NEW YORK È DIVENTATA PER VIP E ARTISTI QUEL CHE UN TEMPO ERA L'ITALIA: UN'ESPERIENZA CULTURALE IMMANCABILE PER CHI SI SENTE “STRETTO” NELLA PROVINCIA, AL BUIO DEI RIFLETTORI DEL MONDO - TRAVAGLIO OSPITATO ALLA COLUMBIA, LA BORROMEO CHE CI FA IL MASTER, JOVANOTTI LA CONSIDERA “CASA” E SAVIANO SI TUFFA TRA GLI “OCCUPY WALL ST”, QUANDO “OCCUPY” È GIÀ FINITA - PIÙ A LORO AGIO I DUE SCIROCCATI PIPPA MIDDLETON E LAPO ELKANN…

Mattia Ferraresi per "Il Foglio"

Nella vita di un artista c'è un momento fatale in cui i confini nazionali si trasformano da trampolino per la celebrità in un rigido piano inclinato verso la sterilità creativa. All'inizio la patria sembra una culla accogliente, piena di punti di riferimento, mani da stringere, cose belle da cui lasciarsi ispirare e abitanti con cui scambiare esperienze, storie e quant'altro. Tutti, a quel punto, sono giovani e aitanti, pieni di idee rivoluzionarie; la provincia più bolsa appare come un luogo abitato dalle muse, perché in fin dei conti è una questione di stato mentale, di vibrazioni, di energia positiva e se è sempre difficile incasellare un artista in un genere, ancora più difficile è imbrigliarlo in un confine geografico.

Gli artisti, in questa fase giovanile, brillano di un orgoglio identitario incontenibile: gli scrittori si muovono sulla terra di Dante, i musicisti in quella di Verdi, i registi in quella di Fellini, i pittori in quella di Caravaggio, i designer in quella di Castiglioni e non è umanamente concepibile desiderare un terreno più fertile per esprimersi. Poi, in un punto imprecisato della parabola che porta dall'"artista locale molto scanzonato" al "tedoforo di una saggezza universale", i confini iniziano a stare stretti, la striscia dalle Alpi alla Sicilia diventa il luogo del soffocamento, tutto è impolverato di provincialismo e si sente l'insopprimibile bisogno di parlare al mondo intero, non soltanto alla grande borgata italica.

Si finisce insomma per arrivare a New York, perché un conto è parlare da Zagarolo, un altro da Soho. Una cosa è il cantautore, un'altra è lo storyteller. Lo Strega è prestigioso e la terrazza del Campidoglio è "da paura", il Pulitzer è riconoscimento universale. A New York l'artista maturo, di qualunque genere esso sia, non ci arriva con il piglio caricaturale dei turisti da weekend lungo, non è così ingenuo, ma con la postura eretta del cittadino del mondo.

Si "immerge" in quel mondo nel mondo che è New York, ne elogia le virtù multiculturali, dice con grande profondità che è una città magica perché è un incrocio di razze e culture (il mondo è bello perché è vario), viaggia rigorosamente a piedi per respirare meglio il clima, apprezza l'apertura mentale delle persone, anche di quelle che spintonano in metropolitana, si lamenta leggermente per le temperature invernali ma ne conclude che "è proprio questo il bello".

Persino i nove milioni di ratti che abitano in città sembrano compagni di viaggio desiderabili, il complemento giusto per un posto pieno d'energia, la città che non dorme mai e dove non si trova un tassista americano neanche a pagarlo. Ma almeno c'è il volo diretto da Malpensa, che poi chissà perché ti chiedono se sei un terrorista ("che scemi, uno mica lo dice se è un terrorista, no?", chiosa il vicino di posto). Si trova di tutto a New York, dice quello, nelle pause fra una messa gospel ad Harlem ("spettacolare"), un musical a Broadway ("comunque il musical qui è un'altra cosa"), una passeggiata a Central Park ("in una città italiana ci avrebbero fatto dei parcheggi") e un'allegra pizzata con gli amici ("mi sento a casa").

Ecco finalmente il palcoscenico adeguato alla fase della maturazione artistica, la cassa di risonanza consona al talento coltivato negli anni giovanili e provinciali. Allora si compra casa, ciascuno nel quartiere che sente più affine, purché sia sicuro, si mandano i figli alla scuola italiana, si progetta di stabilirsi nel luogo dove il mondo è più mondo, ove la creatività stilla dalle pietre come il latte e il miele nella terra del Prete Gianni. Jovanotti è rimasto folgorato da New York, anzi di più: "Considero New York una specie di specchio dei miei sentimenti più profondi, anche se sono nato a 8.000 chilometri dalle rive dell'Hudson".

