LA VERSIONE DI MUGHINI - IL MIO VECCHIO AMICO E EX SENATORE DEL PSI LUIGI COVATTA, SI ACCINGE A CELEBRARE L’80° ANNIVERSARIO DELLA NASCITA DEL GLORIOSO MENSILE DEL PSI, “MONDOPERAIO” - DALLA METÀ DEI SETTANTA E SINO AI PRIMI OTTANTA, QUANDO ERA DIRETTA DAL GIOLITTIANO FEDERICO COEN, DIVENTA LA PIÙ BELLA RIVISTA ITALIANA
Giampiero Mughini per Dagospia
Caro Dago, c’è che il mio vecchio amico e ex senatore del Psi Luigi Covatta, attuale presidente della Fondazione Mondo Operaio, si accinge a celebrare l’80° anniversario della nascita del glorioso mensile del Psi, Mondoperaio.
Glorioso soprattutto in due fasi. La prima negli anni immediatamente successivi all’invasione sovietica dell’Ungheria, quando Pietro Nenni si disgiunse dall’alleanza politica con il Pci, e avviò la seminagione che doveva far nascere il centro-sinistra, il governo dove avrebbero duettato i democristiani e i socialisti. E in quegli anni lo dirigeva Raniero Panzieri, quello che nei primissimi Sessanta diede vita ai Quaderni rossi, la rivista che fa da pietra fondante del lunghissimo Sessantotto italiano.
La seconda, a partire dalla metà dei Settanta e sino ai primi Ottanta, quando il Mondoperaio diretto dal giolittiano Federico Coen diventa la più bella rivista italiana, la rivista che sul piano della lotta delle idee fa da pendant del “revisionismo socialista” inaugurato dal nuovo segretario del Psi, il nenniano Bettino Craxi. In quella redazione ci ho lavorato per sei-sette anni, a partire dal 1975, ed è stata l’esperienza culturale e politica più importante della mia vita. In quella redazione figuravano Luciano Cafagna (il maestro di più d’uno della mia generazione), Giuliano Amato, Gino Giugni, Tommaso Mancini, Giorgio Ruffolo, Luciano Pellicani, Luciano Vasconi (un bravissimo giornalista particolarmente esperto della Cina). Di tanto in tanto compariva il giovane Claudio Martelli.
Norberto Bobbio pubblicò sulla rivista i più bei saggi politici della sua vita, saggi che smontavano il marxismo dalle fondamenta. Uno dopo l’altro venimmo chiamati a collaborare noi trentenni, il sottoscritto, Ernesto Galli della Loggia, Mario Baccianini, Paolo Flores d’Arcais. A quel tempo mio amico fraterno, Paolo divenne il direttore del centro culturale che prendeva il nome della rivista. Fece il suo lavoro benissimo, e finché non si espresse pubblicamente in termini molto critici nei confronti del gruppo dirigente craxiano. Il che rese impossibile la sua permanenza al centro culturale della rivista.
Ve l’ho fatta lunga perché quei sette/otto anni di vita del mensile socialista sono stati un’esperienza cruciale della nostra storia politica. Sono gli anni in i cui comunisti organizzano cortei oceanici contro la decisione americana di appostare in Europa missili che fossero pronti a replicare ai missili che i sovietici avevano puntato contro di noi, ed è il Psi di Craxi a dire che quei missili sono una risposta sacrosanta, tanto che ne andrà a pezzi l’economia sovietica.
E’ quel 1977 in cui Carlo Ripa di Meana (voluto da Craxi alla presidenza della Biennale di Venezia) organizza contro tutto e tutti quella memorabile Biennale del dissenso in cui per la prima volta erano messi in vetrina i nomi e i destini degli intellettuali che pativano sulla propria pelle le delizie del comunismo reale, un comunismo che secondo la dizione berlingueriana aveva solo qualche “tratto illiberale”.
