamorano altrettanto rapidamente. È un sistema che cannibalizza e vale per chiunque. Per gli attori che hanno la loro actors’ jail e che ho visto in pochi anni compiere l’intero giro da promesse, a stelle, a dimenticati e per i registi, che tu sia Eastwood o l’ultimo della lista».
Lei non è l’ultimo della lista. I suoi film hanno incassato molto.
gabriele muccino sul set di a casa tutti bene
«Ma non sono neanche Eastwood. I film da realizzare, comunque, alla fine sarebbero arrivati lo stesso. Avrei potuto andare avanti per inerzia per almeno altri 12 anni. Ma ero stanco di selezioni, provini ed esami. Il sistema non risparmia nessuno ed è un meccanismo psicologicamente molto faticoso».
gabriele muccino luca guadagnino
Ingrassare è stato un sintomo di quella fatica?
«Lo stress, la fatica emotiva e l’esilio volontario hanno contato sicuramente di più delle intolleranze alimentari scoperte in tarda età. C’è un motivo per cui in un tempo lontano, da Dante a Napoleone, l’esilio era la peggior punizione possibile. Non poter tornare a casa è atroce e in fondo è anche il tema del mio nuovo film».
In America ha avuto momenti di depressione?
gabriele muccino con will smith
«Ho avuto momenti di grande sconforto. Dopo tre anni di adrenalina pura, in cui apprendevo i rudimenti del nuovo mondo con entusiasmo ingenuo, sono arrivate ansia e tristezza. Ero in un altro Paese, lontano dai miei figli, per una scelta di carriera che mi faceva sentire solo. Per superarla andavo davanti all’oceano. Mi sedevo sulla spiaggia, guardavo l’orizzonte e, respirando, mi calmavo».
gabriele muccino con will e jaden smith
È un’abiura definitiva?
«Sentimentale. Lavorare in America è una scelta molto appagante e se mi arrivasse un copione in cui credo potrei ripartire anche domani, ma vivere lì è stato molto faticoso. C’è una diffusa psicopatia sommersa. Una nevrosi sottotraccia, nascosta dalla facciata presentabile di una società che ti giudica per come appari e per quello che possiedi che mi ha fatto avvertire un’alienazione che per fortuna, da quando sono tornato in Italia, non ho più avvertito».
Ora si sente bene?
«Sto molto meglio, riconosco i codici di comportamento, catarticamente rincasare è stato importantissimo. Ho ritrovato tutto quello che mi era mancato in America. Non rida, ma mi sono sentito un po’ come Ulisse e l’esilio ha generato un film come A casa tutti bene, un film su persone che ritornano, almeno per un breve arco di tempo, alla famiglia che ha dato loro forma e destino. Per qualche ora, riuniti su un’isola per festeggiare le nozze d’oro dei parenti, i protagonisti nascondono la propria natura, ma quando il timer della finzione sociale e dell’educazione formale va fuori giri, la stanchezza fa cadere le maschere e loro si mostrano per quel che sono».
Quante volte le è capitato di fingere?
«La vita ti richiede sempre una forma di messa in scena, di finzione, di ipocrisia. Se sei sincero, spaventi. Io sono molto sincero e impulsivo e prima che imparassi a controllarmi, dal mio carattere, sono stato anche penalizzato».
Ha detto che per fare cinema si sarebbe tagliato un dito.
«Ho detto questo? Di sicuro c’è stato un periodo della mia vita in cui vedevo il cinema come un miraggio talmente lontano che sarei stato disposto a fare di tutto».
Cosa ha rappresentato il successo?
gabriele muccino angelica russo raffaella leone
«Incontrare la burrasca perché successo e visibilità trasformano le dinamiche in modo folle, anche all’interno della famiglia. Alterano il senso delle proporzioni e fanno perdere la rotta a tutti. A chi ti guarda, a chi proietta su di te l’immagine a cui dovresti somigliare, a chi ti vuole bene e ovviamente anche a te. Alla fine, non sei più tu. Diventi qualcun altro. Nel mio film, Sandra Milo si rivolge al nipote, Stefano Accorsi, autore di romanzetti di medio esito, rivelando lo stupore dell’intero nucleo familiare: “Nun te davamo una lira”, gli sussurra».
GABRIELE MUCCINO PLAYING FOR KEEPS
E cosa intende dirgli?
«Eri il coglione di casa, chi l’avrebbe mai detto?».
Lei si è mai sentito il coglione della situazione?
«Sì, durante l’adolescenza e poi per molti anni, mi sono sentito il coglione della situazione. Ma sapevo di essere molto più forte di quanto non pensassero gli altri. Questa forza interiore l’ho alimentata, l’ho tenuta viva come si tiene viva la legna sul fuoco. Ho soffiato con tenacia. Più mi dicevano “’ndo cazzo vai”, più accendevo una fiamma impetuosa».
Al cinema è arrivato tardi.
