RUGGERI ROCK SHOW: "NON SONO MAI STATO DI DESTRA MA PER LA SINISTRA CONFORMISTA E VIOLENTA ANNI ’70 ERANO TUTTI FASCISTI. LE IMPRESE VIGLIACCHE CONTRO LOU REED O DE GREGORI NE SONO STATE L'EMBLEMA. BOWIE ERA UN "FROCETTO NAZISTA" - IL NONNO MORTO D’INFARTO DOPO LA SCONFITTA DELLA MONARCHIA, IL PUNK, SANREMO, LA GAG CON BENIGNI, LA COCA E... – VIDEO
Antonio Gnoli per La Repubblica
I suoi capelli biondo platino, tintura quasi albina, sembravano quelli di un piccolo divo di fotoromanzi o di un Warhol in controtendenza con gli eskimo degli anni Settanta. I vistosi occhiali dalla montatura bianca, che all' epoca contrastavano con quelli rosa di Ivan Graziani, furono il sugello di quegli anni apocrifi e nascosti di Rock decadente e di Punk aggressivo ed emarginato.
Erano le vite che Enrico Ruggeri attraversava come una salamandra il fuoco: «Quante volte sono rinato. E quanti arrivederci sono stati addii e le promesse fraintendimenti e le delusioni modi nuovi per affrontare il futuro. Se mi guardo indietro, tra rabbia e timidezza, mi riconosco, quasi che il tempo si sia per incanto fermato». Ruggeri ha sessantuno anni ed è apprezzato in tutto quel che fa.
Si è regalato un' autobiografia (uscita per Mondadori qualche mese fa); un insegnamento al conservatorio (il Verdi di Milano); un rilancio con i Decibel, una band che dopo anni è tornata a suonare assieme (ora è in tour per l' Italia).
Nel suo studio bunker alla periferia di Milano, direzione Linate, ha tutto quello che gli serve. Ecco, penso, un uomo gradevole, rilassato come dopo una tempesta emotiva. Che scrive canzoni perché, dice, «quando sto male tutto il mio mondo finisce in qualche frase». Lo stesso contrasto tra il pizzo e la testa levigata a lucido lo noto nella sua musica: a un tempo dolente e aggressiva.
Che valore dai a una canzone?
« Oggi il panorama è desolante e dovrei dire che una canzone vale men che zero. Forse non ho la generosità per riconoscere il talento degli altri. Ma vedo soprattutto ondate di mediocrità che qualcuno ha la pretesa di chiamare musica».
Eppure vai a Sanremo, sputi nel piatto in cui mangi?
«E questo cosa c' entra, ci vai con la tua personalità assumendotene i rischi. Per essere uno che arrivava da una certa musica, che in Italia era ascoltata con disgusto, fu abbastanza strano che agli inizi degli anni Ottanta mi presentassi a Sanremo. Due anni dopo sarebbe andato anche Vasco Rossi. Avevo solo aperto la strada. Dietro a un brano può esserci un condensato di banalità, oppure c' è la tua ricerca, il tuo stile, la maniera di raccontare il tuo mondo che è tanto più efficace quanto più sa essere il mondo condiviso con gli altri».
(...)
Dove sei nato?
«A Milano. Ho avuto la fortuna, diciamo così, di nascere in una famiglia ricca. Un nonno che era stato responsabile della sicurezza del re, morì di dolore quando la monarchia fu sconfitta al referendum del 1946. Un padre che non aveva mai lavorato e che contribuì in maniera determinante a dilapidare il patrimonio. La mamma insegnante di pianoforte. Di fatto fui allevato da tre zie: meravigliose, implacabili, fuori dal tempo e dalla storia. Ricordo che parlavano del fascismo e del re come di un periodo felice. E io le vedevo, pur amandole, come un quadro storto alla parete».
(...)
Che rapporti c’erano fra voi due?
« Per lo più inesistenti. Certe sere, tornando tardi a casa dai suoi giri ludici, pretendeva che mia madre mi svegliasse perché aveva cose importanti da raccontarmi. Erano i soli momenti, in quel risveglio irreale, di contatto vero. In un saliscendi di emozioni guardavo attonito la sua faccia che si esaltava nel racconto».
