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NO GENDER STYLE - DAL CINEMA ALLE SFILATE DI PITTI: SI VA OLTRE L’UNISEX - GLI STILISTI ESPLORANO I CONFINI DELL’IDENTITA’: SAINT LAURENT VENDE GLI STESSI STIVALETTI E GLI STESSI ‘’CHIODI’’ A UOMINI E DONNE

Fabiana Giacomotti per “il Foglio”

 

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Iniziare l’anno lavorativo a Pitti mi piace. In un mondo così violento e instabile questo rito che si ripete immutato, stagione dopo stagione, è un conforto”, dice l’amico Milo Antini, garbato e disincantatissimo venditore di pubblicità, abbattendosi sui lunghi divani barocchetti di uno dei saloni al primo piano di Palazzo Corsini sul Lungarno.

 

La moltitudine si accalca attorno all’aperitivo di formaggi e pata negra nell’aria satura di odori, in attesa che venga aperto il grandioso Salone del Trono per mettersi seriamente a tavola e smentire con i fatti il luogo comune secondo il quale la gente della moda non mangia: la cena offerta da Brunello Cucinelli, un trionfo di risotti, volatili e carni appenniniche, apre infatti tradizionalmente il tour delle attività post fieristiche serali, ed è uno degli elementi di rassicurazione che Milo condivide con la maggior parte degli astanti, lui certamente con maggiore ironia ma forse con minore attenzione di quanto la questione meriti.

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Perché sì, è vero che a Parigi si muore per una vignetta, ma è anche vero che parte delle ragioni per cui può succedere che a una giornalista venga intimato di coprirsi la testa sotto minaccia delle armi si vedono anche qui, fra questi padiglioni che mostrano una tendenza sempre più evidente all’indifferenziazione di genere sessuale, di abiti pensati per le persone e non per il loro sesso o, extrema ratio, per il sesso a cui sentono di appartenere e che vogliono vivere.

 

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E queste sono tutte, certamente, buone ragioni per sentirsi vicini a chi sfila con le matite, fossero pure appuntite nella sola retorica. All’intersezione fra Chabu e John Galliano c’è Goya, sarebbe meglio che non ce lo dimenticassimo mai, e il nostro tessuto culturale è anche un tessuto vero e proprio, creato per scoprire i pensieri, e non per avvolgere le teste.

 

Un filo di imbarazzo fra chi produce vestiti e tessuti, però, in questi giorni c’è. Il mondo sfila appunto per la libertà di stampa con le matite in mano e in apparenza noi dell’ago e filo sfiliamo solo in passerella e poi ci ritroviamo sempre qui. Il Grande Slam: Pitti Uomo a Firenze, poi Milano e quindi Parigi.

 

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Quindi, a fine gennaio, il tour-couture: Parigi e Roma. Una vita scandita da cene e passerelle. La prima sera da Cucinelli, la sera successiva tipica sfilata in villa sulla collina di Fiesole o limitrofi, la terza sera performance artistica per darci il brivido dell’ignoto.

 

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Ora siamo un po’ a disagio a parlare di lane follate, ma sempre un filino arroganti per via del denaro che tuttora portiamo alle casse di una stampa che senza di noi avrebbe ancora meno matite da agitare in piazza a mo’ di picche, naturalmente senza teste da infilzarvi sopra perché quella fase, noi, siamo certi di averla superata e le immagini di bambini con la pistola in mano ci fanno orrore perché al Louvre andiamo a vedere solo la “Gioconda” dimenticando di passare davanti ai Delacroix.

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In realtà, forse bisogna ribadirlo, il mondo occidentale sfila con quei simulacri di libertà presunta rivolti al cielo e sente di poterlo fare anche perché, in piccolissima, trascurabile parte, può permettersi di farlo vestito come più gli aggrada, e cioè nel modo, moda-modus, che preferisce.

 

Il fatto che questo modo, dopo tanti anni, esplori nuovamente ma con un nuovo significato i confini dell’unisex, e che lo faccia in un momento storico così esplosivo, non è dunque un dato da trascurare, anche perché molti segnali mostrano come, pur faticosamente, anche in altri ambiti lo stereotipo di genere inizi a mostrare qualche cedimento.

La moda di adesso lavora sui tessuti e sullo stile, molto sui tagli e in misura minore sulle forme e le tipologie, ma lo scardinamento dei codici non passa solo attraverso la moda, per fortuna.

