L’INCREDIBILE STORIA DI OLGA WATKINS, CHE SFIDÒ I NAZISTI PER AMORE - ANDÒ A CERCARE L’UOMO CHE VOLEVA SPOSARE FRA GLI ORRORI DEI CAMPI DI CONCENTRAMENTO - SI FECE ASSUMERE A DACHAU PER SCOPRIRE DOVE AVESSERO PORTATO IL SUO JULIUS, CHE ERA DETENUTO A BUCHENWALD PER AVER AIUTATO UNA PARENTE EBREA DI OLGA - I DUE SI SPOSARONO MA FURONO COSTRETTI A DIVORZIARE PERCHÉ LUI ERA UNGHERESE E LEI CROATA...

Fabio Cavalera per il "Corriere della Sera"

«E tu da dove vieni?». Quando Olga Watkins raccontava la sua odissea d'amore nel Terzo Reich e nei campi di sterminio a Dachau e Buchenwald la scambiavano per una matta. Li ricorda bene i sorrisetti di chi la ascoltava e pensava: «Questa signora è fuori di sé». Figuriamoci: nessuno o quasi credeva a Olga. A una storia del genere?

Lei ventenne che sfida le Ss, la Gestapo e gli ustascia per cercare l'uomo che desiderava sposare. Lei, Olga, che («Di mia volontà») entra nell'orrore di Dachau («I cadaveri erano così numerosi che la ciminiera del crematorio buttava fuori fumo in continuazione») e scova l'elenco degli internati con il nome del suo Julius, nel frattempo trasferito a Buchenwald.

E, ancora lei, giovane innamorata, che sotto i bombardamenti si muove proprio verso Buchenwald dove, nonostante la Germania abbia appena firmato la capitolazione, migliaia di prigionieri, ebrei, comunisti, oppositori, omosessuali, zingari, cavie umane, sono ancora lì nelle baracche, paralizzati da terrore, malattie, mutilazioni, sevizie subite. «Immagini che continuano a perseguitarmi».

C'è pure Julius a Buchenwald: «Mio Dio come hai fatto a ritrovarmi?». E finalmente si sposano: Olga con un paio di scarponi ai piedi e una camicia da notte, i capelli raccolti con le stringhe e i pezzi di carta, mentre Julius, solo ossa e senza denti, indossa una divisa dell'esercito tedesco «privata di mostrine e distintivi» perché altro non c'era. Poi la fuga per una libertà di cui non godranno mai: Olga è croata (all'epoca jugoslava), Julius è ungherese della Budapest occupata dai sovietici. Stalin e Tito litigheranno, la ragione di Stato spezzerà il matrimonio, saranno costretti a divorziare ma non a dimenticare.

Possibile stare dietro a un dramma di vita e d'amore del genere? Una trentina di anni fa, Olga Watkins fu convinta da un amico a scrivere le memorie. «E io, senza esperienza, misi giù le mie peripezie nell'Europa occupata da Hitler, tremila chilometri percorsi da Zagabria a Budapest, da Vienna a Norimberga e Weimar per riprendere Julius».

Quegli appunti sono prima diventati un cimelio, una testimonianza depositata all'Imperial War Museum di Londra, successivamente un libro coinvolgente (affidato alla stesura del giornalista James Gillespie) uscito in Inghilterra col titolo A Greater Love e ora in Italia per Piemme: Ovunque sarai (pp. 308, 9,90).

Nei dolori dell'Olocausto, nell'inferno della Shoah ci sono eventi marginali eppure straordinari come questi, nascosti e da scoprire perché ci aiutano a ricostruire l'insieme della Storia con i suoi palpiti e le crudeltà. «A Dachau vidi un prigioniero affamato trascinarsi per acchiappare una carota caduta da un camion, una guardia gli frantumò il cranio con il calcio del fucile».

Olga Watkins, oggi ottantanovenne, vive a Barnet, a Nord di Londra, con Gerry, irlandese, suo secondo marito da 48 anni. Un piccolo appartamento in una zona tranquilla, nel verde. È gentile, brillante, in ottima forma. Rilegge il passato con la passione e l'ironia che possiede soltanto chi ha vissuto esperienze tanto intense, dolorose e profonde. «Lo sa che erano in pochi a prendermi sul serio?». Invece, l'odissea di Olga è stata un «viaggio» reale nelle tragedie della Seconda guerra mondiale.

