
MAX PEZZALI PRIMA CANTA “LA REGOLA DELL’AMICO” E POI LA SMENTISCE: “CON MIA MOGLIE L’AMORE È VENUTO DOPO UNA LUNGA AMICIZIA. MI PRESI UNA COTTA PER LA MODELLA PADMA LAKSHMI, COME FINI’? LEI SPOSÒ SALMAN RUSHDIE – “L'UOMO RAGNO? L'ALLEGORIA DEL PRECARIO CHE CERCA LA RIVINCITA DALLE INGIUSTIZIE. E LE INDUSTRIE DEL CAFFÈ, PER ME, ERANO IL SIMBOLO DEI POTERI FORTI (IL BILDERBERG DELLA TAZZINA) – GLI ANNI ’90 VISTI DA PAVIA, GLI ERRORI NELLE CANZONI (“SCRISSI KURT KOBAIN CON LA K: GRAVE”), IL SALTO DEL CASELLO CON JOVANOTTI, CECCHETTO E I DUBBI SU “COME MAI” – LIBRO+VIDEO
Roberta Scorranese per il "Corriere della Sera"
Ma è vero che voleva fare l'ambasciatore? «Vero. Mi iscrissi a Scienze Politiche perché ambivo alla carriera diplomatica. Poi un giorno qualcuno mi fece notare che mi chiamavo Pezzali, che non avevo due cognomi, tipo Cimarosa di Camerino, e che ero figlio di due fioristi di Pavia. E così ho cominciato a scrivere canzoni».
Pavia, la città con «due discoteche e centosei farmacie». «La città dove non c'era spazio per la medietà. Io non ero figlio di avvocati o chirurghi, di quelli che si godono il centro storico in sella a biciclette con il cestino di vimini. Ma non avevo nemmeno il carisma cattivo di quelli delle case popolari, di quelli che fanno paura. No, io venivo dalla zona dei Pompieri, piccola borghesia, tanto lavoro, il miraggio delle ferie e del posto fisso. Che sogni avevo?».
Che sogni avevamo? È forse qui il cuore delle canzoni di Massimo «Max» Pezzali, 53 anni, già voce e parole degli 883 assieme a Mauro Repetto, da anni solista, da sempre poeta provinciale degli anni Novanta. Quel decennio spesso raccontato come «l'estate delle mie delle tue vacanze» (Jovanotti), ma chissà.
Era davvero facile costruire dei sogni in quegli anni, oggi così divinizzati da simboli come il walkman o il chiodo?
«No, perché i tradizionalisti consideravano noi ragazzi di allora delle teste vuote, che snobbavano il posto fisso, ma non è che i cosiddetti progressisti ci guardassero meglio, anzi. Per dire, se ascoltavi musica rap e se questo rap non era quello delle Posse, diventavi un qualunquista. E poi non era come oggi, che basta avere un telefono per sapere che cosa pensa un americano o un indiano e dunque imparare a sognare con i sogni degli altri. Eravamo prigionieri di una provincia in cui trovare una propria originalità era una scommessa».
La provincia, appunto. Raccontata da maestri come Guccini e Vasco Rossi, ma era solo quella la vera provincia italiana? O non era anche quella, più terra-terra, delle folle di ragazzi che raggiungevano Milano solo per vedere le «ragazzine vestite da modelle» nelle discoteche del centro?
«Sì, forse la maggior parte di noi faceva sogni più piccoli, più normali. Quelli che ho cercato di raccontare nelle mie canzoni. Io ero insicuro, avevo occhiali spessi come fondi di bottiglia, vedevo l'America come un orizzonte lontanissimo ma pure Milano mi sembrava una metropoli. Era difficile costruirsi un futuro nitido. Così ho preso a raccontare questa via di mezzo tra slancio vitalistico e autoconservazione: ragazzi che avevano paura dell'eroina, ma che, d'altra parte, non volevano nemmeno accontentarsi di un conformismo triste».
Insomma, visti da destra o da sinistra non si era mai abbastanza rivoluzionari?
«Ma a nessuno interessava davvero la rivoluzione negli anni Novanta».
Venne spazzata via la Dc.
«Capii allora che non c'era certezza di nulla. Mia madre mi ripeteva: "L'unica speranza che hai con il tuo diploma di maturità è avere un posto come fattorino o factotum all'interno di una banca, perché quelle sono le istituzioni che non crolleranno mai!". Bene, negli anni Duemila scoprirò che aveva torto».
Nelle sue canzoni ricorre il senso di inadeguatezza di fronte agli altri. Tradotto: il sentirsi «sfigati». Esperienza personale?
«Basta raccontare il mio primo amore. Diciassette anni, una tipa della mia scuola, mi piaceva da morire. Non le dico nulla per mesi, poi capita che ci vediamo a una festa. Io me ne sto lì come un baccalà, quando lei viene da me e mi fa: "Vabbé dai finiamola". E mi dà un bacio. Da allora non mi ha più rivolto la parola».
Un disastro.
«Sì, molti di noi erano come paralizzati di fronte al mondo. Perché se vivevi in provincia eri davvero provinciale. Non sapevi come comportarti con le ragazze, quando andavi in discoteca e arrivavano le donne da Pieve Emanuele o da Rozzano ti sembravano delle dee».
Qualche volta (orrore!) mettevate l'Arbre Magique nella macchina al primo appuntamento, per coprire la puzza di fumo.
