LA GRANDE VECCHIEZZA – ECCO COME MICHAEL CAINE S’È FATTO FREGARE DA SORRENTINO: “DOPO ANNI DI PICCOLI RUOLI, MI HA OFFERTO UNA MAGNIFICA PARTE DA PROTAGONISTA” – “LUI È UN GIOVANE GENIALE DALLE IMMAGINI INDIMENTICABILI E SUL SET MI DAVA SUGGERIMENTI CON GENTILEZZA DOLCISSIMA”

Natalia Aspesi per “la Repubblica

 

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Se sei nato nel 1933, l’età non la puoi nascondere; soprattutto se fai l’attore non puoi pensare di interpretare il giovanotto che fa perdere la testa alle giovani signore. Anche se poi nella realtà li conosciamo tutti i ricchi ottantenni con fidanzate e pupattole a pagamento men che trentenni. Comunque, dice Michael Caine, «meglio vecchio che morto, sia nella vita che nei film. E per quel che riguarda le donne, io ho da quarantatré anni una moglie bellissima, nessuna attrice giovane può eguagliarla. Il segreto del nostro matrimonio è che lei non ha il ruolo della donna all’ombra del divo, noi siamo una cosa sola e non ci lasciamo mai: lei viene sempre con me, dovunque mi porti il lavoro, così da decenni evito le eventuali tentazioni. Quando torno da lei ogni sera, mi sento molto fortunato».

 

Chi ha visto Youth - La giovinezza, il film di Paolo Sorrentino, era sicuro che al Festival di Cannes lei avrebbe vinto il premio per il miglior attore. Credo che ci pensasse anche lei, e per questo poi si è eclissato in silenzio.

 

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«Era già successo, sempre a Cannes nel 1966, con Alfie: avevo trentatré anni, ero il protagonista nel ruolo di un proletario dalle facili conquiste, mi dicevano che ero il più bravo: invece niente, anche se almeno allora il film vinse la Palma d’oro. Però ci rimasi male e sono passati quarantanove anni prima di accettare di tornare al festival».

 

Purtroppo anche questa volta inutilmente. Lei però di premi ne ha vinti tanti, compresi due Oscar per il miglior attore non protagonista, nel 1987 e nel 2000, per Anna e le sue sorelle di Woody Allen e per Le regole della casa del sidro di Lasse Hallström.

 

«Ma nel film di Sorrentino sono tornato dopo tanti anni a un ruolo di protagonista, il che è molto raro per un uomo della mia età. È da tempo che mi assegnano personaggi secondari, per fortuna divertenti e anche in film di grandioso successo, come la trilogia di Batman diretta da quel geniale regista che è Christopher Nolan. Un giorno di dieci anni fa me lo trovai davanti alla porta della mia casa di campagna, non lo conoscevo, mi mise in mano uno script, ed era il suo primo Batman: mi disse, la parte del maggiordomo è tua.

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Devo dire «Il signore è servito?», gli risposi un po’ seccato. Invece è un ruolo molto bello, quello di una specie di padre protettivo nella vita dell’orfano Bruce Wayne. Da anni mi offrono ovviamente solo parti secondarie, e mai di amante, perciò non ho attorno ragazze: capita da quando mi arrivò una sceneggiatura e obiettai che la parte dell’innamorato mi pareva troppo breve. La risposta fu, “ma tu sei il padre!”. Mi sono abituato alla comodità di non essere il protagonista, il lavoro si sbriga in fretta, non devo alzarmi all’alba né stancarmi».

 

Però ha accettato di essere la star del film di Sorrentino.

 

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«Io non sono una star, sono un attore, e continuerò a esserlo fino a quando sentirò di dare il mio meglio. Dopo anni di interessanti, comodi piccoli ruoli, quando Sorrentino mi ha offerto una magnifica parte da protagonista, mi è sembrato di ringiovanire, anche se il personaggio è, come me, uno che ha superato gli ottant’anni. Mi ha detto: “Questo film l’ho scritto per lei, se mi dice di no non lo faccio”. Potevo impedirgli di girare quello che per me, e mi pare anche per il pubblico, è un ottimo film? In inglese poi, e in un bel posto, dove mia moglie si è trovata benissimo e abbiamo avuto tutto il tempo di stare insieme».

 

Lei conosceva il cinema di Sorrentino?