 

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Dalle pieghe di questa nostra disgraziatissima storia occidentale riemergono infatti, lanciate come pop star perché lo scopo è questo, figure storiche controverse e trascurate per la loro eccentricità e la scarsa aderenza ai canoni della propria epoca, meglio ancora se scienziati e matematici come Alan Turing e la sua assistente Joan Clarke nel film più singolare della stagione, “The Imitation Game”, che forse porterà qualche donna in più nelle facoltà di Matematica e di Ingegneria, oppure Augusta Ada Lovelace, protagonista di un saggio di Steven Johnson che sta vendendo molto bene in Inghilterra:

 

“How we got to now”, cioè “Come siamo arrivati fin qui”, da cui si evince che parecchio ci siamo arrivati anche grazie agli algoritmi di questa delicata signora del primo Ottocento, conosciuta fra i nerd come “la prima programmatrice di computer della storia”, ma nota anche agli studiosi di letteratura come l’unica figlia legittima di Lord Byron.

 

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Il linguaggio di programmazione “Ada”, finanziato dal ministero della Difesa degli Stati Uniti, prende il nome da lei, che forse meriterebbe di insinuarsi nella memoria e nei sogni delle bambine con un bel cartoon prima che lo facciano Miley Cyrus e la banda dei culi al vento. Le mamme devono avere qualche modello a cui fare riferimento, e lei è uno di quelli buoni.

 

La madre di Ada, Annabella Milbanke, aveva invece un esempio da cui prendere le distanze, ed era suo marito. Nel timore che la piccola diventasse “altrettanto debosciata; una poetessa, magari”, appena adolescente la fece accogliere fra gli allievi di William Frend, di William Kong e soprattutto di Mary Somerville (segnatevi anche questo nome), l’autrice dei manuali di scienze matematiche in adozione all’Università di Cambridge in quegli anni, perché ne incanalassero l’eccezionale intelligenza verso obiettivi “non risibili”.

 

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Una scelta formativa radicale, in anni in cui alle donne era preclusa l’ammissione alla Royal Society e in generale agli studi scientifici, ma Annabella guardava alle possibilità della piccola, e non al suo sesso di nascita, e poi la famiglia aveva già abbattuto un numero di convenzioni tale da potersi reggere un nuovo, eventuale scandalo. Che non ci fu.

 

Nel giro di pochi anni Ada, bella e semmai affetta dalla convenzionale ipersensibilità dei romantici (“il mio sistema nervoso mi spinge a vedere cose nascoste, invisibili agli altri e ai sensi ordinari”, scriveva, ed era più o meno quanto sosteneva anche il padre in tema di amori proibiti che per lui stavano tutti in casa), era sposata con un uomo davvero notevole, il conte di Lovelace, ma era soprattutto diventata la protetta di Charles Babbage.

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Per l’autore della macchina differenziale, la sua “incantatrice di numeri” avrebbe studiato un algoritmo per sviluppare i numeri di Bernoulli che oggi viene riconosciuto come il primo programma informatico della storia, lavorando poi, grazie alla corrispondenza con il futuro ministro del Regno d’Italia Luigi Menabrea, all’idea di una macchina di “intelligenza artificiale” che prevedeva l’uso delle schede perforate del telaio Jacquard.

 

E qui torniamo a noi, cioè ai tessuti lavorati, che nella loro declinazione o stampa di gusto maschile vengono proposti in misura sempre maggiore anche al pubblico femminile, e a un’uniformità di valutazione delle tendenze che per la prima volta vede le giornaliste sinceramente interessate a quanto vedono anche per se stesse.

 

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I trench in velluto rigato e le scarpe allacciate della stilista inglese Margaret Howell, che apre boutique a Firenze e dichiara di “lavorare sulle persone, non sul loro sesso”; Andrea Incontri che fa sfilare la sua collezione alternando uomini e donne vestiti non necessariamente delle stesse forme, ma con gli stessi tessuti, gli stessi “pesi” come si dice in gergo. E poi camicie, camicie, camicie.

 

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Le camicie stampate su indaco di Finamore, quelle dall’aria vissuta di Massimo Alba. I buyer hanno già decretato la fine della t-shirt sotto la giacca o il cardigan, che tutti hanno imparato a indossare imitando Giorgio Armani vent’anni fa, e le signore si domandano se la polo trapuntata di La Martina starebbe bene anche a loro. L’unica zona neutrale di questo momento di guerra reale, ma anche ideologica, sembra in paradosso il genere sessuale nel vissuto della moda occidentale. “Man or woman, it’s a neutral zone”, va sostenendo infatti il designer Jonathan Anderson.

