JAS PHILOSOPHY: SURF SULLA VITA! – GRANDE INTERVISTA ANTI-TROMBONAGGINE DI JAS GAWRONSKI: “NON HO PENSIERI PROFONDI. NON MI INTERROGO. NON MI ANGOSCIO. NON CREDO NEL POTERE DELLA SOFFERENZA. SEMPLICEMENTE VIVO” – IL SUPERFICIALISMO COME MASSIMO DELLA PROFONDITÀ
Antonio Gnoli per La Repubblica
Soltanto ora che si approssima agli 80 anni Jas Gawronski riesce a guardare dentro al suo passato. Soltanto ora — che un’intera famiglia di fratelli e sorelle, come in uno spensierato gioco di società, si è celebrata ieri nel bizzarro compleanno collettivo dei 500 anni raggiunti (la festa si è svolta nella villa di famiglia a Migliarino Pisano), la vita sembra fornirgli qualche motivo di riflessione ulteriore.
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Quasi di racconto di un’esistenza che non esita a definire fortunata. «Non ho meriti particolari», dice con un tono elegantemente sommesso. «Eppure, se mi volto indietro, mi vedo spesso al posto giusto. C’è un’intelligenza in questo? Se c’è, non si lega alla nozione di tempo, ma allo spazio.
Al senso dell’orientamento e del viaggio. Parlo cinque lingue. Ma non mi sento un uomo colto. Tutto quello che ho letto in larga parte l’ho fatto negli anni giovanili. Non ho pensieri profondi. Non mi interrogo. Non mi angoscio. Semplicemente vivo».
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Ecco uno snobismo che non ha bisogno di ulteriori aggettivi. Più che la testa è il corpo a parlare. Ancora bello nella sua asciutta eleganza. Mi chiedo quanto ancora ci sia in lui della vanità di un tempo. Insidiata, per altro, da una calvizie giovanile: «All’inizio la perdita dei capelli fu una tragedia. Ero giovane e i pochi soldi che avevo li spesi con una ditta che si chiamava Acchers. Prometteva mirabilie. Ricordo una bella ragazza che mi massaggiava la cute con un’improbabile lozione. Fu un imbroglio. Sei mesi dopo me ne feci una ragione».
Jas Gawronski e Enrico Mentana
Non dà l’idea di un uomo della tragedia.
«Non è il mio forte. Ho sempre cercato di tenermi alla larga dalla disperazione e dall’infelicità».
Non è facile.
«No, non lo è. Riconosco di essere un uomo superficiale. Un buon cattolico, come può esserlo un polacco, che non crede nel potere della sofferenza».
A proposito di origini polacche, dove è nato?
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«In realtà sono nato a Vienna. Due anni prima dell’Anschluss, l’annessione dell’Austria alla Germania. Era il 1936. Non ho ricordi, ovviamente. Mio padre era ambasciatore. Mia madre, Luciana Frassati Gawronska, fu una donna che in molti hanno definito straordinaria. Si erano conosciuti a Berlino negli anni Venti. Mio nonno, Alfredo Frassati, era stato direttore e proprietario della Stampa . Nel 1925 dovette lasciare tutto. Il fascismo l’obbligò a vendere la testata e ad abbandonare la carica di direttore».
Che ricordo ha di lui?
januaria piromallo e jas gawronsky
«Il momento in cui ci siamo più frequentati è stato negli anni dell’infanzia che ho trascorso a Pollone, dove il nonno era nato. Un uomo all’antica. Taciturno. Energico. Lo ricordo spesso chiuso nello studio. Dei due figli aveva una predilezione per Pier Giorgio, era il suo orgoglio. Lo zio morì giovane. Fu un personaggio straordinario che molti anni dopo Giovanni Paolo II avrebbe beatificato».
E nei riguardi di sua madre?
«Fu un rapporto più conflittuale. Per certi versi si assomigliavano. Erano entrambi tenaci e curiosi. So, da alcune lettere, che il rapporto con il nonno non fu mai tranquillo ».
A proposito di lettere è vero l’affettuoso scambio epistolare con il direttore d’orchestra Furtwängler?
Jas Gawronsky con la figlia Carolina
«Affettuose? Furtwängler si prese una vera cotta per la mamma. A Vienna, dove credo si fossero conosciuti, il suo salotto era frequentato da Alma Mahler, Franz Werfel, Oskar Kokoschka, Arturo Toscanini. Dunque non è difficile immaginare il fascino e la seduzione che questa donna bellissima sapeva ricreare».
Gli corrispose in qualche modo?
«No, per quello che ne so: no. E del resto le lettere, per quanto sembrassero scritte da un innamorato, restarono nella correttezza di un rapporto di amicizia».
Sua madre era a conoscenza che Furtwängler si compromise pesantemente con il nazismo?
«Non ne so parecchio. Mi pare di aver letto da qualche parte che Thomas Mann lo definì “un lacchè del Terzo Reich”. So però che la mamma cercò in tutti i modi di far riavvicinare Toscanini e Furtwängler, quando il primo si infuriò per i cedimenti politici dell’altro».
