VIALE MAZZINI, ABBIAMO UN PROBLEMA - BRUNO GAMBAROTTA: IN RAI OGGI MANCANO I GRANDI AUTORI E PRESTA E CASCHETTO FANNO IL BELLO E IL CATTIVO TEMPO. FORSE LAVORANO PER CASCHETTO ANCHE GLI INSERVIENTI DELLE PULIZIE. CHE PECCATO”
Malcom Pagani per “Il Fatto Quotidiano”
bruno gambarotta - Valerio Lo Mauro
Mondovì, Alba, Chivasso: “Ai tempi di Campanile Sera, i paesi si fermavano per le riprese. I vigili bloccavano le strade, sulla piazza principale gli operai montavano enormi gruppi elettrogeni e le donne offrivano pranzi e aprivano le terrazze delle loro case per far passare i cavi. La gente voleva partecipare alla festa, contribuire a portare le immagini nelle case, apparire sullo sfondo della grande rivoluzione televisiva”.
Bruno Gambarotta è nato ad Asti, ha 77 anni: “La prima cosa che leggo sul giornale sono i necrologi” e non si è fatto bastare un solo mestiere. Ha scritto una ventina di libri, partecipato a una decina di film, trottato da tipografo nella bottega paterna: “L’odore dell’inchiostro era paradisiaco” e osservato da testimone privilegiato: “Delegato di produzione Rai per gli sceneggiati” una stagione di virtù.
Accompagnava Nanni Loy e Antonello Falqui. Pietro Germi, Carlo Verdone e Adriano Celentano. Con la passione per la cucina, Il Torino e l’affabulazione: “Non c’è niente che avvicini le generazioni come il racconto orale” Gambarotta, silenzioso, stava a lato.
Avrebbe dovuto interpretare il ruolo del grigio burocrate, ma con l’ironia e il profilo di Groucho Marx ne vide di ogni colore. Alcune storie, traslate sul piano dell’invenzione, affrescano Ombra di Giraffa (Garzanti), memoir fantastico sui volti di un’Italia estinta, su Viale Mazzini e sull’epoca d’oro del servizio pubblico.
Se gli chiedi cosa sia accaduto alla Rai di oggi, l’astigiano Gambarotta si affida al “complesso di cose” già cantato dal conterraneo Conte in Bartali: “L’arrivo della concorrenza, l’estinzione dei grandi autori, la negazione del valore della gavetta, la cessione di interi appalti agli agenti come Presta e Caschetto che nella Tv di Stato fanno il bello e il cattivo tempo. Forse lavorano per Caschetto anche gli inservienti delle pulizie e se non è così, poco ci manca. È un peccato”.
Lei arrivò in Rai con un concorso. Era il 1962.
Avrei dovuto fare il perito elettronico e mi ritrovai con una telecamera in spalla. Nel ’65, grazie a un altro bando, affrontai il concorso per programmisti e registi. Per l’ammissione ci voleva la laurea e io la laurea non l’avevo.
Un bel problema.
Ovviai con una raccomandazione. Avevo sgobbato a tempo perso come volontario al Centro Studi Piero Gobetti, ordinando per il presidente, Franco Antonicelli, i 40 mila volumi della Biblioteca. Lui fu entusiasta del risultato e si propose di aiutarmi. Non rifiutai. Scrisse una bellissima lettera a Bernardi, allora vicedirettore della Rai. Lo scopo – farmi ammettere all’esame raggiunto. Poi dovetti camminare da solo. Dire che tra gli esaminatori c’era diffidenza è dire poco.
Perché?
Bisognava avere una cultura di stampo classico e io proprio quell’anno ero stato bocciato alla Maturità classica per i miei disastri con il greco e con il latino. Mi sedetti e gli esaminatori mi squadrarono : ‘Lei è un cameraman e vorrebbe diventare programmista?’. Erano quasi disgustati, le espressioni dicevano tutto: ‘Perché ci fa perdere tempo?’.
Come se la cavò?
Sfruttando le reminiscenze dell’esame fallito. A qualcosa, quei mesi passati a studiare, erano serviti. Mi domandarono cosa guardassi in tv e io risposi: ‘Programmi sulla storia’. Allora per farmi fuori mi chiesero della guerra Franco-Prussiana e li stupii. Come accade quando qualcuno si rivela diverso da come sembra, i miei giudici cambiarono atteggiamento.
