LAVIA DEL TEATRO È SENZA USCITA - ‘DISSI A MIO PADRE CHE VOLEVO RECITARE E QUELLO MI TIRÒ UN BICCHIERE. GLI AMORI TUTTI IN TEATRO, A PARTE QUALCHE AVVENTURA ESTERNA, MA CON FEDERICA DORMIAMO IN ALBERGHI DIVERSI - MAN MANO CHE CRESCO MI RIMBAMBISCO, NESSUNO DIVENTA SAGGIO INVECCHIANDO. LA VECCHIAIA È ORRIBILE, NON SI DOVREBBE ALLUNGARE LA VITA MA LA GIOVINEZZA. E LA MIA PIÙ GRANDE PAURA È…
Emilia Costantini per il ''Corriere della Sera''
Il primo ricordo che ha del teatro, è di una noia mortale: «Avrò avuto tre anni e i miei genitori mi portarono a vedere Gino Cervi nel Cyrano de Bergerac - racconta Gabriele Lavia -. La ricordo come una delle giornate più brutte della mia vita, mi annoiai a morte e mia madre tuonò severa e categorica: "Non ti ci porto più".
Ma ero troppo piccolo per apprezzare uno spettacolo del genere, che diamine! E in quel momento pensai fra me, meno male che non mi ci porta più... Però un demone dispettoso deve aver ascoltato il mio pensiero e, un po' di anni dopo, mi ha teso la trappola: ci sono cascato dentro». La trappola è il palcoscenico, dove l' attore e regista è imprigionato da quasi sessant' anni: «E non sono nemmeno figlio d' arte!».
Suo padre che mestiere faceva?
«Lavorava al Banco di Sicilia e tutto avrebbe immaginato fuorché suo figlio intraprendesse una carriera del genere, praticamente quella di un precario a vita. Lui sognava per me un lavoro normale, con uno stipendiuccio fisso».
E allora, da chi ha ereditato la passione?
«Da nessuno, o forse sì: dalla nonna materna Carmela, nipote del grande scrittore e drammaturgo spagnolo Francisco Martinez de la Rosa. Da ragazzino mi leggeva Pirandello e mi regalava libri con la dedica: al mio adorato Gabriellino».
Una carriera iniziata, quasi, per caso?
gabriele lavia monica guerritore
«Assolutamente sì. Ero un adolescente inquieto e con un gruppo di amici avevo iniziato a fare degli spettacolini di mimo, letture di poesie, robette così... Ma non è che pensassi di fare l' attore... in quel periodo con la mia famiglia ci eravamo trasferiti da Catania a Torino, città dell' industria, della Fiat, della gente che si alza presto al mattino per recarsi in fabbrica.
Con la mia combriccola di malati di mente, sentivamo la necessità di divertirci facendo queste innocue esibizioni per pochi intimi. Poi una notte, in cui come al solito non dormivo, dato che ho sempre sofferto di insonnia, mi alzo, vado in salotto dove c' era una di quelle radio di una volta, con l' occhio verde che si illuminava: la accendo, comincio a smucinare con la manopola e capito su un programma che parlava dell' Accademia d' arte drammatica Silvio d' Amico.
Ascoltai le interviste con i docenti, gli allievi... e mi dico: accidenti, questa scuola deve essere davvero importante. Spengo la radio e torno a letto, ma in testa mi ronzava ciò che avevo ascoltato con interesse. Il giorno dopo mio padre porta a casa giornali e riviste, tra cui Epoca: sfoglio il settimanale e trovo un servizio di più pagine sempre sull' Accademia, con foto bellissime dove gli allievi portavano la divisa».
La divisa?
«Sì! Come un' accademia militare e quindi ragionai: se portano addirittura la divisa è davvero una cosa seria, dunque è l' unico posto dove posso imparare. Decido di informarmi, di nascosto dei miei. Vado alla Stazione di Porta Nuova, prendo la guida telefonica di Roma, cerco il numero, e chiamo. Mi spiegano che c' era un bando di concorso al quale avrei dovuto partecipare inviando una richiesta con le mie generalità. Il problema era ricevere la risposta...».
Perché?
«Temevo che mio padre avrebbe letto la lettera dell' Accademia, dunque nei giorni successivi fui molto attento alla posta che arrivava a casa, dovevo intercettare la missiva io prima di lui. Così avvenne: venivo convocato a Roma per sostenere l' esame di ammissione. Riuscii ad andare, proditoriamente, inventando una vacanza culturale nella Capitale. Il guaio successe dopo, quando mi arrivò la risposta che lo avevo superato. La sera prima di partire definitivamente, annunciai la mia scelta di fare l' attore mentre eravamo tutti a tavola. Mio padre andò su tutte le furie: fisicamente era un gigante e mi scagliò un bicchiere addosso. Forse avrei dovuto avvertire prima mia madre, che avrebbe trovato la maniera giusta per prepararlo alla ferale notizia».
La mamma era consenziente?
