IO E LADY WARHOL - A MILANO SI CELEBRA IL MITOLOGICO FOTOGRAFO CHRISTOPHER MAKOS - “LA FACTORY ERA UNA GRANDE FAMIGLIA DISFUNZIONALE, CON ANDY PATRIARCA E AL SUO FIANCO ME NELLA PARTE DEL FIGLIO ILLEGITTIMO”
Marco De Martino per “Vanity Fair”
Per anni è stato amico e fotografo ufficiale del divino Andy. Christopher Makos ha saputo cogliere tutto di lui, perfino il suo lato femminile. Da riscoprire in una mostra a Milano. Nel suo studio è circondato dalle foto che ha scattato a John Lennon, Iggy Pop, Debbie Harry, Liza Minnelli e tutti gli altri che hanno fatto la storia di New York negli anni della Factory di Andy Warhol, ma che per lui raccontano solo un’amicizia: «A volte, penso che dovrei fare una mostra con i miei scatti accanto a quelli che faceva Andy: sono identici, perché eravamo spesso assieme».
Christopher Makos, che dal 12 giugno porta 62 sue foto alla Galleria Carla Sozzani di corso Como 10, oggi ha 65 anni e ogni tanto infila nella conversazione qualche parola italiana perché da piccolo andava a fare le vacanze con la mamma toscana a Punta Ala. Nei suoi diari, Andy Warhol lo descriveva così: «È il compagno perfetto: mi spinge a uscire». Si conobbero a metà anni Settanta e quasi subito Makos insegnò a Warhol l’arte della fotografia che aveva imparato da Man Ray.
christopher makos jean michel basquiat may 29 1984 photographs prints and multiples other
Lei come cominciò?
«La prima macchina fotografica me la regalò l’attore Anthony Perkins, i primi servizi li feci per Rolling Stone, poi cominciai con Interview: da me Andy capì che per essere un buon fotografo devi essere un po’ psicoterapeuta e un po’ regista del tuo soggetto. Mi ricordo una volta che dovevo scattare Liz Taylor ed ero intimidito: per superare il blocco mi bastò ricordare la quantità di uomini prepotenti che aveva avuto nella vita. E infatti non appena ho cominciato a dirle cosa fare tutto è andato benissimo».
Che macchina fotografica usava Andy Warhol?
«Piccole compatte, per lo più Chinox. Fu solo più tardi che cominciò a usare la Big shot di Polaroid, che costava solo 19 dollari ma aveva il vantaggio di avere un flash fortissimo: la faccia dei soggetti veniva fuori sbiancata, pronta per essere trasformata in una serigrafia e per i suoi ritocchi. Andy aveva cinque set di labbra femminili, ma quasi tutte le donne dei suoi ritratti hanno la bocca di Liza Minnelli, la sua preferita».
Lei fotografò molto Warhol.
«Gli chiedevano di apparire in così tanti endorsement di prodotto che, a un certo punto, gli feci un portfolio per l’agenzia Ford, categoria “special models”. Lui era un po’ a disagio, ma essendo un pittore sapeva usare benissimo le mani, e infatti il focus dei ritratti è sempre quello, anche nella serie Altered Images».
A quella serie lei ha anche dedicato un libro, Lady Warhol.
«In realtà era il classico gioco sull’identità che fanno tutti gli artisti, pensi a Cindy Sherman ora. Ci avevano anche offerto abiti femminili, ma li rifiutammo: se togli ad Andy trucco e rossetto, lui comunque non è una donna. Il nostro referente storico era il progetto Rrose Sélavy, le foto fatte da Man Ray a Marcel Duchamp in versione drag queen nel 1928. Le loro immagini erano molto dark e malinconiche, le nostre sono chiare e luminose».
Insieme viaggiavate molto.
«Credo che amasse la mia passione per gli aerei: ancora adesso, prima di ogni viaggio, studio su che velivolo sarò, che posto avrò, se potrò dormire... Lui usava il viaggio per dimenticare i suoi impegni e provare a vivere nel momento. Insieme siamo andati in Cina, dove torno appena posso, è uno dei posti che mi entusiasmano di più. Lì ci sono i soldi ma anche la possibilità per i giovani di sperimentare: a New York non si può più, gli spazi costano troppo e se non ci si può incontrare non possono nascere nuovi movimenti artistici».
Che cosa le manca di Warhol?
«Fare le cose insieme. In questo era un po’ italiano come me. Amava la confusione, accumulare esperienze, era instancabile. Oggi ricordiamo solo il suo periodo d’oro, perché la lotta per affermarsi è considerata noiosa, ma ci furono tempi in cui Andy non riusciva neppure ad avere prestiti perché tutti snobbavano la sua arte».
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Che cosa era la Factory?
«Una grande famiglia disfunzionale, con al centro Andy patriarca e al suo fianco me nella parte del figlio illegittimo. Dico sempre che non ho fatto il college ma ho avuto un’educazione migliore: l’università di Andy Warhol. Non solo si leggevano tanti libri e si conversava con persone interessanti, ma i viaggi di classe si facevano in Concorde, per andare a Parigi a trovare Paloma Picasso».
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