i soliti idioti la solita commedia

L'INFERNO È INTORNO A NOI - I SOLITI IDIOTI AGGIORNANO DANTE AI PECCATI DI OGGI: “TENEVO IL CADAVERE DI MIA NONNA NELL’ARMADIO, PERCEPIVO LA PENSIONE E CON I SOLDI CI ANDAVO A PUTTANE”

Malcom Pagani per il “Fatto quotidiano

 

Ragioni antiche: “Tenevo il cadavere di mia nonna nell’armadio, percepivo la pensione e con i soldi ci andavo a puttane”. Perversioni contemporanee: “Sono uno stalker”. Nelle spire di Minosse si finisce per molti motivi e a tutti, con eloquio incerto e braccia enormi, il guardiano dell’Inferno che “esamina le colpe ne l'intrata” restituisce schiaffi e domande in paritaria quantità: “Io sono Minosse, tu chi cazzo sei?”.

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Indirizzare la feccia tra le fiamme dei gironi però è diventato un lavoraccio e di fronte al mancato aggiornamento del Giudizio Universale: “Tu sei un hacker? E gli hacker dove li mettiamo?”, per elencare i peccati e riscrivere la struttura dei gironi è necessario richiamare Dante in servizio e spedirlo urgentemente sulla terra. Un secolo dopo la trasposizione cinematografica del trio Bertolini-De Liguoro-Padovan e qualche mese prima della visione indagatoria di Ron Howard con Tom Hanks, a occuparsene, sono due idioti per autodefinizione.

 

Dopo aver evocato Cochi e Renato a Sanremo, Francesco Mandelli e Fabrizio Biggio tornano a frequentare santi e demoni. Ne La solita commedia (nelle sale dal 19, producono Lorenzo Mieli e Mario Gianani per Wildside, distribuisce Warner) trovano i primi riuniti in assemblea – una sintesi tra la curva pallonara e il peggio di Montecitorio – impegnati nei cori da stadio: “Sant’Ambrogio portaci in Europa” e nelle contestazioni: “Stai qui solo perché vendi le magliette” a un Padre Pio dalle mani bucate che somiglia al vero Antonio Razzi: “Ci vorrebbe un indultino primavera”. Osservano un Lucifero pronto per sfilare con Dolce e Gabbana salutare l’avversario principe con consumata convivialità: “Grandissimo, non mollare mai”.

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Dio fa affari, ristrutturazioni, pubblicità. Rischia l’infarto, beve whisky e prende pillole antidepressive come caramelle. Anche al piano di sotto, dove Dante/Mandelli verrà precipitato per trovare nel precario Biggio il suo Virgilio, non se la passano allegramente. Il segno distintivo è la demenza. L’umanità si è persa e anche Alighieri non pensa più come in quel vecchio spot della Olivetti che bastino pagine di regole per orientarla sulla retta via, seguir virtute, riemergere dalla brutalità. Son tutti pazzi nell’Italia del 2015: “Quale posto migliore per vedere il peggio?”.

 

Tutti isterici, nevrotici, vacui, infelici. E violenti. I ricchi. I poveri. I poliziotti, gli “sbirri allo sbando” che sognano di caricare le manifestazioni degli insegnanti e percuotono le macchine distributrici di caffè per farsi magari restituire una moneta da due euro, quella con Dante in effigie: “Capo, lasci fare a noi”. I colleghi di ufficio: “I covatori di rabbia” che anelano a restituire con gli interessi le angherie pregresse. Tutti in guerra.

 

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Con il manganello. Nei condomini e nei supermercati, per fottere vicini di case e astanti. Eludere la fila. Ottenere vantaggi. Negli affari. Negli incontri tra generali golpisti (notevole Gianmarco Tognazzi che fa il verso al padre de Vogliamo i colonnelli) come nell’incontro inutile – e sempre rimandato – tra perdigiorno senza orizzonte. Nelle bugie reciproche tra i primi e gli ultimi.

 

Tutti “tiratori di pacchi”, maniaci costretti al metadone per abuso di selfie: “Mi chiamo Piero, ho 32 anni, è almeno un mese che non uso WhatsApp”, fruitori ossessivi di un pubblicità invasiva i cui protagonisti escono dall’ologramma per convincere a suon di insulti i clienti a profittare dei servizi. La chiave iperrealista funziona perché come nei film a episodi degli Anni 60 (I Mostri è rimasto un imitato modello) non c’è nequizia che non spinga all’identificazione e non c’è orrore che non inviti al guardonismo.

 

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Se nelle vignette di Stefano Disegni, padre, madre e figli in gita domenicale allo scopo di vedere da vicino i terremotati nelle tende, al posto delle testa hanno un gigantesco glande, le moderne teste di cazzo impersonate con generoso fregolismo da Mandelli e Biggio, godono nell’osservare gli incidenti, i guai non toccati loro in sorte, le disgrazie altrui.

 

L’inferno – ci dicono con un nonsense non meno maleducato, ma solo più ragionato che in passato – è intorno a noi. In periferia come nei palazzi in cui ci si illude di tirare i fili del teatrino. Nelle case e nelle strade. Nei maniaci della pulizia a ogni costo che non riescono a lucidare la coscienza neanche nel momento dell’amplesso. Non c’è amore e, come è ovvio, non c’è neanche tutto il resto.

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Da sei anni, mutuando Little Britain, Mandelli, Biggio e Martino Ferro giocano con gli abissi senza preoccuparsi troppo delle conseguenze. Per capirli (salvo rare eccezioni da Mariarosa Mancuso a Marco Giusti) c’è voluto tempo. Qualcuno si rifiuta di farlo, ma vedere una delle muse dell’ultimo Bertolucci, Tea Falco, prestarsi all’operazione divertita, racconta che qualcosa, nell’Ade e in Paradiso, è cambiata.

 

Dopo la commedia generazionale, quella politica, quella esistenziale e quella minima, arriva La solita commedia che solita non è. A qualcuno non piacerà, ad altri sembrerà sacrilega, ad altri ancora, inutile. Chi è senza peccato scagli la prima pietra e per il resto “almeno per chi non ha reati particolari da farsi perdonare”, c’è sempre il Paradiso. “Mandateli qui” implorano i beati: “Ci si annoia mortalmente”.

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