«Sì, orrore, ma l'ho scoperto dopo. Tutto era una scoperta quando non c'era internet. L'America, dove spesi tutti i miei risparmi per comprare una drum machine elettronica della Roland, la TR-107. La cucina esotica: ricordo quando a Pavia arrivò il primo Tex-Mex, perché fino ad allora il massimo era stata la cucina cinese. Lo racconto nell'ultimo libro, Max 90 (Sperling & Kupfer, ndr ). E poi la musica, certo. Cioè la salvezza dalla medietà: cercavo di essere il più originale possibile nei gusti».
Ma alla fine che sgarro ha fatto l'Uomo Ragno alle industrie del caffè?
«L'Uomo Ragno era uno dei miei eroi, tra quelli che poi verranno divorati dai Manga. L'allegoria del precario che cerca la rivincita dalle ingiustizie. E le industrie del caffè, per me, erano il simbolo dei poteri forti. Io non sapevo nulla di economia industriale ma vedevo che alla televisione grandi attori e showmen venivano ingaggiati per fare la pubblicità del caffè. Per esempio Nino Manfredi. Mi convinsi che dovevano essere piene di soldi e che nascondessero chissà quale segreto».
Una Trilaterale della tazzina.
«Ovviamente era falso, ma quando non puoi verificare tutto in tempo reale, come si fa oggi, certe convinzioni resistono per anni».
Nella canzone c'è anche la citazione del famoso cocktail, che però diventa «Margaridas», con la «d».Perché?
«Un clamoroso errore: io, appassionato di cultura americana, avevo imparato la pronuncia statunitense. Un altro errore che ho commesso è stato quello di scrivere, in una canzone, Kurt K obain con kappa. Grave».
Il successo però arrivò con «Hanno ucciso l'Uomo Ragno». Anche se quella fama non bastò al buttafuori di una discoteca, che non la fece entrare perché lei portava i jeans
«Era una discoteca di Alessandria, mi aveva invitato Nicola Savino, lo racconto anche nel libro. Il buttafuori mi bloccò. Io provai a protestare e uno dietro di me disse: "Ma come, questo ha scritto l'Uomo Ragno!". L'omone alla porta mi guardò e fece: "Per me puoi pure aver scritto l'inno di Mameli, qui tu non entri". Questo per dire anche come fossero severe le regole in discoteca in quegli anni».
Nonostante tutto è felice oggi di non aver fatto il diplomatico?
«No ma l'anno scorso ho passato una magnifica domenica al mare con Bugo. Sua moglie è una diplomatica in carriera: ho trascorso ore a farle domande di ogni tipo».
Bugo potrebbe rientrare in una delle sue canzoni: un eroe vittima dell'orgoglio.
«Persona squisita, molto colta. Come il mio amico Lorenzo Jovanotti, al quale mi accomuna anche il salto del casello».
Che cos' è?
«Quando non c'era il navigatore dovevi stare attento a non sbagliare casello in autostrada. Chissà perché sia a me che a Lorenzo è capitato più volte di saltare il casello di Riccione».
L'amicizia con J-Ax però non può non portare qualche momento di follia.
«Devo proprio raccontarlo?» Sì. «Va bene. Una domenica io, lui e Jack La Furia prendemmo le nostre Harley e andammo nell'Oltrepò Pavese. A mangiare pane e salame. Detta così può sembrare normale, ma se vivi a Pavia è il massimo del tamarro. Però è stata una delle giornate più belle per me».
«Come mai» è una delle poche canzoni d'amore degli 883. È vero che lei non voleva farla? E perché?
«No, perché pensavo che non ci rappresentasse quel tipo di amore a lieto fine. Cantavamo la sfiga degli amori non corrisposti, insomma, non vedevo che successo potesse avere. Per fortuna Claudio Cecchetto puntò i piedi e mi disse: "Mi assumo io la responsabilità, e se l'album va male a causa di questa canzone, ci rimetto io". Fu un successo».
Una cosa assurda che ha fatto per amore?
«Amore è una parola grossa, però una volta conobbi una svedese. Che poi se ne ritornò a casa sua. Non avevo l'indirizzo e volevo mandarle dei fiori. Ma senza internet come facevo? Eppure io sono sempre stato un nerd e facevo parte di un circuito ristretto di gente che sapeva usare i modem. Una rete ante litteram, insomma. Così diffusi il messaggio e, dopo qualche minuto, mi rispose uno svedese che mi scrisse l'indirizzo della ragazza».
Però con il successo degli 883 arrivarono pure le modelle, alla fine!
«Sì, ma chi trovava il coraggio di avvicinarsi? Noi restavamo impalati, loro stavano con noi il tempo di un video o di uno shooting e poi sparivano. Però ce n'era una che mi piaceva molto. Si chiamava Padma, era coltissima e cucinava pure bene. La conobbi a Pantelleria, girò un video con noi. Trascorremmo serate belle, a chiacchierare nei dammusi. Com' è finita? È finita che lei ha sposato Salman Rushdie».
La regola dell'amico, ovvio. Però, Pezzali, lo confessi: lei ha sposato Debora Pelamatti, quella che è stata per anni una sua amica. «Sì, con mia moglie l'amore è venuto dopo una lunghissima amicizia. Un giorno ci siamo detti: bene, da adesso si cambia».
Ma come, «la regola dell'amico non sbaglia mai», non sposiamo quello con cui scambiamo confidenze. E invece...
«Diciamo che ci azzecca al novantasette per cento. E comunque con l'avanzare dell'età questa regola tende a funzionare sempre meno». Max Pezzali, ne «Gli anni», canta: «Il tempo passa per tutti lo sai/ Nessuno indietro lo riporterà neppure noi».
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