Da provinciale a cui pareva che le cose succedessero solo nelle Metropoli, mi ritrovai a Roma con una 500 rossa. Tutta mia. Le macchine, ad Asti, dovevamo prenderle da un signore che in cambio di qualche lira messa insieme con la colletta, ci affittava la sua Fiat 1400 a metano. Con Paolo e Giorgio Conte andavamo a mangiare il gelato a Torino. Cercavamo di respirare un’aria diversa. Ad Asti si parlava soltanto di Vittorio Alfieri. Era la provincia raccontata in Amarcord. Sempre uguale. Da Rimini al Piemonte.
Con Nanni Loy tra Specchio segreto e Viaggio in seconda classe deste vita a un esperimento antropologico.
Non diversamente da Pietro Germi, Nanni disprezzava i convenevoli. Me lo ricordo il vecchio Pietro, mentre preparavamo I giovedì della signora Giulia a Varese, torvo, chiuso in se stesso, all’ombra dei grandi tazebao sui quali, con l’attenzione maniacale degli artigiani di un tempo, segnava ogni singolo passaggio della lavorazione.
Io arrivavo sul set e dicevo buongiorno, lui si limitava a un cenno del capo. Al quarto giorno mi prese da parte: ‘Non c’è alcuna necessità che mi saluti ogni mattina, facciamo che la prima volta vale per tutte le altre a venire’. Si circondava sempre degli stessi eterni collaboratori. Gente che era con lui dagli albori. Un gerontocomio.
Tra i padri della patria cinematografica, Germi ha sempre un desolante posto in seconda fila.
A differenza del 99 per cento dei registi italiani, Germi non era comunista. All’epoca erano del Pci anche quelli come Visconti, uno che con i comunisti non aveva proprio nulla a che fare.
Era serio e silenzioso. Profondamente convinto che il vero Paese si incontrasse per strada, sui treni, in mezzo alla gente comune e che solo da quella angolazione lo si potesse raccontare. Alla goliardia apparente preferiva il significato nascosto.
Percorreva Ponte Sisto fingendosi evaso da Regina Coeli, chiedeva in regalo le stringhe delle scarpe ai passanti e quelli si fermavano per dargliele. Mi diceva: ‘Hai visto che solidarietà? Hai capito chi sono veramente gli italiani?’. Naturalmente gli italiani erano anche altro. Una volta facemmo salire in uno scompartimento un attore vestito da arabo, Pierfrancesco Poggi.
Cosa doveva dire Poggi?
Doveva sostenere di essere un operaio italiano appena convertitosi all’Islam su indicazione di Gheddafi. I libici avevano comprato un certo numero di azioni Fiat e Poggi arringava i viaggiatori: ‘Manterranno l’occupazione, ma almeno un 10 per cento del personale dovrà convertirsi all’Islam. Io l’ho fatto. Secondo voi ho fatto bene o ho fatto male?’.
E le reazioni?
Entusiaste. ‘Hai fatto benissimo, ci convertiremo subito anche noi’. Il messaggio era forte. Suggerii a Nanni di assoldare un attore di Filodrammatica, qualcuno che sostenesse che la conversione era eccessiva. Non volle. ‘Non facciamo fiction, noi facciamo vedere la realtà per quel che è’.
Sui treni incontravate storie vere.
Una volta, sull’accelerato Napoli-Roma, parlammo con il venditore abusivo di caffè che ispirò un famoso film con Manfredi. Il treno fermo in piena campagna e lui a svelarsi per più di un’ora. Aveva avuto un incidente, l’assicurazione non l’aveva pagato e si era ridotto a viver di espedienti. Gli chiedemmo come eludesse i controlli e lui sostenne che anche i controllori avevano un’anima. Quando passavano chiudevano un occhio.
Doccia gelata, anche Celentano
Il programma aveva un contributo del ministero dell’Industria e il delegato preposto visionava il materiale per scoprire se veicolasse o meno messaggi negativi. Quando vide la scena disse no: ‘Non può andare in onda, non possiamo sbandierare il lassismo dei nostri controllori’. Nanni si impuntò e riuscì a farsi ricevere dal ministro Ruffini. Lui riavvolse la puntata e si commosse. Tirò fuori 50.000 mila lire: ‘Li faccia avere al venditore di caffè, ma non gli dica da chi vengono’.
Accadevano strane cose a Roma.
