CINE DOTTO - METTI UNA NOTTE INSONNE A RIVEDERE “SALÒ E LE 120 GIORNATE DI SODOMA” DI PASOLINI (1975) E “LA GRANDE BOUFFE” (1973) DI MARCO FERRERI E I PIÙ GRANDI MAESTRI DELLA PORNOGRAFIA D’AUTORE CONTEMPORANEA, VERI E PRESUNTI, MA ANCHE DI QUELLA CRUDA E NUDA, E FANNO POCO PIÙ CHE UNA CARICATURA DEI DUE SUDDETTI - 4 VIDEO
Giancarlo Dotto per Dagospia
Ispirato da una notte insonne e da un cesso intasato che restituivano al mittente lo stesso incubo, in quell’apocalisse dell’igiene che può essere il gabinetto di un villaggio baiano, mi sono premiato con una micidiale sequenza di quattro ore: il “Salò e le 120 giornate di Sodoma” di Pasolini (1975) e “La Grande Bouffe” (1973) di Marco Ferreri, versioni integrali, tanto per garantirmi un orrore senza tregua, complici due geni che decidono di fare i conti con la pulsionalità immonda dei corpi che, straripando ogni water simbolico, artistico, immaginario, consolatorio, che pretenda di contenerli ed esorcizzarli (l’esorcismo dello sciacquone, quando funziona), mettono in campo il loro peggio. L’inascoltabile testimonianza del corpo. L’irraccontabile verità delle budella.
Mettete insieme i più grandi maestri della pornografia d’autore contemporanea, veri e presunti, ma anche di quella cruda e nuda, e fanno poco più che una caricatura dei due suddetti. Il Bertolucci di “Ultimo Tango” uno spot per giovani marmotte, ma anche arrivando all’ultimo Pascal Arnold, passando per il migliore Fassbinder e l’ultimo Lars Von Trier, non troverete nulla di paragonabile nel senso dell’inguardabile, alla lettera, che non si può guardare, insostenibile alla vista.
Lasciando appena fuori dalla porta quel genio di Tinto Brass, che da vero anarchico e necrofilo il suo porno mortuario lo ha sempre travestito alla grande e lo straordinario John Cameron di “Shortbus”, opera cardinale che mette insieme come mai nessuno prima le percussioni del cuore con quelle del cazzo.
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Versioni integrali, dicevo. Dunque, immaginando i due come un unico film in due tempi, il primo che prende a pretesto la deriva di Salò e l’altro la voluttà per il cibo, antefatto del suicidio orale, gastronimico prima ancora che gastronomico.
Un bordello unico e insaziabile che accoppia Sade e Masoch, corpi torturati e smembrati, padroni e vittime, defecazioni pubbliche, esplosioni di merda. Una volta sottratto alla menzogna del trucco all’inganno dello specchio, il corpo si afferma spudoratamente per quello che è e non si può raccontare, un montaggio delirante, sospeso tra il macabro e il comico, miracolosamente appeso a un respiro, miracolo chissà, che la vita, a pensarci bene o male, è probabilmente sopravvalutata.
Pasolini più Ferreri (cronologicamente viene prima il secondo, ma sono in realtà sovrapposizione pura e comunque l’agonia del Tognazzi infarcito fino a scoppiare come un’oca da un compassionevole Noiret, mai così noire, e il primo piano accanto della matrice pietosa e assassina, una Andrea Ferreol che straccia in quanto a erotismo da capolinea qualunque Jenna Jameson, Linda Lovelace, per non parlare delle tante Ciccioline sparse, merita il gran finale) raccontano estremi la frontiera dove i corpi diventano quello che sono a un certo punto della loro storia, voluttà di morte, a dispetto dell’ego che li abita e si pavoneggia.
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Mera calligrafia mortuaria che, sopprimendo la frastica dissoluta e farneticante dell’amore, rimanda in modo molto più lirico all’assenza dell’amore. Che è poi lo stesso motivo per cui i nostalgici di Dio, quelli che testimoniano il silenzio di Dio, la sua eterna mancata risposta, sono realmente i suoi veri, genuflessi adoratori.
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Richiamarli al disordine del giorno, Pasolini e Ferreri, e metterli insieme oggi significa anche liberarli dal penoso e pensoso assedio della lettura ideologica dell’epoca, per cui il film di Ferreri passò per una “feroce critica alla società dei consumi e del benessere votata all’autodistruzione”. Per non parlare all’opposto delle castronerie sganciate anche da geni amici come Luis Bunuel che definì “La Grand Bouffe” un “monumento all’edonismo”.
O, sul versante Pasolini, amici non meno insidiosi come Alberto Moravia, che si è ostinato fino in fondo a celebrare l’anima bella di Pierpaolo, stralciando le circostanze della sua morte e la loro impressionante analogia con la visione-premonizione di “Salò-Sade”, come un incidente non significativo e una relazione non necessaria.
Liberarli dall’assedio dell’ideologia per restituirli all’unico, vero assedio che li riguarda, quello del corpo che dichiara vendetta e si fa sadianamente padrone del circo. Precipitando nella sua vocazione molto autodistruttiva e per niente istruttiva.
“Salò” e “La Grande Bouffe” sono quello che sono, due spietati e molto privati testamenti. Pasolini lo raccontò a Carmelo Bene, un altro assediato dal corpo nei suoi ultimi anni, alla fine delle riprese. “Questo sono io, finalmente”.
“Salò” fu l’ultimo film di Paolini. Ferreri ne girò un’altra dozzina prima di morire a due giorni dal suo sessantanovesimo compleanno, d’infarto, come il suo amico Tognazzi e bulimie non dissimili.
Quante anoressie indotte fantasma sadiano.
Yourcenar Marguerite Yourcenar at Petite Plaisance
A chiudere, l’unica chiusa possibile, spazzate via le moleste chiacchiere, l’unica a poterne parlare è Marguerite Yourcenar con il pretesto di Adriano: “…E per la prima volta, stamane, m’è venuto in mente che il mio corpo, compagno fedele, amico sicuro e a me più noto dell’anima, è solo un mostro subdolo che finirà per divorare il padrone…”.
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