METTI UNA SERA A CENA COL VATE- IN UN LIBRO I PECCATI DI GOLA E DI SESSO DI D’ANNUNZIO -L’AMORE PER LA PERNICE FREDDA DI CUI IL VATE ERA SOLITO LECCARE GLI OSSETTI: “AHIMÉ, LE DONNE NON AMMETTONO CHE CI SIANO COSE PIÙ BUONE DELLE LORO PARTI PIÙ BUONE”
Irene Bignardi per “la Repubblica”
C’È un filo segreto che unisce Scarlet O’Hara, l’eroina di “Via col vento”, e il Vate, ovverossia, al secolo, Gabriele D’Annunzio. Il filo segreto è che ambedue, l’una per sembrare romantica e spirituale agli occhi dei ragazzi, l’altro per sembrare disinteressato alle banali concretezze della vita, prima di un pasto con altri, di una cena, di un evento ufficiale, mangiavano nel segreto della loro stanzetta, onde potere affrontare, pallidi e nobilmente disappetenti, la vita sociale.
È il filo rosso che ci accompagna durante la lettura di “A tavola con D’Annunzio”, un album divertente e sapiente curato da Paola Sorge (Carabba) sulle abitudini gastronomiche e gastroscenografiche del Vate. E anche sulle abitudini dei suoi amici e amiche, e di un’epoca che non temeva il colesterolo come oggi, ma che in compenso amava (come si sta ricominciando a fare anche troppo) trasformare pranzi e cene in un rituale e una cerimonia.
Basta percorrere con Paola Sorge le pagine e i testi di D’Annunzio, dai profumi del natio Abruzzo alla opulenza di Roma, dai giorni della Capponcina a Parigi alle avventure belliche e al Vittoriale, per capire che l’austerità di cui D’Annunzio amava fare mostra era una facciata.
Mentre nei suoi libri si spazia da “un risotto senza litigi” agli effluvi amorosi del té, dall’intreccio tra cibo e sesso a un’ammissione di bulimia («Pollo, pernice, biscotti al formaggio divoro nel fresco mattino settembrino »), il Vate si dimostra un poderoso organizzatore di cene, pranzi, godurie e scenografie studiate in modo da trasformare l’atto brutale e così volgarmente fisico dell’ ingurgitare il cibo in un rituale elegante e sensuale.
Qua e là, nei testi che la Sorge ha antologizzato, compaiono nomi di prodotti (Chanel, Atkinson, la menta Get, la sigaretta Abdullah n . 11) che, ai nostri occhi di cinici osservatori del ventunesimo secolo sembrano essere piazzati lì nel testo per quello che ora si chiama product placement – una citazione apparentemente naturale che in realtà è una forma di pubblicità occulta.
Anche perché si sa quanto D’Annunzio fosse abilissimo a vendere la sua creatività linguistica per fini meno nobili della pura poesia, dalle didascalie scritte a caro prezzo per Cabiria al marchio Rinascente, al nome trovato per un discutibile liquore di marasche scoperto durante l’avventura fiumana che verrà da lui battezzato (e ancora si chiama e ancora ha estimatori) Sangue Morlacco.
Se D’Annunzio è (ufficialmente) disappetente, è anche (ufficialmente) astemio. Beve per far contenti gli amici, brinda perché si deve, sorseggia per trovare un nome al Sangue Morlacco. Ma ama l’acqua, cita Pindaro che dice «ottima cosa è l’acqua», ne incide il motto sulle pareti della sua villa.
Resiste a lungo. E alla fine cede: il suo primo incontro con il vino avviene ad Arcachon quando un medico spiritoso prescrive al poeta in crisi depressiva una cura a base di ... Mouton Rothschild ’95. Che in effetti lo rimette in forma. Di lì al Mumm Cordon Rouge e poi alla cocaina il passo è breve.
Negli anni del Vittoriale D’Annunzio si diverte con l’Albina, la sua cuoca, le spedisce, nella sua bella calligrafia, bigliettini, versi e menu. La colazione per il 5 maggio 1930? «Un risotto magistrale, una frittata (con qualcosa: presutto o altro), ossobuco, asparagi di monte, con olio, niente altro».
Si diverte a battezzare i dolci: «La cocolla di frate nevoso», «La mammella di Sant’Agata», «Le ostie di suor Ghiottizia». Ma anche nei gelati, se è vero che è capace di ingollarsene dieci o dodici di seguito, facendo saltare la sua dieta tipo che prevede «da tre a cinque uova nella 24 ore, circa 100 grammi di carne, un mio accordo mistico di cacio pecorino e mascarpone; frutti, specialmente arance, e una tazza di caffé forte».
Ma il vero amore è la pernice fredda di cui, dice D’Annunzio, «ho mangiato tutto, ho leccato gli ossetti». Chiosando, nell’inevitabile intreccio dannunziano tra gola e sesso: «Ahimé, le donne non ammettono che ci siano cose più buone delle loro parti più buone».
E mentre in cucina si alternano le Clarisse (come il Vate chiama la aiuto cuoche di Albina, simpatiche ragazzone visibilmente di sano appetito), lo show della ricchezza continua, in una casa sempre più vuota di persone e piena di cose: arazzi, tovaglie, cuscini di Mariano Fortuny, statue che raffigurano divinità orientali, collezioni di vetri di Murano, sedie preziose, damaschi di Vittorio Ferrari.
Tutti godono di questo lusso. Ma c’è chi muore di indigestione: per fortuna è solo la tartaruga che ha donato al poeta la marchesa Casati Stampa. Ha mangiato troppe tuberose. E il poeta prende questo malinconico evento come un monito, invito alla sobrietà.