 

«Io faccio parte dell’Academy che assegna gli Oscar: La grande bellezza l’ho visto e l’ho votato. Sorrentino è un giovane geniale dalle immagini indimenticabili e soprattutto, come Nolan, scrive lui la sua sceneggiatura, cioè è un autore, non solo un regista. Dieci minuti dopo averla letta, ho subito detto di sì. Gli sono molto grato per il modo in cui mi ha lasciato libero, e per la gentilezza dolcissima con cui mi dava suggerimenti».

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Michael Caine è un uomo di ottantadue anni portati con ironica serenità, una figura alta e dritta, pochi capelli rimediati nel film da un parrucchino biondo, sul viso quelle rughe che aveva anche in passato, e che gli consentono di esprimere pensieri, emozioni, segreti, senza muovere un muscolo: voce magnifica che noi non conosciamo a causa del doppiaggio. Non è mai stato bello ma sempre fascinoso, ovvio sognarsi la sua elegante perfidia dopo aver visto le due versioni di Sleuth.

 

Nella prima versione, col titolo italiano Gli insospettabili , quella del 1972, i due diabolici personaggi sono Laurence Olivier, il vecchio, e Michael Caine, il giovane. In quella del 2007, lei è il vecchio e Jude Law il giovane.

 

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«Delle due versioni io preferisco la prima, ma non perché in quella ero ancora giovane, ma perché la sceneggiatura era dell’autore della commedia, Anthony Schaffer, e mi è sembrata più cattiva, da togliere il fiato. La seconda, che pure era stata adattata da Harold Pinter, è forse troppo tecnologica e io non credo che le macchine possano raggiungere la perfidia sofisticata degli umani».

 

Dal 1950 a oggi, lei è scivolato impeccabile e spesso indimenticabile in più di cento film o serial televisivi, girati in Inghilterra o negli Usa ma anche in Sudafrica come nel 1964, con Zulu.

 

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«È stato il film che mi ha lanciato: ero giovane, biondo e slanciato, molto british, e mi offrirono la parte di un ufficiale britannico aristocratico: io però parlavo cockney, la lingua del proletariato, e gli inglesi avrebbero capito la differenza, ma il regista no, perché era americano, non poteva conoscere il nostro incancellabile classismo che si esprime soprattutto nel modo di parlare. Solo col tempo ho imparato anche a fingere la pronuncia posh , che si adatta di più alla mania di usarmi come personaggio di alta classe; persino in un film come Vestito per uccidere, in cui Brian De Palma mi trasformò in uno psichiatra psicopatico, un killer che per uccidere le donne si vestiva da donna. Pochi anni dopo ho lavorato anche con un regista italiano, Vittorio De Sica, un uomo molto simpatico, gentilissimo, con quella sua allegra napoletanità, e andammo subito d’accordo».

 

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Il film era Sette volte donna, sette storie interpretate da Shirley MacLaine allora all’apice della carriera, e lei aveva il ruolo di un investigatore privato pasticcione. Quarantotto anni dopo lei è tornato a fidarsi di un regista italiano, Paolo Sorrentino.

 

«Ho accettato anche perché non dovevo essere me stesso, in nessun film lo sono stato mai. Però potevo usare la mia età come un privilegio, addirittura invecchiandomi un po’ ed esorcizzando quella malinconia, quel senso di inutilità che temo gli anni possano portare».

 

Conosceva già Jane Fonda?

 

«Più di trent’anni fa siamo capitati nello stesso film, California Suite , ma non abbiamo girato una sola scena insieme. La vedevo solo la sera a cena, con tutti gli altri. Era una donna molto bella e molto simpatica. Lo è ancora oggi, ed è anche coraggiosa. Per il film di Sorrentino, nelle scene con Harvey Keitel, si è lasciata invecchiare, piena di rughe che non ha, lei che è famosa per l’impegno con cui riesce a non mostrare i suoi anni».

 

La giovinezza è girato in un bell’albergo svizzero trasformato in spa: lei frequenta questi luoghi, cerca di rallentare il tempo?

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«Relativamente sì, cammino molto, non bevo più mentre in passato bevevo anche troppo. Ma non vado nelle spa, non credo ai miracoli, lascio che il tempo scorra naturalmente, anche perché penso che nulla possa davvero rallentarlo: vivere alla giornata, con la fortuna di aver vicino dei grandi affetti e poter ancora lavorare, mi pare il miglior modo di vivere gli anni che restano. Naturalmente con la fortuna di una buona salute: nel 2008 in Is Anybody There? ho accettato il ruolo di un vecchio che si spegne nell’Alzheimer, ispirandomi alla tragica fine di un mio amico. Il film impressionò talmente mia moglie Shakira da impedire a nostra figlia Natasha, che era incinta, di andarlo a vedere».