«Sono nata a Sisak, poco distante da Zagabria, mia madre è morta presto, mio padre, rigidissimo, se ne andò con una nuova compagna. Fui costretta a raggiungerlo in città e la mia presenza non lo rese felice».

Era una diciannovenne, Olga, e fu la «matrigna» Ilona, in contatto con alcuni diplomatici di Budapest, a indirizzarla al circolo degli ungheresi di Zagabria. Conobbe lì Julius Koreny. E conobbe pure zia Alice, «una donna elegante e piena di vita», la sorella della fredda «matrigna», della quale era l'opposto. Zagabria era nelle mani degli ustascia, gli alleati dei nazisti, altrettanto spietati e brutali. Zia Alice era ebrea: «Fu marchiata con una stella di David nera su sfondo giallo e pure io che non ero ebrea». Undicimila ebrei risiedevano nel capoluogo croato e alla fine della guerra ne sarebbero rimaste poche decine. Zia Alice fuggì dall'Olocausto, fu Olga ad aiutarla.

Julius aveva dieci anni più di Olga e un figlio da una relazione precedente. Si innamorò e per quella ragazza, la sua Olga, sfidò i regimi di Zagabria, di Budapest, di Berlino: grazie al lasciapassare diplomatico rintracciò in un campo di prigionia una lontana parente ebrea della fidanzata. Insieme e clandestinamente cominciarono a consegnarle con regolarità cibo e vestiti. «Fu un'esperienza indimenticabile».

Qualcuno però tradì Julius e lo denunciò. «Il 15 ottobre 1943 con un pretesto fu richiamato in patria e la mia vita non sarebbe mai più stata la stessa». Lo arrestarono e deportarono prima a Komaron, sulle rive del Danubio, «dove confluivano i prigionieri politici e i nemici del Reich», in un secondo momento in Germania a Dachau, infine a Buchenwald. «Me lo rubarono e io non pensai ad altro che a raggiungerlo, ovunque fosse».

I ricordi sono ancora intatti. Inseguendo le flebili tracce di alcune lettere, Olga non si fermò mai, fra la fine del 1943 e il giugno 1945. Ingannò le Ss trovando il modo di farsi assumere a Dachau, nel dipartimento amministrativo, per rintracciare gli archivi, consultarli e scoprire quale fosse stata la sorte di Julius. «Gli internati si trascinavano e tenevano lo sguardo basso, appiccicato al terreno, era come se non volessero vedere ed essere visti».

Poi Buchenwald, ultima tappa dell'odissea, dove posata su un tavolo c'era una lampada il cui paralume aveva un tatuaggio, «era di pelle umana, testimonianza della barbarie». Gli americani e i sovietici erano alle porte, i tedeschi sconfitti e in rotta, in una baracca di Buchenwald era disteso su un letto Julius, ammalato di tifo e con una trombosi alle gambe per le botte dei nazisti.

«Mi guardò e sussurrò: sposiamoci qui, adesso. Non aspettiamo altrimenti sarò rimandato in Ungheria e tu in Jugoslavia. Attorno a noi c'erano scheletri che vagavano senza meta, celebrammo all'ombra di quelle orribili svastiche cadenti». Il dramma d'amore non era concluso. Olga e Julius sarebbero partiti alla volta di Budapest, occupata dall'Armata rossa di Stalin, per regolarizzare il matrimonio e finalmente vivere assieme.

Ma nel 1948 la rottura delle relazioni politiche e diplomatiche fra i comunisti sovietici e i comunisti della Jugoslavia di Tito avrebbe per sempre diviso i due. «Mi negarono il visto d'ingresso e di soggiorno». E nel 1950 sarebbe sopraggiunto il divorzio per procura. L'addio.

Julius è morto di tumore nel 1994. Olga si è trasferita a Londra negli anni Cinquanta. Hanno tenuto una fitta corrispondenza e si sono rivisti a Vienna nel 1985. «Lui era col figlio Gabor col quale sono ancora in contatto». Si salutarono e brindarono. «Ai nostri sogni infranti». Olga in Germania non è mai tornata.

 

OLGA WATKINSOLGA WATKINS E JULIUS KORENY AI TEMPI DEL LORO AMOREOBAMA A BUCHENWALDcampo di concentramento campo di concentramento di dachau campo di concentramento di buchenwald

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