NEL WEB SI NASCE IDEALISTI E SI FINISCE MONOPOLISTI - DA GATES A JOBS, PASSANDO PER PAGE, ZUCKERBERG E BEZOS: TUTTI LIBERAL E ULTRA-PROGRESSISTI, MA OGNUNO CON L’ISTINTO DEL PREDOMINIO SUGLI ALTRI
1. AMAZON CONTRO GLI EDITORI, GOOGLE CONTRO L’ANTITRUST, FACEBOOK CONTRO LA PRIVACY
Federico Rampini per “la Repubblica”
Un gigantesco ratto accoglie ogni mattina i giovani talentuosi che vanno a lavorare nella sede newyorchese di Google, al Chelsea Market. Qui il ratto di plastica gonfiabile è un’icona classica delle proteste sindacali, viene usato per denunciare vistosamente aziende che non rispettano i diritti dei lavoratori. Quel roditore in formato King Kong non è rivolto a Google bensì a una ditta edile che fa dei lavori nel palazzo.
I dipendenti di Google, liberal e progressisti, simpatizzano con la protesta. Non li sfiora l’idea che quel ratto potrebbero gonfiarlo loro e portarselo in ufficio, per protestare contro il proprio datore di lavoro. In casa Google il sindacato non esiste. Non è mai esistito. Non è previsto. E per quei giovani con Master o Ph. D. nelle migliori università d’America, è normale così.
Non si concepiscono come una categoria, ancor meno una “classe”, che potrebbe avere legittime rivendicazioni collettive. Ciascuno per sé, è il motto del carrierismo individuale che regna nelle aziende hi-tech.
Salvo scoprire che il padrone è sempre un padrone. Proprio Google è stata colta in fallo, in collusione con Apple, in un maxi-processo ricco di colpi di scena. L’antefatto risale all’epoca in cui Steve Jobs era ancora vivo e al timone di Apple. Con il chief executive di Google, Eric Schmidt, fece un “patto di non aggressione”: tu non mi rubi i miei ingegneri, io non assumerò mai nessuno dei tuoi dipendenti. Un modo per congelare la mobilità, cancellare ogni concorrenza tra datori di lavoro, quindi evitare aumenti di stipendi.
MAGAZZINO AMAZON A PHOENIX IN ARIZONA
Condannati per cartello oligopolistico, i big della Rete hanno tentato di patteggiare, ma il giudice vuole infliggere una multa record, di miliardi. Nel frattempo le cronache estive si concentrano sulle malefatte di Amazon. Il suo fondatore Jeff Bezos è protagonista di una guerra senza quartiere contro editori e autori di libri.
I metodi di Amazon fanno paura, il colosso del commercio online è arrivato a cancellare dai propri listini i libri dei suoi nemici, per far calare le vendite e metterli in ginocchio. Decine di scrittori hanno denunciato i metodi ricattatori. Lo scontro ha avuto un risvolto “orwelliano”, quando Amazon ha chiamato in causa proprio il defunto George Orwell, l’autore anti-totalitario di 1984 e La fattoria degli animali , cercando di usarlo a proprio sostegno. Salvo scoprire che Amazon aveva capovolto il pensiero di Orwell.
Curioso destino, quello di Bezos. Ricordo bene quando nacque Amazon, perché di lì a poco io mi trasferii a vivere in California, nella prima New Economy. Divenni subito un cliente affezionato di Amazon. Il suo catalogo sterminato, la facilità d’uso del sito, la velocità e affidabilità delle consegne, il servizio dopo-vendita: Amazon ci trasportava in un mondo dove il lettore era sovrano, un sistema di vendita più efficiente rispetto alle catene di librerie-supermarket.
Ma una volta messi in ginocchio i librai, Amazon ha gettato la maschera. Ormai vende di tutto. Sa tutto di noi consumatori. E vuole fare terra bruciata della concorrenza.
SUN VALLEY CONFERENCE MARK ZUCKERBERG E PRISCILLA CHAN
È una storia familiare. Ci sono passati tutti, senza eccezioni. Prima Bill Gates. Poi Steve Jobs. I fondatori di Google, Larry Page e Sergey Brin. Fino a Mark Zuckerberg di Facebook. Tre generazioni, con storie diverse. Ma unite dalla stessa parabola. I Ragazzi del Web cominciano sempre come degli idealisti.