«Diciamo che sapeva di avere un figlio un po' strano, cercava di venirmi incontro, di assecondarmi. Papà mi tolse la parola, però poi mi perdonò quando un giorno, su un giornale importantissimo, si fa per dire, Bolero teletutto, c' era un servizio su di me neoattore. Leggendolo deve aver pensato: mio figlio è diventato qualcuno di importante. Ci rappacificammo, venne tante volte a vedermi recitare e, dopo la sua morte, ho scoperto che in un armadio teneva custoditi tutti i ritagli di giornale che parlavano dei miei spettacoli».
Nato per sbaglio a Milano, vissuto da bambino a Catania, poi Torino...
«Mi sento catanese e ho vivo il ricordo della Sicilia del Dopoguerra, completamente distrutta dai bombardamenti. Da ragazzini andavamo a giocare a fare i soldati tra le macerie, un campo di battaglia come la Aleppo oggi. Non ci rendevamo conto della gravità, tra i ruderi cercavamo le armi, le bombe inesplose, nonostante ci fossero in giro manifesti che ritraevano bambini che saltavano in aria sugli ordigni. E mia madre, quando se ne accorse, mi prese letteralmente a legnate... Nella mia lunga vita ho avuto la ventura di attraversare quattro mondi: quello che riemergeva dalla guerra, poi la ricostruzione e il boom economico, il '68 e adesso il telefonino, che è la morte dell' essere».
Una visione un po' catastrofica, non le pare?
«Dico solo che mi capita di vedere persone sedute vicino che non parlano fra loro, ma si mandano messaggini. Non è catastrofico? Non oso pensare a quando non avremo nemmeno più bisogno di pigiare i tasti sul cellulare, ma lo azioneremo solo attraverso impulsi della nostra mente con cui ci potremo collegare. Per fortuna, io non ci sarò più».
Però adesso Lavia c' è ed è molto attivo in teatro: ne dirige uno importante, La Pergola di Firenze, e sforna un nuovo spettacolo, a volte due, all' anno...
«Perché il teatro è la mia forza: è una forma d' arte che, non potendo cambiare, non morirà mai! Da quando è nato molti secoli fa c' è sempre stato un palcoscenico e una platea, sul palco gli attori, in platea gli spettatori, non serve nient' altro. Tutto il resto è mortale, compreso il cinema che, essendo un' industria tecnica, viene continuamente superato da altre tecniche più avanzate.
Il cinema è stato ucciso dalla tv, poi dal telefonino, dai tablet... ecco perché le sale sono poco frequentate e le uniche manifestazioni cinematografiche che sopravvivono e resistono sono i red carpet dei festival che, se ci pensate bene, sono in realtà dei palcoscenici dove gli attori incontrano, in questo caso dal vivo, il loro pubblico... proprio come avviene in teatro».
Quest' anno la attendono due debutti: «John Gabriel Borkman» di Ibsen e «I giganti della montagna», dramma incompiuto di Pirandello. Si può tratteggiare un nesso tra le due opere?
«Da una parte il disfacimento sociale, dovuto al faccendiere Borkman che, da direttore di banca, specula illegalmente con il danaro dei suoi investitori (ci ricorda qualcosa?). Dall' altra il disfacimento, direi la morte della poesia attraverso una compagnia di disadattati che, non a caso, si rifugia in una villa chiamata la Scalogna».
Lavorare con le sue compagne di vita, come è stato con Monica Guerritore prima e adesso con Federica Di Martino, comporta problemi?
«Diciamo che è stato inevitabile: io vivo perennemente chiuso in teatro e, tranne qualche avventuretta all' esterno, le storie importanti le ho sempre coltivate all' interno del guscio teatrale. E comunque, mentre lavoriamo, Federica ed io abitiamo in alberghi diversi: non si può stare insieme, dobbiamo ritrovare la nostra intimità per confrontarci direttamente con l' opera da interpretare».
Mai un litigio in scena?
«È troppo difficile e più importante della nostra stessa esistenza quello che facciamo in palcoscenico, non possiamo perdere tempo a litigare. Meglio metabolizzare gli umori affettivi, meglio metterli da parte».
Ha due figli attori: Lorenzo e Lucia. Chi sente più vicino dal punto di vista artistico?
«Mi somiglia anche fisicamente Lorenzo, vedo in lui dei movimenti che mi sono familiari. Lucia, essendo femmina, è molto diversa... Ma non mi prodigo mai a dar loro consigli, per carità... non si possono dare consigli, perché fare l' attore non è un mestiere, è un' arte delirante, una stonatura fuori dal coro della gente normale».
Lei spesso si definisce un vecchio, in realtà si sente un eterno ragazzo, vero?
«Le mie figlie ripetono spesso: "Lasciate stare il nostro papino, lui è piccolo!". Forse perché man mano che cresco mi rimbambisco, d' altronde non ho mai conosciuto nessuno diventare saggio invecchiando. La vecchiaia è orribile, la cosa peggiore che possa capitare all' essere umano, sarebbe meglio non nascere. L' aspettativa di vita che si allunga, poi, è terrificante, un vero schifo: semmai, dovrebbe allungarsi la giovinezza, non sarebbe meglio?».
Cosa le fa maggiormente paura?
«Ho paura di accorgermi di morire. Non credo in Dio, né in un aldilà e quindi dopo la morte, per fortuna, di me non resterà più nulla».
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