LUCA BARBARESCHI RACCONTA A TEATRO LA SUA VITA TORMENTATA DA SESSO E DIPENDENZE - IL PADRE AUTORITARIO, LA MADRE SPARITA DOPO LA SEPARAZIONE, L’ABUSO SESSUALE SUBITO DA UN PRETE NELL’OMBRA DI UNA SAGRESTIA, I TRANSESSUALI RACCATTATI PER STRADA, I TRADIMENTI E LA COCAINA
Oscar per Dagospia
Se il teatro appartiene alla vita, allora Luca Barbareschi, con il suo lungo monologo a forma di specchio – “Cercando segnali d’amore nell’universo”, al Teatro Eliseo di Roma fino al 3 gennaio - appartiene per intero al teatro. Attraverso il quale incorona il sogno di tutti i teatranti, raccontarsi sul palcoscenico. Facendolo da cima a fondo. Da dentro a fuori. Con scandalo e una sudata lunga due ore, senza intervallo. Imbracciando tutta intera la propria storia con musica jazz, Bossa Nova, qualche passo di danza e l’incantesimo della nostalgia.
Raccontato con parole proprie e altrui a rivelare nodi, scioglimenti e tormenti: il padre autoritario, la madre sparita nel nulla della separazione, la sua sessualità violata da un prete nell’ombra di una sagrestia, e poi vissuta come risarcimento che non sfama. I viaggi. La scoperta dell’Actors Studio. New York scalabile dalle cantine agli attici, passando per la televisione, il primo cinema, la prima cocaina. Poi la Milano d’oro degli Anni Ottanta che sembravano veri. I soldi, i matrimoni, le figlie, l’alcol, le dimenticanze. I transessuali raccattati per strada, i tradimenti fatti e subiti. Certe ossessioni che non passano.
L’innamoramento per David Mamet. Gli abissi di Shakespeare che illuminano il cuore nero degli uomini. I piccoli orrori della politica e quelli grandi della vita quotidiana. Il narcisismo espanso e le nevrosi che lo fanno dormire poco, correre molto, ingrassare, dimagrire, inchinarsi, dimenticarsi, mettersi in gioco in pubblico come raramente accade a un attore che sa quanto sia facile mentire nella vita, ma risulti impossibile farlo sul palcoscenico, dove nulla è tanto vero quanto la finzione.
Monologo allegro e triste con capriole incorporate e sax. Rendiconto provvisorio e conturbante di un attore, regista, produttore, imprenditore, sognatore; teatrante sempre eccentrico, sempre solitario per via delle cravatte e camicie su misura e viso di sbarbato con quel sorriso ondivago da imminente full d’assi o coppia di donne spaiate (e soprattutto: altrui) così tipico dei giocatori d’azzardo che giocandosi tutto sperano, prima o poi, di incassare l’agognata sconfitta da bancarotta.
Per poi inventarsi il modo di ricominciare da capo, perché i giochi non sono mai fatti, nella vita vera, se si ha sottomano un sipario dietro al quale sparire. Per poi ricomparire dopo i fischi o gli applausi.
Applausi e fischi ondivaghi nei suoi quarant’anni di carriera fuori dai gruppi, fuori dalle cordate. Lui sempre anticonformista anche quando era il massimo del conformismo. Ma capace di smarcarsi dalla sinistra e dalla destra. Farsi solitario come il suo amico Walter Chiari che andava a trovare nei suoi ultimi giorni di neve milanese. Anarchico, in definitiva, più libertino che libertario, ma talvolta anche viceversa.
E dunque sorprendente, come in questo spettacolo dove esibisce la sua alta scienza attoriale, che va dal musical di superficie americana, ai fondali dell’Enrico IV, passando per un magnifico Evtushenko che canta gli uomini come pianeti e recita: Quando un uomo muore,/ muore con lui la sua prima neve,/ e il primo bacio e la prima battaglia…/Tutto questo egli porta con sé./Rimangono certo i libri,/i ponti, le macchine,/le tele dei pittori”.
Tutte cose che Barbareschi ha messo in scena – prima e dopo se stesso - ma tagliandole in diagonale, come la sezione del labirinto che lo imprigiona, e che stavolta ha raccontato con una energia (e maestria e impudicizia) come mai prima. Passando da piccole lacrime a grandi risate, come nella scena esilarante della notte di seduzione della diva francese vanificata dalle troppe ostriche e champagne che per crudele alchimia trasformano l’erezione del dopocena in una colica che manda a monte il progetto di imminente prestazione sessuale per lasciare semisvenuta dalla noia la preda inutilmente illanguidita. Ossigeno, ossigeno finalmente per l’esangue teatro italiano. E promemoria utile in primis a Barbareschi per quello di buono che farà nel suo nuovo Eliseo comprato e restaurato dalle ceneri di quello vecchio.
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