Nella generazione di Steve Jobs, la cultura era la stessa dei figli dei fiori, il movimento hippy esploso con la Summer of Love di San Francisco. Libertari, anti-autoritari, trasgressivi, ambientalisti, amici delle minoranze oppresse. Quei valori restano nel Dna della Rete: molti di questi capitalisti donano generosamente alle cause liberal, i matrimoni gay o la lotta contro il cambiamento climatico.
Ma come imprenditori, hanno finito per gettare la maschera: i ragazzi ribelli di ieri sono i monopolisti prepotenti di oggi. Google è alle prese con l’antitrust europeo. Facebook è accusato di usarci tutti come delle cavie di laboratorio: uno degli ultimi esperimenti è la manipolazione segreta di ciò che alcuni utenti mettono su Facebook, per studiare come i loro sentimenti possono essere influenzabili.
La nostra privacy è terreno di scorribande sempre più spregiudicate. I nostri redditi pure: Google, Facebook, Twitter, sono i nuovi “aggregatori di contenuti” online, che dietro l’apparenza della gratuità stanno consolidando un nuovo contratto leonino. Saccheggiano i contenuti prodotti da altri (musica, spettacolo, immagini, informazione), non pagano il lavoro così utilizzato, e prelevano pedaggi pubblicitari e di marketing sul traffico in Rete.
Com’è stata possibile questa involuzione? Perché i giovani trasgressivi di ieri si sono trasformati nei Cattivi Ragazzi della Rete? In parte è un copione classico nella storia dell’economia moderna. I capitalisti, checché dicano nei convegni, non amano la concorrenza. Il loro sogno è il monopolio, garantisce i massimi profitti col minimo rischio.
Il mercato va protetto dalle loro mire, e in America dagli Ottanta in poi questo è accaduto sempre meno: da Ronald Reagan fino a George Bush è stato un arretramento continuo dell’antitrust. L’amministrazione Obama avrebbe voluto invertire la tendenza, ma i Padroni della Rete sono progressisti e generosi finanziatori del partito democratico.
Un’altra spiegazione del destino monopolista è in un vizio culturale originario. La cultura della Silicon Valley è ultra-progressista ma anche di un individualismo sfrenato: di qui l’avversione al sindacato; la venerazione dell’imprenditore-genio. Le degenerazioni di questa visione portano fino ai progetti stravaganti di creare sedi offshore su piattaforme marine extra-territoriali, Stati sovrani dove trapiantare la Silicon Valley lontano dai vincoli della politica e del consenso.
Senza arrivare a questi estremi, Amazon Apple e Google sono già dei campioni di elusione fiscale, maestri nello spostare i loro immensi profitti in sedi estere dove la pressione fiscale è minima.
2. “SONO I NUOVI PADRONI MA HANNO CONSERVATO UNO SPIRITO LIBERTARIO”
I ragazzi che sognavano un mondo migliore sono cresciuti. Hanno cambiato il nostro modo di lavorare, di comunicare e di vivere. Ci avevano promesso un futuro diverso e oggi si devono difendere dall’accusa di spiarci, di usarci come cavie di esperimenti sociali, di manipolarci. Sono diventati i signori del capitalismo moderno, ma secondo Enrico Moretti, docente di economia all’università di Berkeley, non hanno tradito le aspettative libertarie dell’inizio.
oracle building, silicon valley
Il professore italiano che è stato chiamato alla Casa Bianca per discutere le sue tesi su crescita e innovazione, l’accademico che ha scritto “La nuova geografia del lavoro”, secondo Forbes uno dei saggi più importanti degli ultimi anni, conosce bene i big della Rete. E pensa che sia merito loro se una parte del mondo, quella delle città hi-tech, è riuscita a crescere. «Sono i padroni di oggi ma non è detto che saranno i padroni del domani. Hanno una posizione dominante sul mercato, ma non c’è nulla che ci dica che utilizzeranno il loro potere per scopi sinistri».
Qualcuno li teme. In America quasi mille scrittori accusano Amazon di demolire l’industria editoriale per i propri interessi.
