IL MARCHESE FULVIO ABBATE LANCIA IL SUO APPELLO PER IL REGISTA FRANCO MARESCO: “C’È DA RESTARE ALLIBITI SAPENDO CHE NEGLI ULTIMI MESI I POSSIBILI INTERLOCUTORI ISTITUZIONALI PER LA PRODUZIONE DEL FILM ‘BELLUSCONE PARTE SECONDA’ NON HANNO RISPOSTO ALLE TELEFONATE DI MARESCO, NON I SIGNORI DI VIALE MAZZINI, NON QUEGLI ALTRI CHE DOVREBBERO COSTRUIRE UNA PORTANTINA D’ORO PER ONORARE IL SUO TALENTO"
Fulvio Abbate per “Il Dubbio”
Il maestro Franco Maresco, diversamente dagli stimati colleghi Paolo Virzì e Francesca Archibugi, registi di cinema come lui, lo si sappia, mai si presenterebbe in un’assemblea di circolo del PD ad auspicare la rinascita della “vocazione maggioritaria” con conseguente trionfale ingresso di Carlo Calenda, rampollo della Roma che conta, già protagonista del “Cuore” di nonno Luigi Comencini, nella cuspide della bella gente destinata a salvare il mondo democratico.
Maresco, infatti, dettaglio comunque secondario rispetto al suo irripetibile e vampiresco talento cinematografico visionario, ha perfino definito pubblicamente il garante culturale dei succitati colleghi, Walter Veltroni, “un signore che detesto per la banalità che riassume” (sic), impossibile immaginarlo dunque predisposto organicamente al sistema delle narrazioni per criceti medi riflessivi della vocazione da alcuni estesa perfino all’estetica filmica, grazie all’odierno cinema dei “telefonini bianchi”.
E forse anche sotto questa luce va letto il paradosso di un premio “dimezzato” per la regia, ricevuto di recente unicamente dal valente Daniele Ciprì, suo ex compagno di strada nell’avventura iniziata mediaticamente con “Cinico Tv” su Raitre. Se infatti Ciprì, di quel cinema “a quattro mani”, custodiva gli “occhi”, la fotografia in modo magistrale, Maresco ne riassumeva tuttavia la “testa”, la “voce”, la sostanza narrativa ultima. Un cinema, il loro, che parla infatti con l’intonazione di Maresco, cominciando dall’appello agli indimenticati “Fratelli Abbate”, i medesimi che, d’istinto, facevano risuonare, puntuale, un “Dica!”.
Franco Maresco, lo ribadisco, è tra i pochi maestri di vera libertà che il cinema italiano degli ultimi decenni possa vantare sia per spessore espressivo e senso poetico sia per irripetibilità narrativa, e questo grazie al catasto antropologico che è stato in grado di reperire, coltivare e mostrare, come un talent-scout di “mostri” del sottosuolo profondo siciliano, fino al più recente “Belluscone”, 2014, dove, meglio che in un saggio di sociologia, si dispiega l’irresistibilità culturale, dunque elettorale, dell’eroe santo taumaturgo Silvio Berlusconi.
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Lo scenario, come nell’intero mondo cinematografico che comprende la sua avventura inizialmente firmata, lo ripetiamo, insieme al non meno talentuoso Daniele Ciprì – dallo “Zio di Brooklyn” a “Totò che visse due volte” a “Il ritorno di Cagliostro”, è Palermo fotografata e così trasfigurata in un bianco e nero degno di un Cartier-Bresson o di un Salgado avvelenati dal vino di una taverna della Kalsa o di Ballarò, come paesaggio di una “dopostoria”, che poi, in verità, è l’eterno presente di Palermo incaprettata a se stessa, mai rammendata dal bombardamento alleato del 9 maggio 1943.
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Su quelle macerie, è stato possibile mostrare alcuni casi umani cittadini cui Maresco ha consegnato la stessa dignità attoriale di un John Wayne o di un James Dean finiti a fare, metti, i parcheggiatori abusivi per conto della mafia di piazza dello Spasimo: da Pietro Giordano capace di tramutarsi sullo schermo in topo, o perfino in preservativo usato e infine nel Cardinale Sucato, a Giuseppe Paviglianiti, uomo-scoreggia lì pronto a intonare sotto Monte Pellegrino chiose semantiche modulando la propria aerofagia, e ancora il ciclista Tirone, il pietoso Fortunato Cirrincione, e così via, e non una femmina mai sul set, posto che perfino i personaggi donneschi nel loro cinema sono alttrettanti maschi travisati da vecchie arpie intente a realizzare all’uncinetto una “sciallina”, è il caso della madre del Cardinale Sucato in “Il ritorno di Cagliostro”, dove tuttavia sfavillano altre facce non meno segnate dalla peste cittadina, compresi padre Camarda con i suoi tic e perfino attori professionisti come i compianti Franco Scaldati e Gigi Burruano, che Dio li abbia sempre in gloria.
La dimostrazione ultima che i nani da Luis Buñuel mostrati fin dal suo primo documentario su “Las Hurdes” hanno succursali anche a Palermo. Un paesaggio di poveri mostri in attesa di raggiungere l’astanteria del CUP del paradiso, trovando tuttavia la porta sbarrata come fosse l’ufficio di collocamento di Falsomiele, borgata cittadina.
Ragionando al presente, ho già detto di “Belluscone – Una storia siciliana”? Con Ciccio Mira, impresario di neomelodici sicani, o piuttosto sucani, pronti a custodire nelle proprie pupille l’immagine deferente del Signore di Mediaset, la custodiscono quasi Silvio Berlusconi fosse il Cristo pantocratore del Duomo di Monreale, pronto, volendo, ad accompagnarli a camminare sulle acque di Canale 5 a Cologno Monzese.
Imperdibile, ancora, il tentativo di far pronunciare lo stesso bisillabo “mafia” all’imprenditore Mira, e infine l’intervista “muta” a Marcello Dell’Utri, già, non può avere luogo a causa di un inconveniente tecnico, e intanto l’ex fondatore della “Bacigalupo”, l’uomo che portò ad Arcore lo “stalliere” Vittorio Mangano, sta lì, paziente, in attesa che la banda sonora torni a funzionare, non c’è però verso che l’intoppo si risolva, così alla fine troviamo Franco a imprecare contro tutti i santi protettori dei “Nagra” della terra. Ed è solo l’inizio, il primo capitolo di una storia a venire.
Ora “Belluscone Parte Seconda - la Vendetta”, o come davvero si intitolerà, attende da tempo d’essere messo in opera, e questo perché, piaccia o no, il nostro cinema ha bisogno dell’acido muriatico poetico di Maresco, e c’è veramente da restare allibiti sapendo che negli ultimi mesi i possibili interlocutori istituzionali per la produzione del film non hanno risposto alle telefonate di Maresco, non i signori di viale Mazzini, nelle persone dei direttori che si sono succeduti sul trono di Raitre, non quegli altri che dovrebbero semmai costruire una portantina d’oro, simile a quelle del tempo dei Beati Paoli, per onorare il talento di Maresco in nome dell’unicità del suo cinema.
Sia detto con sincerità assoluta, la scena dei preti e delle suore che, sincopati, ballano nei saloni del palazzo arcivescovile in attesa che l’osceno Cardinale Sucato-Pietro Giordano riceva gli ospiti, così come ancora la faccia di Mira alla domanda posta da Maresco se accetterebbe un figlio che volesse arruolarsi nell’arma dei carabinieri – “… lo manderei di casa” - valgono l’intero nostro cinema degli ultimi decenni.