Era sorprendente. Provvisoria. Avevo sempre la valigia sull’uscio, ma diversamente dal torinese tipico, amavo la sua indifferente precarietà. Il suo non prendersi sul serio. Le sue zone franche. Il suo disordine. Come dimostra il Gassman di C’eravamo tanto amati, si parcheggiava ovunque. Anche in Piazza del Popolo. Cene, gite, gaudio e lavoro in democratica alternanza. Con Dudù La Capria, ad esempio, ci divertivamo molto. È uno scrittore enorme, Raffaele. Che sia ricordato solo come l’autore di Ferito a morte è uno scandalo.
Accadde anche a Moravia.
carlo verdone racconta la sua carriera
Con Gli indifferenti. Un altro scandalo. Nella Rai di allora ragionare con persone come Moravia, La Capria o Gadda era la norma.
C’erano figure come Antonello Falqui.
Altro perfezionista maniacale. Che programmi meravigliosi che ideava. Che nettezza di visione. Che artista. Da ragazzo, come Gino Bramieri, Falqui era stato grassissimo. Suo padre, grande critico letterario, nella grande casa con vista sul parco trascorreva le giornate con gli intellettuali a discutere di letteratura. Ogni tanto si affacciava il giovane Antonello. Fu proprio Gadda a chiedergli se avesse sogni e aspirazioni per il futuro e il Falqui adolescente, forse con delle caramelle in mano, fu lapidario: ‘A me per adesso me piace da magnà’.
Schegge di Rai e dintorni.
Senza ferirmi, ne ho messe insieme tante. Nel ’65, in sei mesi, passai dalla periferia dell’impero alle stanze in cui si prendevano decisioni strategiche. Non avevo nessun potere. Non l’ho mai avuto. Ma è stato un privilegio in un ambito in cui i tempi tecnici imponevano una certa lentezza, anche narrativa.
In che senso?
Oggi la liturgia dello sceneggiato Rai e la sua scrittura suonerebbero ridicolmente anacronistici. Siamo nell’era del racconto incrociato, dei salti narrativi, dei flashback e dell’adrenalina.
Ieri?
Ieri andava tutto narrato due volte. Per l’indiscutibile inferiorità di budget e mezzi tecnici e per la paura che lo spettatore rischiasse di perdere per strada un pezzo della trama. Il direttore generale, Ettore Bernabei, non si stancava di ammonire: ‘Ricordate, il vostro spettatore tipo non va al cinema’ e i registi si adeguavano.
Sandro Bolchi non girava certo True Detective, ma diceva ‘Facciamo una bella panoramica a godere l’ambiente’. Io sognavo di vedere come proseguiva la storia, ma invece, al pari di ogni altro spettatore, osservavo Ciccio Ingravallo, la Monaca di Monza o il Conte di Montecristo ripetere a un terzo personaggio le stesse cose che avevo visto sullo schermo in un’altra scena cinque minuti prima.
Bernabei teorizzava l’utilità della raccomandazione. Nel Cencelli delle assunzioni i parametri erano rigidi.
Quote o non quote, veniva in genere assunta gente molto in gamba. La raccomandazione era un’arte molto praticata e certi dirigenti, esausti si erano persino affinati nell’arte della raccomandazione falsa.
Tra dirigenti e sottoposti c’era un preciso codice. Il capo struttura chiamava il regista di turno e iniziava: ‘Vorrei segnalarti una giovane attrice ancora non famosa, ma con tanto talento e tantissima voglia di lavorare. È proprio qui davanti a me’. Quel ‘è qui davanti a me’ era il segnale di via libera. Significava: ‘L’ho proprio dovuta fare questa telefonata, ma non tenerne conto’.
Le è mai capitato di ricevere a sua volta richieste simili?
Una volta, rispondendo per caso al telefono, mi accadde con la segretaria di Susanna Agnelli. La signora Agnelli voleva sostenere una cantante, ma in prima persona non si scomodò.
Cosa rimane tra le pagine della sua Rai?
Gli incontri. Le paure dei debuttanti. L’opera di mediazione. Sono sempre stato aziendalista. Se l’azienda chiamava, io andavo. Durante la produzione del No Stop firmato da Enzo Trapani, Carlo Verdone era nel panico. Terrorizzato alla sola idea di esibirsi. Mi toccò convincerlo: ‘Guarda che sei bravissimo, non preoccuparti, vedrai quante offerte riceverai’.