«Qualsiasi azienda che si presenta come innovativa tocca interessi preesistenti. Nel caso di Amazon quelli degli editori. È arrogante, politicamente scorretta, ma si propone come nuovo intermediario tra scrittori e lettori, abbassa i costi di produzione e distribuzione. Di fatto rende la lettura più accessibile».
Più accessibile prendendo in ostaggio i libri?
«Per come la vedo io il problema non è in Amazon ma in Hachette. Come sempre quando si cambiano le dinamiche di mercato c’è qualcuno che vince e altri che perdono. In questo caso perdono gli editori tradizionali e vince Amazon. Non da sola, ma insieme ai lettori e agli scrittori. Sia quelli minori che con l’e-publishing possono essere pubblicati e conquistare una loro nicchia di mercato, sia gli scrittori affermati che diminuendo i costi di produzione e distribuzione, aumentano la propria percentuale di guadagno».
Le condizioni della Silicon Valley
Non solo Amazon. Anche i social network sono al centro di pesanti critiche. Twitter ci aveva illuso durante le primavere arabe di essere uno strumento di democrazia, secondo alcuni osservatori si è trasformato in un rumore incessante che distrae e appiattisce il pensiero.
«Ma questa è un’analisi legata a come noi usiamo queste tecnologie e non a come le tecnologie usano noi. Se per arricchirci, informarci, partecipare a rivoluzioni democratiche o come distrazione continua è un problema che riguarda noi, non la tecnologia o chi fornisce quella tecnologia gratis in qualsiasi parte del mondo».
Non proprio gratis. Noi diamo ai padroni della Rete informazioni preziose, sui nostri consumi e sui nostri orientamenti politici. Facebook ci ha usato come cavie di un esperimento sociale, Google è stato accusato di spiarci.
«Qualsiasi azienda grande, influente e iconica attira le critiche, ma quelle di questo tipo sono figlie di una visione statica del web. Google non può orientare le nostre ricerche in base a una decisione politica, ad esempio per favorire un candidato alle elezioni. Se lo facesse la reazione degli utenti sarebbe punitiva e perderebbe la sua posizione dominante ».
LA CITTA DI SAN JOSE IN CALIFORNIA NEL PIENO DELLA SILICON VALLEY
Torniamo a Facebook, pensa che sia stato corretto esporre gli utenti a contenuti emotivi per valutarne le reazioni a loro insaputa?
«Non dobbiamo dimenticare che non è stata una manovra commerciale, ma un esperimento di natura accademica, una ricerca sociale».
Di solito quando uno viene usato come cavia ne è informato...
«Vero, ma l’errore più che di Facebook è stato dei colleghi ricercatori. Da adesso in poi sarà molto più difficile rivolgersi alle aziende per avere accesso alle loro banche dati, anche per scopi accademici».
Tra i protagonisti della prima rivoluzione di Internet c’era anche Apple. Si sono presentati come ambasciatori del think different, ma poi sono stati coinvolti in una brutta storia di sfruttamento della manodopera.
«Questo è un altro discorso. Rientra all’interno di un processo trentennale di delocalizzazione della manifattura che ha caratterizzato tutti i settori imprenditoriali. Apple per i primi 15 anni ha prodotto i suoi computer in California, poi in regioni più economiche dell’America e infine in Asia.
Oggi tutte le componenti fisiche sono fatte altrove, dove il costo del lavoro è più basso. Dal punto di vista dei lavoratori di quei paesi questo è un progresso: sono investimenti, opportunità di crescita. Non sto parlando di lavoro minorile, che ovviamente è inaccettabile. E le imprese, Apple compresa, hanno il dovere di sorvegliare sedi e partner esteri».
Insomma, secondo lei i signori della Rete sono cresciuti ma non hanno tradito le aspirazioni libertarie dell’inizio.
«Credo che siano rimasti molto vicino a quello che sognavano quando hanno cominciato a costruire le loro imprese. Ci sono stati dei costi, ma inferiori ai benefici. Se ci astraiamo dal quotidiano e guardiamo la nostra vita come era 25 anni fa, credo che sia chiaro: il mondo è un posto migliore».