E ancora: "E' la città delle città dove ognuno trova qualcosa di suo". Oppure: "E' la città che ha dentro tutte le città. Questa città ha un effetto forte su di me. L'effetto che hanno in genere le città, ma più forte. Non posso stare in una stanza. Tutto mi chiama fuori. Uscire per strada. Con qualsiasi condizione atmosferica, in qualsiasi ora, uscire. Sentirmi un globulo rosso in queste arterie".

Globulo rosso in arteria newyorchese: è quello che l'artista ex identitario, già nazionalpopolare, ormai engagé e non più svagato, ha bisogno di sentirsi per sfuggire all'afasia da confine nazionale. Quando tutto appare arido, New York è un'oasi dove il demi monde di tutto il mondo può rigenerarsi a un prezzo abbordabile e gratificare la percezione dell'essere-nel-mondo. Il viaggio a New York qualche decennio fa era quello che qualche secolo fa era il viaggio in Italia, un rito d'iniziazione culturale.

Ora a New York non basta andarci in gita, ché con un breve soggiorno si rischia di regredire nella strada del provincialismo artistico, non di scalare posizioni, ergo bisogna stabilirsi, conoscere gli angoli giusti, i luoghi occulti, osservare per almeno due ore al giorno i vecchietti che pescano dietro alla Freedom Tower oppure, a scelta, quelli che giocano a scacchi a Washington Square. Se c'è un evento popolare, un Occupy Wall Street, per dirne uno, bisogna mimetizzarsi fra la folla locale e poi muovere mari e monti per essere invitati a fare un discorsetto dall'alto di un secchio di vernice rovesciato. Per l'artista ci vuole il giusto equilibrio nelle frequentazioni: bisogna compiacere i connazionali, ma senza esagerare, perché se poi si va a New York per fare la vita che si faceva alla Garbatella tanto vale non compilare lo stupido modulo in cui neghi di avere partecipato a un genocidio.

Con questa tensione dello spirito Jovanotti ha iniziato a dare del tu a New York, a essere un globulo rosso, a fare concerti sold out uno dietro l'altro, attraendo un pubblico più eterogeneo della semplice rappresentanza italiana. E' andato anche a Harvard a parlare di diritti umani, per non farsi mancare nulla. Lui lo aveva chiarito: "Non si dovrebbe mai viaggiare per turismo, perché è il contrario esatto del viaggio. Bisogna sempre viaggiare per gli antichi motivi: per lavoro, per conquistare spazi, per pellegrinaggio. Il pellegrinaggio è il più nobile dei motivi ma anche il mercanteggiare è motivo degno. Ma il turismo lo concepisco solo in gita scolastica".

A meno che non miri segretamente a conquistare spazi, come uno stato canaglia, il musicista Jovanotti viaggia per lavoro. Forse anche per pellegrinaggio, e in tal caso lo si incontrerà il 21 ottobre ad Auriesville (più capillare che arteria), tre ore di macchina a nord di New York, al santuario dei martiri americani, per la canonizzazione di Kateri Tekakwitha; più probabilmente quello di Jovanotti è anche un pellegrinaggio interiore, restituzione del proprio essere a se stessi e sdoganamento di tale essere alla frontiera del mondo. Anzi, nel suo ombelico.

Per il mini tour di marzo era difficile trovare i biglietti, e solo i più altolocati della comunità italiana sono riusciti a introdurre nel locale anche i figli minorenni, roba che se l'avesse scoperto Bloomberg avrebbe reintrodotto il proibizionismo per decreto. All'appuntamento autunnale Jovanotti arriva addirittura con un singolo programmaticamente intitolato "New York for Life", dove racconta con una "pronuncia che assomiglia a quella dei taxisti" (autodefinizione) che L. A. è bella ma New York è casa, e lui vuole svegliarsi a New York "with Frankie and his voice"; e con una menzione assai lusinghiera del New York Times di cui va giustamente fiero.

Ma a testimoniare la rigenerazione dell'artista che ha superato il limes ci sono anche le cose che non si vedono da fuori. Nel Lower East Side c'è un bar bulgaro di nome Mehanata, è uno di quei locali dove si va per divertirsi, non per reggere un bicchiere pieno di ghiaccio sorridendo. Chiude molto tardi, cioè molto presto, si beve vodka e sidro di mele e talvolta succedono cose discutibili, ma l'"ombelico del mondo" a un certo punto della nottata risuona sempre in quella che sarebbe generoso chiamare pista.

Il pubblico gradisce, perché lui, Lorenzo Cherubini, è uno di casa, uno di quelli che iscrive la figlia in una scuola del salvifico suolo newyorchese. Un rigenerato di New York. Roberto Saviano è un altro esempio fulminante dell'evasione dalla prigionia dei confini nazionali. A New York ci ha passato sei mesi, ha tenuto un corso molto riservato alla New York University che in qualche modo ha coinciso con la definitiva internazionalizzazione del suo core business: la camorra è un tema di denuncia importante, ma anche il narcotraffico dell'America centro meridionale non scherza e ha un'allure globale che va nutrita per non perdersi nelle strade strette della provincia.