Sono gli anni in cui la buona parte della crema intellettuale comunista e filocomunista si dichiara orgogliosamente “leninista” e guai a toccargli quel pensiero truce e furibondo. Sono gli anni, a dirla in breve, in cui diventa visibile e palpabile l’esistenza di una sinistra italiana moderna, geneticamente avversa al comunismo reale e alla teoresi che ne faceva il paradiso del proletariato. Tutto quello che è oggi una sinistra possibile, è nato da quella stagione, da quella magnifica avventura intellettuale.
L’ho detto. E’ stata l’esperienza culturale più importante della mia vita. Ebbene mai una volta che un giornalista mi chieda di quegli anni, mai una volta che menzioni la rivista Mondoperaio. Mai una volta che ne legga da qualche parte, ed eccezion fatta ovviamente degli scritti di Ernesto Galli della Loggia. Temo che i nomi di Cafagna Amato Ruffolo Mancini siano estranei persino ai migliori esponenti delle ultime generazioni intellettuali. Altro che ottantesimo anniversario della rivista.
Una riprova? Succede che elettrizzato dalla miniera di fatti personaggi destini evocati bel libro di Sandra Petrignani dedicato alla Ginzburg, ho acquistato tre o quattro libri di Cesare Garboli, un intellettuale e scrittore che ho la colpa di conoscere infinitamente meno di quanto merita. Ebbene, ho cominciato dalla lettura di un suo librino einaudiano del 2001 dal titolo Ricordi tristi e civili.
Di solito abituato a volare alto, a dare del tu a Giovanni Pascoli o a Chateaubriand o a Antonio Delfini, in queste pagine Garboli indaga e commenta l’attualità storica e politica del Novecento. Ed ecco che punta il suo sguardo e la sua intelligenza sul ratto e l’uccisione di Aldo Moro e su tutto ciò che gli sta attorno. Leggo, e mi sorprendo. Lui, Garboli, si autodefinisce “comunista” ma non nel senso di essere iscritto a quel partito e anche se non capisco in quale altro senso.
Appena gli arriva alla penna il nome di Craxi e dei socialisti, gli si legge sul volto come un ghigno: capisci che per lui tra l’aggettivo “socialista” e il sostantivo “ladro” non c’è chissà quale differenza. “E’ stata riconosciuta al craxismo la non piccola gloria di avere insegnato agli italiani che fare politica può essere un investimento e un affare lucroso”, scrive Garboli alla pagina XV della sua introduzione al libro. Se la prende anche col “revisionismo”, con lo sforzo che facemmo in molti di rompere vecchi recinti e vecchie abitudini intellettuali. Al “revisionismo” attribuisce addirittura la colpa di far “strisciare” un fascismo di ritorno. Un fascismo di ritorno nell’Italia tra Ottanta e Novanta? Come, quando, chi?
E poi c’è che per Garboli colpire Moro era innanzitutto e per antonomasia un voler colpire “il comunismo di Gramsci e Togliatti” che Moro voleva portare al governo. Ecco perché, nove su dieci secondo Garboli, ad organizzare il massacro di Moro sono stati con tutta probabilità i servizi segreti americani e israeliani.
Ah sì? In realtà i brigatisti scelsero come bersaglio Moro perché era più facile che non rapire Giulio Andreotti. A via Fani il comunismo c’entrava eccome, un comunismo certo diverso da quello professato da Garboli. Erano comunisti al cento per cento quelli che avevano tirato sulla scorta di Moro, per lo più gente disarmata.
Tanto lo erano che i comunisti berlingueriani, gente indubbiamente molto seria, non ne vollero sapere di trattare con loro pur al prezzo di sacrificare la vita di Aldo Moro. Altro che servizi segreti americani e israeliani. E finisco col ricordare i nomi dei compagni di Mondoperaio che non ci sono più, da Giugni a Cafagna a Tommaso Mancini a Luciano Vasconi, morto pochi mesi fa.