Lo hai amato o temuto?
«Temuto no, amato forse. La sua intelligenza era disapplicata alla vita. Morì nel 1983 all' età di sessantadue anni. Morì senza chiedere niente. Di depressione e di inedia. Anche il corpo aveva disapplicato. Quando si ammalò scrissi Il mare d’inverno e sentivo quella canzone come la risposta al bisogno segreto di capire cosa fosse una vita incompiuta e mi veniva in mente tutto quello che avrei voluto chiedergli e non gli ho mai domandato».
" Il mare d' inverno" è una svolta nella tua carriera. Una maniera per dire che una fase della tua vita era finita. Chi era il Ruggeri prima maniera?
«Uno cui la musica italiana degli anni Settanta non diceva granché. Solo dopo ho scoperto De Gregori, Guccini, De André. Il mio primo impatto choccante fu nel 1973 a un concerto dove suonava Keith Emerson. Si aprì il sipario del Vigorelli è comparve lui vestito di jeans neri e giubbotto da armadillo. Due ore di assoluta felicità. Decisi allora che avrei dovuto imparare a suonare bene. Poi arrivò Londra dove come per incanto scoprii il Punk e il Rock decadente. Nell' aria si sentivano le note dei Sex Pistols, ma incalzavano quelle di Lou Reed e di tutti coloro che erano partiti dal punk per approdare a qualcos' altro».
Chi?
« Sting, Costello, Patti Smith, Joe Jackson. Parlo di gente che non si è lasciata condizionare da tre accordi. Avrebbero esplorato nuovi orizzonti. Tornai a Milano e insieme alla mia band, i Decibel, decidemmo di allestire un concerto punk in una discoteca.
Affiggemmo i manifesti, soprattutto nelle periferie di Milano. Da tutta la Lombardia arrivarono diverse centinaia di ragazzi. Sapevo che non sarebbe stato facile accoglierli. Due cortei - uno di Lotta Continua e l' altro di Avanguardia Operaia - attaccarono quei giovani pittoreschi, con le creste e le spille, accusandoli di fascismo e impedendo loro di radunarsi».
E voi?
«Per noi fu una pubblicità insperata. Nel casino politico di quegli anni Settanta spuntava una voce originale. Una casa discografica ci fece, nel giro di pochi mesi, realizzare un disco».
Da quel momento sei stato bollato come un artista di destra.
selfie enrico ruggeri abatantuono beccalossi
«Oggi un' accusa del genere farebbe ridere, ma allora la cosa assunse una dimensione provocatoria. Non ero di destra, non lo sono mai stato. Semmai la derivazione del punk era anarchica e tale mi sentivo».
Be', ti davano del fascista.
«Per quella sinistra conformista e violenta, che negli anni Settanta ha cercato di uccidere la musica o di condizionarla, erano tutti fascisti. Le imprese vigliacche contro Lou Reed o De Gregori, per fare un paio di nomi che hanno patito quel clima assurdo di intimidazioni, ne sono state l' emblema. Non dimenticherò mai la definizione di "frocetto nazista" che un foglio di estrema sinistra affibbiò a David Bowie».
Sono anni faticosi durante i quali inizi ad avere successo. Il pubblico ti nota, i discografici ti cercano e tu, che ostenti il linguaggio musicale della provocazione anarchica, decidi di andare a Sanremo. Perché?
«Dovrei mettere in fila un elenco di ragioni. Te ne dico alcune.
Pensavamo di essere un gruppo rock vero, forte e con grandi prospettive. In realtà, salvo qualche eccezione, quasi tutti ci consideravano dei comprimari. Eravamo una band che aspirava al successo, ma non lo aveva raggiunto. Dalla casa discografica ci proposero Sanremo. Per noi, fino a quel momento, il ricettacolo della peggior musica. Che fare? A quel punto tanto valeva affrontarla e poi non era affatto sicuro che avremmo superato le eliminazioni. Partecipammo con molti dubbi e tanto scetticismo».
Alla fine foste chiamati. Che anno era?
