SETTE NOTE DI MEMORIE - OGGI LUIGI MANCONI E’ NOTO PER LA POLITICA MA CHI HA SUPERATO LA CINQUANTINA LO CONOSCEVA BENE COL NOME DI SIMONE DESSI’, AUTORE NEGLI ANNI ’70 DI MOLTI LIBRI DI SOCIO-CRITICA POP - ED ORA TORNA ALLA SUA INNOCENZA PERDUTA CON UN LIBRO TENERO E SINCERO, CHE VA DA MODUGNO E PAOLI A JIMI HENDRIX, TRAPASSANDO CANTAUTORI E JOVANOTTI - UNA POMERIGGIO AL PIPER CLUB…

... Da qualche tempo, nelle edicole italiane erano apparse alcune riviste decisamente sorprendenti. Per alcuni versi, scandalose e sovversive. Le testate erano due: Ciao amici e Big (che poi si sarebbero fuse in un'unica rivista, Ciao 2001): li`, noi ragazzi di provincia scoprivamo il mondo della musica, e della nuova musica, e imparavamo quella parola, beat, ancora misteriosa ed esotica.

Beat era tutto: tutto lo sconosciuto e l'affascinante che ci veniva incontro o al quale correvamo dietro. Erano i capelli se non lunghi, un po' piu` lunghi di quelli della generazione precedente, era un abbigliamento insofferente di tutte le divise e di tutto cio` che le richiamasse, era un comportamento che metteva in discussione le autorita` e lo stesso principio di autorita`, era la ricerca di modi espressivi nuovi.

Eravamo una generazione (meglio: un segmento di generazione) che avidamente leggeva Edgar Lee Masters e Cesare Pavese, Bertolt Brecht e Samuel Beckett, Jaques Prevert (oh, quanto Jaques Prevert) e Pablo Neruda e Anna Achmatova; e apprendeva dell'esistenza de I Novissimi (in quell'abbacinante edizione bianca di Einaudi). Eravamo compiutamente (e rozzamente) postmoderni: Elio Pagliarani e Mal dei Primitives, Federico Garcia Lorca e Ricky Shayne.

L'industria culturale non aveva ancora realizzato che andava formandosi una vera e propria cultura giovanile: e, di conseguenza, non era ancora abbastanza accorta per comprendere che l'ascolto, per esempio, dei Rokes poteva evocare, per alcuni settori del mercato, altri ascolti, altre letture, altre suggestioni culturali e letterarie.

Dunque, su Ciao amici e su Big (ma qui si avvertiva una maggiore sensibilita`) si trovavano notizie e immagini quasi esclusivamente concentrate sulla musica e sulle mode dell'abbigliamento e poco piu`. Il resto, ce lo dovevamo ricostruire, faticosamente, attraverso una complicata ricerca.

Ma su Ciao amici e su Big gia` si parlava, eccome, del Piper quale luogo fondamentale della nuova musica. E cosi`, io e Giuseppe, andammo alla ricerca del Piper. Fu una lunghissima camminata a piedi, da piazza Venezia a piazza del Popolo, poi a villa Borghese e, da li`, a corso Italia. Giungemmo in via Rubicone nel tardo pomeriggio.

Ancora una volta: si deve tener conto di come potessero essere, nel 1965, due ragazzi di provincia, e isolani, che si avventuravano per le strade di Roma. La nostra conoscenza di luoghi dove ascoltare musica si limitava forzatamente all'esperienza dei club, circoli improvvisati e informali, in genere di ridottissime dimensioni, che - con nomi diversi - nelle piccole citta` costituivano i soli spazi dove ritrovarsi e ballare, lontani dagli sguardi dei genitori. Luoghi di musica e pomiciate.

Potete immaginare, pertanto, come ci apparve il Piper quando finalmente, nel tardo pomeriggio, vi entrammo. Il Piper era un locale enorme (questa, probabilmente, una delle ragioni del suo successo): anzi, era costituito da una successione di spazi, tutti di ampie dimensioni (o almeno cosi` ricordo). Il piu` grande era interamente occupato da un'estesa pista da ballo, dove si trovavano, disposti disordinatamente, tavolini, sedie, panche, banconi da bar, jukebox, enormi impianti di amplificazione.