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E mentre a Pitti l’attrice di culto Tilda Swinton mette in scena al Teatro della Pergola una performance che esplora i confini dell’interscambio di personalità indossando i capi lasciati al guardaroba dagli spettatori, a Londra, il grande magazzino Selfridges si prepara a lanciare il progetto A Gender, la prima linea di abbigliamento non specifica per uomini o donne.

 

Che no, bisogna ribadirlo, non significa unisex come nei primi anni Settanta: la differenza è molto più sottile, e dunque rivoluzionaria. L’unisex, (pensiamo ai primi jeans della Wrangler che tutti abbiamo indossato nell’adolescenza), postulava una forma genericamente maschile che le donne adottavano per sé senza adattamenti.

 

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Quel tipo di moda che tuttora viene definito “lo stile boyfriend” e che notoriamente portano bene solo le altissime, bellissime, magrissime: camicia lunga dalle maniche arrotolate, chinos tenuti stretti in vita da una cintura di cuoio che, essendo come ovvio lunghissima, penzola nel vuoto o viene ulteriormente annodata, con un effetto di raffinata sensualità che le donne non alte e non sottili trovano oltremodo irritante in quanto irriproducibile.

 

Il primo cambio di rotta si vide all’inizio dei Duemila, quando Hedi Slimane, a capo della linea Dior Homme, iniziò a infilare fra gli espositori delle boutique dei tailleur pantalone dal taglio ideale anche per le donne. Oggi che è alla guida di Saint Laurent, Slimane vende indifferentemente alla clientela maschile e femminile gli stessi stivaletti e gli stessi chiodi, così come le giacche doppiopetto di Neil Barrett vantano una clientela ambosessi.

TILDA SWINTON FOTO LAPRESSE TILDA SWINTON FOTO LAPRESSE

 

“La questione non è chi indosserà il capo, ma la sua funzionalità”, dice appunto Margaret Howell. L’adattamento della portabilità è una conseguenza, così come lo fu per Coco Chanel quando, passo dopo passo, adattò a sé i cardigan dell’amante, il duca di Westminster, ma con una differenza fondamentale. Quello era ancora un derivato, per certi versi una seconda scelta rispetto all’originale, che rimaneva il pezzo autentico, il modello. Dunque, un’involuzione.

 

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L’abbigliamento no gender è invece un’evoluzione di questo concetto, sebbene non necessariamente praticabile o interessante per tutti. E’ un pensiero, un campo di ricerca per esplorare i confini dell’identità di ciascuno, e a differenza dell’unisex non annulla le differenze (quei primi jeans appiattivano il didietro e ci facevano apparire informi come sacchi), ma semmai le esalta, adattandosi alla proiezione che ciascuno ha di sé.

 

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Lo studio artificiale per valutare i confini del naturale, un tema che a Ada Lovelace piacerebbe moltissimo, anche se non ci sono dubbi che alcuni campi di ricerca, soprattutto nel capospalla, rimangano impraticabili: il corpo maschile e quello femminile sono e restano diversi.

 

Per dirla chiara, la presenza delle tette non è un dato che si possa trascurare, sebbene tanti siano stati tentati di farlo, negli anni, e Miuccia Prada abbia lanciato un segnale piuttosto chiaro lo scorso settembre usando come colonna sonora della collezione primavera- estate 2015 estratti della “Ballad of Genesis and Lady Jaye”, il progetto pangenico, di fusione attraverso la chirurgia plastica, messo in scena all’inizio del decennio dalla coppia di performer Breyer POrridge e Lady Jaye.

 

Un esperimento ai limiti della tollerabilità concettuale, estremo, che però ha lasciato già molte tracce nelle collezioni d’avanguardia e nella stessa collezione uomo di Prada, presentata a Milano pochi giorni fa.

 

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Poi, certo, ci sono e continueranno a esserci donne (e uomini) poco interessati a questo tipo di valutazioni, o anche le donne strizzate e fasciate all’inverosimile, talmente tese a enfatizzare i propri caratteri sessuali da non accorgersi nemmeno di sfiorare i limiti del bondage e delle sue implicazioni psicologiche. Il solo fatto che entrambi questi terreni di analisi siano aperti alla riflessione, alla messinscena e all’esposizione è però un’opportunità non negoziabile, a cui ci parrebbe inconcepibile rinunciare. Insomma, vergognarsi a parlare di sfilate di moda mentre il mondo sfila per la libertà di espressione non ha alcun senso. Stiamo parlando della stessa cosa.

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