«Il 1980, dovevamo vedercela con Toto Cutugno, Bobby Solo, Pupo, Gianni Morandi che tornava al Festival dopo un periodo così così. Vinse Cutugno e noi con Contessa arrivammo sesti. Un risultato insperato. Roberto Benigni, che si esibì con una gag esilarante su Wojtyla, ci fece i complimenti. Tornammo a Milano con la sensazione di aver svoltato. La critica " militante e dura" disse che mi ero venduto. Sotto casa trovai delle scritte piene di insulti. Ci diedero dei figli di puttana. Era il lato sgradevole del successo».
Come lo vivesti?
«Lo puoi immaginare. Però rivisto il tutto oggi, posso dire che producemmo un album, Vivo da Re, che col tempo divenne un cult, al contempo infilammo una serie di cazzate, di errori che spinsero i Decibel a sciogliersi. Restai solo. Con la sensazione di dover ricominciare tutto da capo».
Tra le cazzate c' è stata la droga.
« Fu un capitolo doloroso, in cui c' entrava anche la morte di mio padre, ma soprattutto il desiderio insano di vivere sempre a mille. Era il 1984. Ero di nuovo famoso. Prima le anfetamine, prese soprattutto per dimagrire, poi le persone sbagliate con cui farsi di coca, mi spinsero sulla cattiva strada».
Avevi la sensazione di buttar via la tua vita?
«Questo no, avevo la sensazione di impoverirla. Mi sembrava di passare il mio tempo con persone di cui non mi fregava nulla. Magari stando insieme ore e ore in un privé, come un coglione. Alla fine ne sono uscito perché davvero quella roba e quella gente non c' entravano niente con la mia vita, con la mia storia, con i miei valori».
Enrico Ruggeri Lapresse Sanremo
(...)
Di canzoni belle, dotate di una certa durezza malinconica, ne hai realizzate tante. Ma è come se tu prolungassi quel "mare d' inverno".
«Forse c' è sempre una "canzone alfa" cui le altre vanno dietro e che fa tremare l' anima fino a scioglierla nelle centinaia di versi che seguiranno. Ma poi cos' è una canzone, se non il tempo giusto e misterioso della sua riuscita. Solo in quel momento capisci che potevi realizzarla. Se oggi scrivessi Il mare d' inverno, passerebbe inosservata perché non avrebbe i tratti che una canzone di successo richiederebbe. Il diritto di vivere di una canzone non lo stabiliamo noi, ma il tempo che la prolunga o la sopprime. Tu ci metti la bravura se l' hai; il tempo ci mette la giustizia».
Sai riconoscere il tuo tempo?
«A volte ne vedo solo la coda, altre il muso. L' animale non è facile da catturare».
C' è un tempo del ritorno e uno della novità. In quale ti senti più a tuo agio?
« Non li metterei in contrapposizione. Nella mia vita ho fatto tante cose, a volte perfino in modo isterico perché sentivo che la routine mi usurava. Oggi mi sembra di essere una persona più felice di un paio di anni fa».
C' entra col fatto che hai ricomposto la vecchia band?
«Sicuramente. I Decibel sono stati una parte fondamentale del mio lavoro. Una ferita, aperta dopo il divorzio, si è risanata. Proveniamo tutti dal vecchio liceo Berchet e ogni volta che saliamo su palco mi sembra di tornare sui banchi di scuola».
Ci torneresti davvero?
« Be', furono anni complicati. Arrivai fino al punto di pensare che non ce l' avrei fatta, che il liceo era una cosa troppo tosta per me. E invece in mezzo a quel parterre di studenti eleganti ho guadato il fiume. Ho avuto periodi facili e momenti difficili. Come tutti. Non sono un' eccezione. L' eccezione è il dono nascosto che hai e che a volte, con caparbietà o con naturalezza, esce fuori. Dipende dalle occasioni o dalla tua tenuta psichica. Dal tuo grado di convincimento e tenacia.
Per il resto nasciamo, ci riproduciamo, moriamo. Agli occhi di molti c' è un Dio che regola tutto questo.
Per me Dio ha la forma del grande dubbio. Ho le idee confuse in proposito. Però, nei limiti del possibile, mi piace formulare domande più che ascoltare risposte».
enrico ruggeri e andrea miroenrico ruggeri campagna contro la guerra in siria 22