Al centro, un palco non di grandi dimensioni, occupato da microfoni e strumenti musicali. L'atmosfera sembrava quella di un'incerta attesa. Io e Giuseppe ci avvicinammo a uno dei banconi delle bevande e ordinammo qualcosa, portandocela a uno dei tavolini piu` lontani dal centro del locale.

Il nostro percorso venne reso piu` lento e complicato dal numero crescente di persone che, proprio in quei minuti, cominciarono a riempire il locale: e dal fatto che, con nostra grande sorpresa, presero a correre per il locale delle macchinette simili a piccoli go-kart o ad automobili per bambini ma dotate di un qualche motore elettrico, che scorrazzavano velocemente e impunemente tra i presenti, incuranti di piedi e gambe che incontravano sul proprio percorso.

A guidare quelle macchinette, come in un assurdo autoscontro, erano ragazzette e ragazzetti nostri coetanei, ma visibilmente - direi sfacciatamente - diversi da noi. A confronto con me e con Giuseppe e con l'immagine e l'idea che avevamo di noi, ci sembravano incredibilmente piu` leggeri. Piu` leggeri nell'abbigliamento, intanto, cosi` diverso dal nostro e piu` leggeri nei movimenti, nelle voci, nelle espressioni. O almeno cosi` ci pareva.

Bastava osservare le scarpe che rispettivamente, noi e loro, calzavamo (cosa che a me, da sempre maniacalmente attento a come chiunque si vesta, veniva automatico). Effettivamente, io calzavo delle assurde scarpe (scelte tra le non molte che possedevo perche a Roma fa piu` caldo) con un firmamento di forellini sulla punta e sulla parte anteriore fino alle stringhe, mentre Giuseppe portava degli scarponcini quasi montanari.

Ma anche le nostre camicie, i nostri golf e le nostre giacche risultavano assurdamente pesanti, sempre piu` pesanti, nella temperatura che rapidamente aumentava all'interno del locale. Dopo una mezzoretta eravamo zuppi di sudore, seduti al nostro tavolino, aggrappati al nostro bicchiere.

Intanto, il volume della musica, proveniente dagli enormi altoparlanti, era aumentato moltissimo e io e Giuseppe faticavamo a sentire le poche parole che ci scambiavamo, mentre osservavamo quanto accadeva intorno a noi. Quella musica mi era completamente sconosciuta: certo, il ritmo era quello noto, ma non avevo davvero la minima idea di chi lo eseguisse.

Poi vedemmo una certa agitazione davanti al palco centrale e due giovani che vi salivano sopra e si piazzavano davanti ai microfoni ad asta. Uno impugnava una chitarra, l'altro un'armonica a bocca e, mentre armeggiavano davanti ai microfoni e provavano i loro strumenti, qualcuno li precedette e sembro` annunciare la loro esibizione. La cosa non funziono` come avrebbe dovuto perche, mentre i due si affannavano davanti ai microfoni, le loro voci e i loro suoni venivano sopraffatti dalla musica registrata che gli altoparlanti trasmettevano in tutta la sala.

E i ragazzi ormai ballavano al ritmo di quella musica: cosi` mai sapemmo chi fossero gli audaci che tentavano di esibirsi sul palco del Piper. Ma conoscemmo bene chi avrebbe suonato dopo di loro, e la sorpresa fu davvero grande. Ancora una volta, quando il presentatore annuncio` il gruppo successivo (il complesso, si diceva allora), non capimmo di chi si trattasse, anche se le sillabe che captammo di quel nome ci suonarono familiari.

Ne avemmo la certezza quando riuscimmo a decifrare il nome del complesso scritto sul tamburo grande della batteria che veniva trasportata faticosamente sul palco. I Barrittas. Quel nome cominciava a essere noto anche fuori dai confini della Sardegna, ma nell'isola addirittura furoreggiava, ed era - si dice - una deformazione di berritta, berretto, soprannome del leader Benito Urgu.