A proposito di politica è curioso, perfino sorprendente, che sua madre abbia più volte incontrato Mussolini, scrivendo in seguito di questi colloqui.
«La ricordo che tornava a casa e si chiudeva nella sua stanza a scrivere».
Tutto qui?
Lillio Ruspoli Carlo Giovannelli Jas Gawronskj
«Ero piccolissimo. I colloqui, in tutto mi pare furono sei, avvennero tra la fine del 1938 e il 1940. Non era, ovviamente, una fan del duce. Ma preoccupata per tutto quello che stava accadendo in Polonia e nel resto d’Europa ».
Cosa sperava di ottenere da Mussolini?
«All’inizio niente. Il primo incontro avvenne perché mia madre voleva essere accreditata a Varsavia come organizzatrice degli scambi culturali tra i due paesi. In realtà non rinunciò all’idea di poter convincere Mussolini a non imbarcarsi nella guerra».
Le cose andarono in tutt’altro modo.
«Tra quello che speriamo, o che gli altri sperano, e ciò che si realizza ci passa un mare. I miei, ad esempio, speravano che facessi la carriera diplomatica».
Vittorio Sgarbi Jas Gawronski e Isabella
E invece?
«Nella testa avevo il giornalismo. Chiesi a mio nonno cosa ne pensava. Mi rispose, brusco, come al solito: “lascia perdere, è un mestiere tramontato”».
E lei?
«Non lasciai perdere. Della laurea in scienze politiche non sapevo che farmene. Avevo girato un po’ il mondo. Ero stato a Parigi a 13 anni. A New York, la prima volta a
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17. Conoscevo perfettamente l’Europa centrale. Cosa avrei dovuto fare: chiudermi in qualche sperduta ambasciata? Mi presentai a Enzo Bettiza. L’incontro avvenne a Vienna, al Café Mozart. Gli esposi i miei programmi. Fu prodigo di consigli. Cominciai così».
Dove?
Jas Gawronski e la figlia Carolina
«All’inizio a Varsavia per alcuni giornali italiani. Poi in televisione. Dopo una lunga collaborazione con Enzo Biagi e Sergio Zavoli, fu Ruggero Orlando a volermi come secondo. Alla fine divenni corrispondente da New York. Ci sono rimasto 11 anni. Poi a Parigi e infine a Mosca».
Il periodo americano come fu?
«Erano gli anni Sessanta. È scontato definirli mitici. Per me lo furono. Quel mondo era un concentrato di occasioni. Tra la mia vita e ciò che accadeva non c’erano ostacoli».
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Anche nella vita culturale?
«Beh, sì».
JAS GAWRONSKI MARINA RIPA DI MEANA
Chi ha conosciuto?
«Un po’ tutti: da Warhol a Rauschenberg. La prima volta che incontrai Warhol vidi una strana figura, dai bizzarri capelli, che si aggirava a una festa con una polaroid in mano. Ebbi l’impressione che non se lo filasse nessuno. Poi, rapidamente, conquistò fama e soldi. Lo incrociai altre volte e una sera avvicinandolo gli chiesi se mi vendeva la metà di un’opera composita, alla metà del prezzo ».
E lui?
«Mi guardò con una certa freddezza. E disse che non avrebbe mai diviso ciò che nella sua testa era indivisibile. Peccato. Non avevo 40 mila dollari per prendere quattro immagini che aveva pensato insieme».
E Rauschenberg?
«Lo conobbi in casa di Carla Pecci, un punto di ritrovo per artisti e intellettuali. Persone che facevano tendenza come Truman Capote o altri che le tendenze, le mode, le intercettavano. Come Diane Vreeland, direttrice di Vogue . Quegli anni mi sembrano appartenere a un’epoca irripetibile».
Li racconta con eleganza Marella Agnelli nel libro di “memorie” – L’ultimo cigno – che uscirà il mese prossimo da Adelphi.
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«Ho avuto il privilegio di darci un’occhiata. È vero c’è molta eleganza. Del resto Marella è stata ed è una donna straordinaria. Dotata di uno stile naturale».
Non deve essere stato semplice il rapporto con Gianni Agnelli.
«Non lo fu. Ma ha saputo confrontarsi con le sofferenze che a volte il marito le provocava con grande classe e intelligenza. Lui sapeva di essere un personaggio pubblico. Ma, da questo punto di vista, lei non dava l’impressione di essere la moglie di Agnelli. Non si è mai lasciata influenzare dalla sua indubbia personalità».
Nelle “Memorie” si racconta, tra le altre cose, del rapporto con Truman Capote, e alla fine mi pare ne esca delusa.
«Furono, davvero, molto amici. Ma Truman era Truman non si poteva mettergli il sale sulla coda».
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Lo ha conosciuto?
