IL BOSS DIVENTA KILLER (PER FICTION) - LITTLE STEVEN, STORICO CHITARRISTA DI BRUCE SPRINGSTEEN, TORNA COL BOSS MA SOLO IN TV: “LO HANNO CORTEGGIATO SCORSESE E COPPOLA MA LUI NIENTE. IO L’HO CONVINTO A FARE IL KILLER”...
Michela Tamburrino per “la Stampa”
Arriva ballando e si capisce che a nessun prezzo toglierebbe dalla testa quella bandana che nulla toglie al suo carisma. Unico caso al mondo, forse. A Steven Van Zandt più conosciuto come Little Steven, il benvenuto entusiasta dalla platea del Roma Fiction Fest che spara i suoi primi fuochi d' artificio.
Lui, musicista, produttore, Dj, regista, attore, membro della Rock and Roll Hall of Fame, che fondò con Bruce Springsteen la E Street Band e che ne è il chitarrista storico, si diverte a fare altro. The River e Born in The U.S.A. gli devono molto. Eppure dai più è amato per I Sopranos nei panni di Silvio Dante e ora anche come il Frank Tagliano della serie Lilyhammer, dal 30 dicembre su Sky Atlantic.
Al Roma Fiction Fest presenta la prima puntata dello show conclusivo, il terzo, che si avvale della sua regia e dell' impagabile presenza di Bruce Springsteen nei panni del killer.
Il Boss. «Ci conosciamo da 50 anni, abbiamo condiviso tante esperienze e non abbiamo mai avuto discussioni. Per me Bruce è un amico e un modello: è uno che ha sempre vissuto senza fare compromessi.
Abbiamo entrambi una forte etica del lavoro, puntiamo sempre al meglio e ci piacciono le stesse cose: il rock' n'roll e i gangster movie. Il mio compagno di palco non avrebbe accettato con alcuno, se non con me, di diventare attore; l' hanno corteggiato Scorsese e Coppola ma lui niente. Io gli ho costruito addosso il personaggio, un tipo esperto, disciplinato, stoico, poche scene per non farlo stancare, ma incisive. Abbiamo lavorato sulla fisicità perché fosse riconoscibile ma non troppo, ho usato caratteristiche adatte a lui».
Amicizie. «Come quelle con Tom Petty e Billy Joel. Ho chiesto la loro musica per Lilyhammer e me l' hanno data per poco, una gran cosa. Poi ho mischiato jazz al folk norvegese, blues e sonorità locali. Raccontiamo quella neve nella fiction nata dalla penna di una coppia strana che mi chiamò per propormi la storia di questo gangster a riposo, via dall' America e sbarcato in questo paese bianco dove cerca di riportare il suo universo ma senza capirlo ne esce cambiato. Introducevamo la Norvegia al mondo, prima era un mistero per gli americani, che credevano fosse una città della Svezia. Abbiamo fatto una commedia con dei toni da dramma senza scadere nella farsa».
La lingua. «È essenziale, si gira, come d' abitudine per Netflix, in originale. Io, da americano, nella serie li capisco ma non so rispondere nella loro lingua, un fatto che rende la storia appetibile anche all' estero perché così gli indispensabili sottotitoli sono giustificati. Questo mi potrebbe portare a lavorare in Italia e a vendere la serie negli Usa, fingendo di capirvi e voi convinti che vi capisca».
Colonne sonore. «Quando non è possibile cambiare la scena, cambia la musica. Ha più voce delle parole, aggiunge un ulteriore livello d' emozione. Adoro Jerry Goldsmith in Il vento e il leone e Ennio Morricone nei western».
I Sopranos. «Ha cambiato la storia della tv moderna. Siamo arrivati noi a spazzare via le serie finte, noi autentici da documentario. All' inizio non lo capisci ma poi il tempo mette tutto in prospettiva.
C'era James Gandolfini che mi ha insegnato tanto e la Hbo che ha prodotto un lavoro non destinato a un pubblico di ragazzini ma finalmente di adulti. Con noi le abitudini sono cambiate, eravamo artisti alla Brando dell' Actor' s Studio, puntavamo sulla verità e il pubblico ci è venuto dietro. Gli altri erano odiosamente hollywoodiani, noi eravamo il futuro che sovvertiva le regole».