E infatti, quella sera al Piper, i membri del gruppo indossavano, oltre a una sorta di lunga casacca hippy, gambali neri e una berritta calzata fin quasi alle sopracciglia: antesignani, mai sapremo se piu` lucidi o piu` folli, di un etnorock alla pastora di cui ancora non c'era traccia al mondo. Su quel palco eseguirono alcuni twist in lingua italiana e altri in sardo e poi, senza alcuna soluzione di continuita`, qualche canto religioso.

La cosa faceva un certo effetto, ma forse solo a me che, di quei canti, conoscevo la versione e la destinazione originarie. In ogni caso, era un buon effetto. Che ci spinse, Giuseppe e me, ad alzarci dalle nostre sedie e a muoverci cautamente verso la folla che ballava, mescolandoci a essa. Non durammo a lungo: non solo non conoscevamo nessuno, ma la situazione sembrava negare qualunque possibilita` non dico di relazione, ma anche solo di conoscenza.

Nei club sassaresi, il ballo era direttamente, e direi intimamente, collegato all'approccio, alle tecniche di seduzione, alle strategie di conquista dell'intimita`. Lo sappiamo, il ballo, come sempre nella storia e nel mondo e per tutte le generazioni, e` rappresentazione dell'incontro amoroso: simulazione dell'amplesso e sua anticipazione, piu` spesso aspirazione vana a esso e suo insoddisfat to surrogato.

Di conseguenza, allora come oggi, i mutamenti della musica accompagnavano e assecondavano i mutamenti del costume e, in particolare, del costume sessuale. Certo, la nuova musica degli anni '60, quella proveniente dal mondo anglosassone, esprimeva un'altissima intensita` erotica, ma per un giovane maschio dell'epoca quell'intensita` si manifestava nel cervello e nell'uccello e li` si esauriva, solitaria.

Per vincere la repressione sessuale nella quale vivevamo, e per vincere le resistenze delle coetanee riottose e ritrose, era indispensabile quel lungo e intermittente contatto, quella familiarizzazione reciproca, quella minuziosa conoscenza anatomica, quella progressiva conquista dell'intimita` del corpo di entrambi, che si esprimeva e si esaltava nel petting. Il petting era la nostra esperienza del mondo, era la nostra arte.

La musica accompagnava, persuadeva, rendeva dolcemente arrendevoli. Per questo nei nostri club sassaresi era in vigore una regola non scritta, ma allegramente ripetuta: per ogni twist, due lenti. Era il lento, Il ballo del mattone (Rita Pavone), la musica del petting: e Legata a un granello di sabbia (Nico Fidenco) la sua sublimazione.

Quella sera al Piper, quelle centinaia di corpi giovanili che seguivano nuovi ritmi e nuovi movimenti, ci fece capire che qualcosa stava davvero cambiando. Non prendemmo parte a quel ballo, troppo goffi per abbandonarci a esso, troppo lenti e impacciati per apprenderlo, e tornammo al nostro tavolino.

Dopo qualche tempo cercammo i bagni: vi si arrivava attraverso un passaggio alla sinistra del palco e, poi, una rampa di scale. Anche quei locali erano molto ampi e molto illuminati: entrammo in quelli maschili, dove c'era una lunga fila di latrine a muro. L'uno vicino all'altro, io e Giuseppe scambiavamo parole e risate, quando poco distante da noi si fermo` un uomo a osservarci.

Noi, appena imbarazzati, terminammo le nostre operazioni e ci allontanammo, passando vicino all'uomo: questi rivolse un allegro e rumoroso apprezzamento alla virilita` di Giuseppe e ci chiese di accompagnarci da lui. Era la prima volta che ci capitava, ma non ne fummo particolarmente colpiti.

L'uomo fece spallucce, come per dire: non sapete cosa vi perdete. Ridemmo e riprendemmo le scale per tornare alla pista da ballo. Poi decidemmo di andarcene, uscimmo dalla piccola porta del locale e ci ritrovammo nella notte romana. Patty Pravo, al Piper, avrebbe cantato - o meglio, si sarebbe manifestata - solo qualche tempo dopo. E noi non c'eravamo.

 

LUIGI MANCONI MANCONI E BERLINGUER LUIGI MANCONI BIANCA BERLINGUER BIANCA BERLINGUER LUIGI MANCONI festa sui pattini al piper peppe farnetti primo dj del piper

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