«Lo incontrai la prima volta in una vacanza a Majorca, dove gli Agnelli avevano affittato una casa. Andai ospite. Che dire di lui? Era... era sfrontato. Ecco. Poi ricordo la barca di Agnelli, parcheggiata in una specie di piccolo fiordo naturale. Sembrava di stare in un quadro».
MARINA VALENSISE E JAS GAWRONSKI
Come ha conosciuto Gianni Agnelli?
«Non ne sono sicuro, ma credo tramite mia sorella Wanda. Ci fu subito una buona intesa. Gli piacevano i giornalisti».
A lei piaceva come si comportava?
«Era sorprendente la sua energia. Col tempo capii che era incapace di stare fermo. Un bisogno di compagnia che, a volte, lo portava a frequentare perfino gente poco
adatta. In certi momenti diceva di adorare la solitudine. Ma non penso fosse vero».
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La solitudine lo spaventava?
«Credo soffrisse l’ horreur du domicile. La cosa che all’inizio mi colpì di lui era la completa assenza di soggezione. La sera che Fidel Castro venne a cena a casa sua non notai nessuna deferenza, nessuna emozione. Gli sembrava la cosa più normale del mondo».
Era la consuetudine a frequentare i grandi.
«Non c’è dubbio. Ma non se ne faceva un vanto e non era presuntuoso».
Di cosa parlavate?
«Di tutto, tranne che di calcio. Non ne capivo nulla».
Parlò mai del figlio?
«In qualche occasione sì. Vi accennò con tono preoccupato. Constatando la totale assenza di dialogo tra loro ».
Quando dice preoccupato a cosa si riferisce?
«Penso fosse una preoccupazione aziendale e privata ».
Una volta ha dichiarato che la morte di Edoardo fu per l’avvocato un sollievo.
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«Conoscendo i loro rapporti, ho detto che forse provò sollievo».
Perché? Un padre non si rasserena davanti alla morte di un figlio.
«È vero. E può sembrare terribile. Ma la mia sensazione è che Agnelli si sentisse impotente davanti alla profonda sofferenza del figlio. Non sapeva e non poteva fare nulla».
Furono rapporti aspri?
«Era incapace di asprezze. Avrebbero richiesto troppo impegno. Agnelli è stato soprattutto un uomo straordinariamente ironico».
Fu un modello per lei?
«No. Però una cosa che mi ha trasmesso, e che era la sua qualità maggiore, fu il culto delle cose belle: i quadri, le donne, i paesaggi. Ha incarnato, in un certo senso, l’estetica dell’esistenza. E grazie a lui ho potuto conoscere gente che mai mi sarei sognato di incontrare».
JAS GAWRONSKI E LA PURINI SISTER
Tutti ricordano il suo incontro con Giovanni Paolo II.
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«Furono due interviste al pontefice che fecero il giro del mondo. Ma grazie al mio lavoro ho potuto incontrare molti grandi della terra: Castro, Chiang Kai-shek, Malcom X, Margaret Thatcher e l’ayatollah Khomeini che, a Parigi, dov’era in esilio, mi ricevette tre volte».
Meglio essere potenti o ricchi?
«Non sono stato né l’una cosa né l’altra. Almeno non in modo determinante. E non so cosa rispondere. Ma sono convinto che non contengano la formula della felicità».
Ho dimenticato di chiederle se Agnelli era una persona felice?
«Come parecchi di noi lo sarà stato in alcune circostanze. Ma per uno che aveva tutto a disposizione cosa poteva essere la felicità? Francamente non saprei cosa aggiungere».
Che ricordo ha dei suoi ultimi giorni?
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«Era preparato. La sua fine è stata lenta e prevedibile. Ma preferirei sorvolare».
Sorvola spesso sulle cose?
«È un difetto, lo riconosco. Non ho concentrazione e sono un uomo, come ho già detto, superficiale».
Cosa significa superficiale?
ALESSANDRA MARINO VAGHEGGI JAS GAWRONSKI
«La mia superficialità è di non essermi mai impegnato a fondo nelle battaglie che ho dovuto affrontare. Di non essere stato – e lo dico anche in senso positivo – abbastanza ambizioso. Ho sempre detestato la finta profondità delle ideologie. Ho spesso ondeggiato tra le persone e le situazioni».
Jas Gawronski - copyright Pizzi
Si chiama arte del galleggiamento.
«Toccate e fughe. La mia vita. In una battuta».
Che voto si dà?
«Ambirei alla sufficienza. Ma non spetta a me. Penso che giunto alla mia età vorrei lasciare tutto in ordine. Non voglio casini».
Le crea un po’ di angoscia?
«La morte?».
Sì.
«Nessuna angoscia, solo un po’ di curiosità. È importante come arrivi al grande appuntamento. Penso che la natura ti faciliti. A un certo punto diventi stanco. Stanco di vedere le persone, di uscire di casa, di mangiare. Stanco di vivere. E lì capisci con sollievo che quello è l’ultimo round».