Le ricevette e fu abile a non accettarle. Voleva fare il regista, mi pare l’abbia fatto bene. Trapani era un uomo delizioso, originale, intelligente. Quando si sparò mi spiacque molto. Sul biglietto da visita aveva fatto stampare free dog e in effetti si muoveva come un cane sciolto. Sperimentava e mostrava cose che sulla prima rete non si erano mai viste. Lavorava sulle psicologie. Negava ai figuranti di assistere alle prove: ‘Se vedono lo sketch 10 volte si annoiano e la risata non sarà spontanea’.
Altro cane sciolto, Celentano. Con Adriano avete collaborato a lungo. Anche in video.
Per puro caso, un’altra volta. In azienda mi dissero che avevano bisogno di una figura di raccordo, qualcuno che ne monitorasse le bizzarrie e gli spiegasse le esigenze della produzione.
Il primo Fantastico di Celentano nacque per un’urgenza interna. Berlusconi aveva depredato la Rai e portato a Cologno Monzese il meglio delle risorse di Viale Mazzini. Si doveva rispondere. Per condurlo si pensò sia ad Arbore che a Celentano, poi prevalse Adriano nella convinzione che avrebbe gestito meglio una messa cantata legata anche agli sponsor e alla Lotteria.
Lei e gli altri autori, ai tempi di Svalutation, passavate intere giornate nella Villa di Galbiate.
L’aveva disegnata e costruita lui in assoluto segreto. Una sorta di Trullo tagliato in orizzontale e disossato in cerchi. Ci viveva isolato con Claudia, leggendo giornali e osservando tg. Adriano sarebbe uno straordinario narratore, ma certe storie purtroppo non le racconta: ‘Devono rimanere tra noi, in famiglia’.
Lei fa parte della famiglia?
Adriano è un animale territoriale. Si lega al dito le cose. La sua biografia è piena di persone che hanno goduto della sua amicizia e a un dato punto si sono ritrovate negli scomodi panni del traditore. O sei con lui o sei contro di lui e se non se con lui, sei un cretino. Anche per questo tendeva a fare del casa-ufficio la sua filosofia. In una redazione neutra si sarebbe trovato a disagio.
A Galbiate invece, quando c’era una divergenza, Adriano si alzava e se ne andava. Spesso a dormire. Lo faceva anche nelle pause dei programmi: ‘Io e Bruno andiamo a ripassare il copione’. Si chiudeva con me in roulotte, faceva scattare la luce rossa e si sdraiava per un’ora. Fuori, gli autori, erano disperati. Ma Adriano improvvisava, non aveva l’ansia del perfezionista, di chi deve sapere ogni cosa a menadito dell’interlocutore come Fazio, Baudo o Costanzo.
Lei e Celentano avete mai litigato?
Con lui mi sono soprattutto divertito, ma Adriano aveva le sue esigenze e quelle degli altri spesso erano meno importanti. Una volta mi convocò per una sessione di prove alle 10 del mattino. Si presentò tardi. Fuori calava la nebbia. Tornai in piena notte a Torino, stravolto, con gli occhi sulla striscia dell’autostrada. Mi arrabbiai.
E le storie divertenti di cui parlava?
Ce n’è una risalente ai tempi in cui acquistò la villa. Diede incarico a un geometra di comprare gli ettari necessari a non esser disturbato e si raccomandò di non fare a nessuno il suo nome. ‘Altrimenti le cifre lievitano’. ‘Fino a quando non impiantiamo il cantiere però – concesse al geometra – dica pure ai contadini che possono continuare a coltivare’.
La domenica andava in perlustrazione e si godeva il panorama. Un giorno si affaccia e vede un orto splendido. Si avvicina. Investe il contadino di complimenti: ‘Fa proprio bene a fare quel che fa’. E quello: ‘E faccio bene sì, qui è tutto mio’. Il geometra aveva toppato e con ogni evidenza, si era dimenticato di quel centrale pezzo di terreno. Adriano sbiancò e con consumata pausa d’attore continuò a parlare come se niente fosse: ‘Me lo venderebbe?’.
E il contadino?
Annuì. Poi si chinò e iniziò a sollevare la terra con le mani. ‘Glielo vendo, ma a patto che lo copra tutto con biglietti da centomila’. Quella dimenticanza, Adriano la strapagò.
E perché mai Celentano non vorrebbe raccontare questa cosa?
Teme che una storiella così o il racconto epico delle sue partite a poker possano sminuirne la figura. Ha paura che la gente possa considerarlo tutt’a un tratto umano e non marziano. Ma si sbaglia. Trionferebbe e starebbe finalmente simpatico a tutti. Forse il punto è proprio quello. Non gli va. È fatto così.