 

Lei ha fatto a tempo da bambino a vivere nella Seconda guerra mondiale: che ricordi ne ha?

 

«La nostra era una famiglia proletaria ma molto unita, mio padre lavorava in una pescheria, mia madre era domestica a ore, c’era anche il mio fratellino Stanley. Con i bombardamenti, noi bambini fummo evacuati lontano dalla periferia londinese, e il ricordo più doloroso è quello del distacco dai genitori. Molto mi ha segnato invece la guerra in Corea: avevo diciannove anni e ogni giorno affrontavo la morte. Non l’ho mai dimenticato, credo che quell’esperienza mi abbia anche reso più forte».

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C’è una foto di lei ventenne con un gran ciuffone di capelli e vestito con giacca e cravatta, come un uomo in età. Del resto lei si sposò a ventuno anni, con una giovane donna conosciuta nei suoi primi tentativi di fare teatro. Due anni dopo nacque la sua prima figlia, Dominique.

 

«Allora non era il tempo dei ragazzi, eravamo subito uomini e come tali dovevamo comportarci. Nel teatro amatoriale non facevo carriera, al massimo ero il poliziotto che nell’ultima scena arresta il cattivo. Dovevo lavorare, ero spesso disoccupato, mantenere la famiglia era quasi impossibile. Patricia tornò con la bambina dai suoi, io dai miei».

 

Il successo lo ha raggiunto a trentatré anni con Alfie , che le ha fatto avere la prima nomination all’Oscar, e con il primo dei tre film tratti dai romanzi di Len Deighton in cui è l’agente Harry Palmer.

 

«Lavoravo senza sosta, bevevo due bottiglie di vodka e fumavo ottanta sigarette al giorno. Guadagnavo come non avrei immaginato, comprai un appartamento per mia madre e per me un antico mulino nei pressi di Windsor, da restaurare e con un giardino che mi avrebbe aiutato a sentirmi meno confuso».

 

Poi arrivò nel 1971 Shakira, modella angloguianese, aveva allora ventiquattro anni.

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«Stavo guardando con un mio amico la televisione, quando in una pubblicità di caffè ci fu questa apparizione: non avevo mai visto una donna così bella, piena di luce, con un sorriso stordente e me ne innamorai all’istante. Manovrai per conoscerla e finalmente il suo agente mi fece avere il suo telefono. Non avevo una gran buona fama, lei gentile ma fredda mi disse di chiamarla dieci giorni dopo. Così feci e lei accettò una cena e venne a prendermi per sicurezza con la sua automobile. Non riuscivo a parlare, ero totalmente stordito da tanto splendore. Il lavoro ci separò per qualche settimana, ci ritrovammo a Londra e da quel momento non ci siamo mai, mai lasciati. Ci sposammo a Las Vegas nel 1973, poi nacque la nostra Natasha. Facevo un film dietro l’altro, anche bruttissimi, ma così potei comprare la casa dei nostri sogni, nell’Oxfordshire».

 

Non avete mai lavorato insieme?

Michael caineMichael caine

«Una volta. John Houston mi voleva in L’uomo che volle farsi re, ma una attrice si era volatilizzata e non si riusciva a trovare la sostituta. Shakira era a tavola con noi e si offrì. Così abbiamo anche lavorato insieme, ma poi alla fine, nel film, sposa Sean Connery!».

 

Nel film di Sorrentino alla fine lei incontra sul palcoscenico la regina Elisabetta e il principe Filippo. Nel 2000 è stata la regina a farla Sir, quindi vi siete incontrati davvero.

 

«Più volte: la sera dell’onorificenza, mi chiese sussurrando se sapevo qualche bella barzelletta. Certo le risposi, ma forse non adatte a una regina. Lei fu la prima a raccontarmene una, e così non potei esimermi».

 

Pensa di rallentare il suo lavoro?

«Non ci ho ancora pensato. Nell’ultimo anno ho girato cinque film, compreso La giovinezza e Interstellar di Christopher Nolan. Ma sono molto impegnato come nonno. Potrei essere bisnonno ma mia figlia grande, Dominique, non ha avuto figli. Natasha invece ne ha tre, un maschietto di sei anni e due gemelli, maschio e femmina, di cinque: uno è scuretto come la magnifica nonna, due sono biondini come il nonno».

 

Michael and Sean Connery michael caine Michael and Sean Connery michael caine

E come tutti i nonni di questo mondo, estrae dalla tasca un vecchio portafoglio tutto sdrucito, e mostra trionfante la foto di tre carinissimi piccini.

 

 

 

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