Nel blindatissimo sermone di fine corso ha parlato assieme a Nouriel Roubini del ruolo della mafia nella crisi economica, un percorso che unisce i casalesi a Schumpeter passando per Los Zetas. La sentite la propulsione newyorchese? Lo vedete l'Empire State Building alle pendici del Vesuvio? Che i confini stessero stretti a Saviano lo si sapeva da quando "Gomorra" ha venduto milioni di copie in decine di lingue, giustamente acclamato come superbo lavoro di denuncia in forma narrativa, new journalism che contiene già nello stile i bacilli dell'internazionalismo.

Ben presto è iniziata la peregrinazione oltreconfine, e in parallelo la salmanrushdizzazione della sua figura pubblica, e tutto il percorso si è immancabilmente concluso a New York, Heimat dell'artista in cerca di rigenerazione. Nel suo periodo newyorchese Saviano ha anche ripreso contatto con la fede. All'incontro con Roubini il pubblico - nel quale si potevano riconoscere vari rigenerati e molti rampolli non abbastanza famosi per sentire l'oppressione da confine nazionale, ma è solo questione di tempo - poteva recapitare domande in forma scritta.

Una recitava così: "Che cosa vuole da New York? Non poteva rimanere in Italia a insegnare all'università?". "Accogliente come domanda", ha commentato Saviano, prima di spiegare che "volevo vivere una vita meno sotto pressione", che "qui è tutto diverso", e a lui "andava di capire, sperimentare, osservare". In conclusione: "Da New York vorrei una vita normale". Volere una vita normale per una persona che vive sotto scorta equivale a desiderare qualcosa di straordinario, aria fresca che spazzi via l'odore di chiuso. E New York immancabilmente ha risposto ai desiderata, ha conferito all'uomo normalità e allo scrittore una seconda giovinezza anglofona, con tanto di comparsata a Occupy Wall Street per ragionare di oppressori, oppressi e mafiosi.

Già Marco Travaglio aveva provato per un momento il brivido della legittimazione newyorchese alla scuola di giornalismo della Columbia, dove Alexander Stille è un ponte gettato verso la cultura italiana, ma quella in compagnia di Piercamillo Davigo e altra umanità manettara non era che una trasvolata episodica, compiuta più che altro per compiacere i rifugiati politici che hanno ripiegato a New York per sfuggire al berlusconismo. Quella figura dello spirito newyorchese è finita, e dopo vent'anni a parlare male del Cav. da un oceano di distanza si cercano antidoti alle solite cose, tanto più che il premier che è venuto dopo si porta troppo bene negli ambienti internazionali per diventare il centro di gravità di qualche ossessione antagonista e salottiera.

Travaglio ha comunque lasciato a presidiare la fortezza Beatrice Borromeo, che è a suo modo un'artista, dunque come tale affetta dalla sindrome del confine-che-mi-stringe-la-gola-e-non-mi-fa-esprimere. Dopo un periodo intenso di studio e una brillante graduation con toga azzurra e smalto rosso è tornata alla redazione del Fatto più rigenerata che mai. Ma l'ideale rimane quello del "vivo fra New York e Milano", "vado ogni tanto nel fine settimana", detto con la noncuranza di chi può prendere l'aereo senza nemmeno il bagaglio a mano, ché di là dalla pozzanghera atlantica è casa, non c'è bisogno di nulla.

Come Lapo Elkann, che certo non gode più dell'appartamento al 770 di Park Avenue, uno dei palazzi più inimmaginabili di New York, venduto anni fa dalla famiglia Agnelli con tanto di mobilio milionario messo all'asta, ma può pur sempre presentarsi con pantaloni skinny, giacca turchese e sigaretta in bocca per un lunch al Bar Pitti e sentirsi anche lui vivo e in movimento come un globulo nell'arteria. Naturalmente questa ricerca di Lebensraum culturale non è un affare soltanto italiano, è pulsione universale.

Qualche settimana fa i fotografi dei tabloid newyorchesi hanno beccato Pippa Middleton che passeggiava per Madison Avenue a seguito di un'agente immobiliare. Pippa cerca casa a New York, per associarsi alla colonia britannica che si è trasferita nell'antica colonia per sancire una paradossale fuga dalla madrepatria. E' stata agli Hamptons, agli Us Open, ha frequentato varie feste chic, ha fatto cose di respiro newyorchese che l'hanno sollevata dalla grettezza di Londra, luogo per lei mortifero dove le sue potenzialità si esprimono a singhiozzo, le sue ali sono tarpate e tutto il reame non fa altro che parlare delle tette di sua sorella.

 

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