L'UOMO CHE CREO' IL SOUND DEI BEATLES - GEORGE MARTIN DECISE DI METTERLI SOTTO CONTRATTO ANCHE SE LI AVEVA TROVATI “ORRIBILI” - PAUL MCCARTNEY: “UN SECONDO PADRE” - RAPPORTI DIFFICILI CON LENNON E HARRISON CHE GLI PREFERIRONO PHIL SPECTOR PER “LET IT BE”
Ernesto Assante per “la Repubblica”
Sir George Martin, il produttore che ha messo la sua firma su tutti gli album dei Beatles, è morto martedì scorso a Londra. Aveva novant’anni, la maggior parte dei quali passati a creare, scrivere, suonare, dirigere musica.
Nella sua lunga carriera aveva lavorato nel dipartimento di musica classica della Bbc, nel cinema e nella televisione, con grandi attori come Peter Sellers e Peter Ustinov, con musicisti come Jeff Beck, Elton John, i Dire Straits e gli Who.
Ma, per ricordarlo, diremo tutti per semplicità che è stato il “quinto Beatle”, e aggiungeremo, perché è vero, che è stato uno dei più grandi produttori di sempre. Ma entrambe le definizioni non basterebbero a spiegare la grandezza della sua opera, la potenza inaudita delle sue invenzioni, l’importanza assoluta del suo lavoro, il contributo che ha dato alla cultura dei nostri tempi.
È certamente vero che i Beatles devono a lui molto e, come ha scritto ieri Paul McCartney, è stato per lui e gli altri “un secondo padre”: «Se c’è qualcuno che meritava il titolo di quinto Beatle era lui. Dal giorno in cui ci fece firmare il primo contratto discografico all’ultimo giorno in cui l’ho visto è stato la persona più generosa, intelligente e musicale che abbia avuto il piacere di conoscere». «Un gigante della musica», ha twittato il premier britannico David Cameron.
Ma non basta, perché Sir George Martin è stato in realtà uno dei più grandi musicisti del Novecento. E non solo perché ha scritto, arrangiato, eseguito grande musica, perché ha spinto i Beatles oltre i loro limiti o altre volte ha valicato i limiti imposti all’epoca dalla tecnologia spinto dai Beatles stessi, ma soprattutto perché ha sostanzialmente contribuito a creare e a perfezionare l’uso di uno strumento musicale completamente nuovo: lo studio di registrazione.
Martin, assieme ai Beatles, ha trasportato la musica moderna registrata, che fino ai primi anni Sessanta altro non era che la “fotografia” sonora di quello che accadeva veramente davanti ai microfoni degli studi di registrazione, nell’universo del possibile facendola uscire da quello del reale. Con i Fab Four a Abbey Road ha creato suoni che, all’epoca, non potevano essere riprodotti dal vivo, sonorità che non erano realmente mai state suonate, manipolando, tagliando, montando, ricostruendo, creando con i nastri, i registratori, i delay, i distorsori, gli echi e i riverberi.
Creando, non registrando, facendo nascere oggetti sonori prima inesistenti. Provate ancora oggi ad ascoltare Tomorrow never knows da Revolver, agosto 1966, poco meno di cinquanta anni fa: tutto quello che Lennon aveva immaginato si trasforma in suono, trovando forma in una voce raddoppiata attraverso una macchina appena creata ad Abbey Road e filtrata attraverso il Leslie di un organo Hammond per realizzare il desiderio di John di avere una voce «come quella del Dalai Lama, più migliaia di voci di monaci tibetani salmodianti sulla vetta di una montagna».
E poi, per la prima volta nella musica pop, registrazioni tagliate e messe in loop per creare uno straordinario effetto circolare, voci modificate, ritmi rallentati, strumenti manipolati, al fine di accompagnare l’ascoltatore in una straordinaria esperienza psichedelica.
Se John Cage ha aperto le porte alla libertà, George Martin ha fatto passare la gente attraverso quelle porte, trasformando, con l’inventiva dei Beatles, l’avanguardia in pop, permettendo a chiunque sia venuto dopo di lui di fare altrettanto e di più, fino ad arrivare ai nostri giorni.
La “smaterializzazione” della musica è iniziata lì, nello Studio 3 di Abbey Road, con John, Paul, George e Ringo a inventare suoni che non avevano bisogno di strumenti per essere suonati, e George Martin a trasformarli in realtà.
È stato comunque il “quinto Beatle”, con loro ha condiviso sogni e speranze, successi e avventure, visioni e meraviglie, in quegli studi di Abbey Road trasformati nel palazzo reale della musica rock.
Dopo la fine dell’avventura dei “favolosi quattro”, con Paul McCartney ha mantenuto un rapporto strettissimo fino ai nostri giorni, lavorando a molti dei suoi album solisti, è stato grande amico ed estimatore di Ringo, il primo a twittare la notizia ieri
(«Uno dei più raffinati batteristi di sempre», aveva detto di lui Martin), mentre con Lennon e Harrison ha avuto rapporti più difficili (furono John e George a preferirgli Phil Spector per Let it be), ma ha coltivato l’eredità beatlesiana cercando spesso di riportarla all’attualità, come ha fatto con lo spettacolo Love del Cirque du Soleil o, sempre assieme al figlio Giles, nel lavoro di rimasterizzazione dell’intera opera del quartetto di Liverpool.
Ma anche se volessimo dimenticare tutto questo, basterebbe il fatto che Martin, a differenza di Dick Rowe che aveva rifiutato la band dopo l’audizione alla Decca, decise di mettere i Beatles sotto contratto perché, pur trovandoli per molti versi “orribili”, ne aveva colto le potenzialità.
george martin con i beatles p c dsd
Come Cristoforo Colombo sapeva che qualcosa, da qualche parte aspettava di essere “scoperta”, e il nuovo mondo su cui Martin mise piede, la leggendaria Pepperland beatlesiana, è per molti versi il mondo sul quale noi ancora oggi, felicemente, mettiamo i nostri piedi.