«L’ho inseguito per più di dieci anni, dai 18 ai 30. Qualcosa avevo fatto e su qualche treno sono salito acrobaticamente o mi hanno fatto salire a forza. I treni passano, a volte li perdi e a volte – penso al mio primo film americano – li prendi perché è destino che vada così».
russell crowe gabriele muccino
Ha rimpianti?
«Esistono, soprattutto quando ti sei fatto ingannare nelle scelte personali. Il crinale tra scegliere bene o male è molto sottile. Il tuo intuito sa cos’è il male e cos’è il bene, ma il cuore può prevalere sul tuo istinto di conservazione. Ed è allora che fai una cazzata. Professionale o sentimentale. Ti dici “ma sì, viviti questa serata” e poi diventano due o tre serate fino a ritrovarti incastrato in un meccanismo da cui è difficile uscire. Fai delle scelte, nel lavoro e anche nella vita di coppia, che sono sbagliate e cambieranno la tua esistenza per sempre. Sai che lo sono, ma non hai la forza di fermare il treno in corsa anche se eri stato tu a metterlo in moto».
Ai suoi figli come ha spiegato i tanti strappi della sua vita?
«Ci provi. La vita è un continuo provare e riprovare. Un mettere a posto e cercare di rammendare».
In A casa tutti bene si parla anche di padri e figli.
«Come in tutti i miei film ci sono anche io e come in tutti i miei film, sono tutti e nessuno. Ma è chiaro che gli adolescenti di A casa tutti bene sono i miei figli e sono anche la voce della mia coscienza. Io mi metto nei panni del giudicato che cerca di avere rapporti civili anche se per un padre, quando una ex non sopporta il tuo passato, mantenere una serenità su più sponde non è facile. Ma non mi sento speciale. È la storia del mondo. È the pattern, il modello universale. Pensi sempre di essere unico nella vita e poi capisci che non è così».
Cova rancori?
«No, non ho quella natura, non mi appartiene. Risentimento e rancori sono inutili e corrosivi. Diversa è la rabbia che è anche un bel sentimento. Arrabbiarsi a volte è una necessità, anche artistica».
Il suo successo improvviso in Italia creò rabbia. Dopo L’ultimo bacio su di lei soffiò il vento del preconcetto.
«I film li fai anche perché vuoi che vengano visti. Però mi ricordo perfettamente che le critiche, anche aspre, crebbero proporzionalmente al successo. Non mi sono mai sentito e non mi sento tutt’oggi accolto da questa comunità che è il cinema romano. Dopo Come te nessuno mai ero ancora simpatico, con L’ultimo bacio anche Monicelli e Suso Cecchi D’Amico, che pure si erano espressi molto favorevolmente su di me, iniziarono a sventolare fastidio nei miei confronti in alcune interviste.
Ci rimasi malissimo, li sentivo come i miei maestri, ma capivo che la reazione faceva parte del gioco. Pur essendo figlio del loro grande cinema, avevo usato un linguaggio diverso dal loro. In qualche modo ero il figlio bastardo. Fu duro anche Scola: “Ma cosa va a fare in America? È un’altra cultura, non potrà mai raccontarla”. In effetti non era semplice, ci avevano provato in molti. E a essere camaleontici, a mimetizzarsi nel sistema hollywoodiano per diventare registi internazionali a tutto tondo erano riusciti soltanto in due: Zeffirelli e Leone».
In una foto pubblicata sui social, ha abbracciato Luca Guadagnino dopo la candidatura di Call me by your name agli Oscar. Sente che la vostra diversità ha un punto di contatto?
L ESTATE ADDOSSO GABRIELE MUCCINO
«Con Guadagnino c’è reciproca simpatia e stima. Voleva che dirigessi Call me by your name, ma non me la sono sentita perché ho avuto paura di non saper trattare quella materia. Ma mi sento più fortunato di Luca perché lui è davvero un outsider. I suoi film in Italia sono stati quasi sempre invisibili e anche quest’ultimo, nonostante le 4 candidature, fatica un po’. La mia storia è diversa. Girai negli Usa La ricerca della felicità all’apice del successo in Italia. Ricordati di me incassò 10 milioni dopo i 16 de L’ultimo bacio. Non posso piangermi addosso».
È diventato più cinico?
«Non ho mai avuto uno sguardo buonista sulla vita. Ho sempre pensato fosse una questione complessa. L’età ha un vantaggio: a 50 anni impari a fottertene dei formalismi inutili, delle cortesie e delle convenzioni superflue».
Si sente felice?
«Non mi sento infelice che è già moltissimo. Lo sono stato e so che colore ha l’infelicità. Nero, funesto, tragico. La felicità è una condizione volatile, ma andare verso la felicità ci fa sentire vivi».
Quali sono le preoccupazioni di un affermato regista di 50 anni?
«Invecchiare. È insopportabile. È un’ingiustizia assoluta».
Come vanno i rapporti con suo fratello?
Si stringe nelle spalle, sorride. «A casa tutti bene».
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