ITALIANI, BRAVA (TAN)GENTE - FACCI SI SCATENA CON IL LIBRO DI MARCO DAMILANO: “MANI PULITE HA QUASI VENT’ANNI E VA IN STAMPA IL REVISIONISMO” - E PUNTA TUTTO SULLE RIVELAZIONI DI DE BENEDETTI: “CON LA OLIVETTI HO PAGATO MILIARDI A POSTE ITALIANE PER NON USCIRE DAL MERCATO” - MA RECITÒ LA PARTE DEL CONCUSSO CON I GIUDICI E NE USCÌ CON LE MANI PULITE - NEL LIBRO DI FERRERO: “IL PCI RICEVEVA TANGENTI SUGLI APPALTI DALLE MANI DEL SEGRETARIO AMMINISTRATIVO DELLA DC” - MA IL POOL DI MILANO SALVÒ I COMPAGNI…

Filippo Facci per "Libero"

Mani pulite ha quasi vent'anni e va in stampa il revisionismo. E se per confutare un libro servirebbe un altro libro, figurarsi se i libri sono due. Il primo è Eutanasia di un potere di Marco Damilano (Laterza) e l'altro è Alla fine della fiera di Federico Ferrero (Add editore). Tomi anche interessanti.

Si comincia per esempio a leggere il libro di Damilano (uscito ieri) e per un po' si dice: accidenti, è tutto vero. Leggi per esempio la testimonianza di Carlo De Benedetti: «Nel 1976 arriva Bettino Craxi. Di lui si può dire quello che si vuole... Ma è stato un personaggio che ha marcato la storia italiana. Il suo primo obiettivo è stato distruggere (...) l'asse Dc-Pci... capì che senza i soldi non si fa politica».

Tutto vero. Continua De Benedetti: «Cominciò a reclamare risorse in modo palese, spiegando che gli industriali, per evitare il ricongiungimento cattocomunista, avevano l'obbligo di finanziare l'unico politico che lo poteva impedire». Tutto vero. «Era difficile dargli torto nell'esigenza di modernizzazione». Sempre più vero. «Craxi mi diceva, con il suo modo spiccio di fare, "lei di politica non capisce un cazzo"».

Sacrosanto. E poi su Mani Pulite: «In quella operazione certamente il Pci è stato protetto, perché sia Borrelli che D'Ambrosio volevano distruggere un sistema di potere, non tutti i partiti». Accidenti, ma è proprio tutto vero.

Oddio, alcune sono solo opinioni. De Benedetti - che è anche l'editore di Marco Damilano, giornalista de L'Espresso - racconta a modo suo anche la battaglia di Segrate per la conquista della Mondadori: «A Berlusconi della Mondadori non interessava niente, il suo compito era conquistare Repubblica, era lo scalpo da portare a Craxi». E tutto può essere. «Però Berlusconi aveva già cominciato a maturare l'idea che il sistema fosse alla fine.

Ricordo una colazione con lui a casa mia. "Sai", mi disse, "se volessi farei il culo a Craxi domani mattina, perché io ho molto più potere di lui, con il Milan, le mie televisioni, lo fac- cio fuori in cinque minuti", ma aveva bisogno della legge Mammì». Come detto, tutto può essere: persino che Berlusconi - noto intortatore - a De Benedetti abbia sparato delle cazzate. Sul fatto che poi Berlusconi credesse a quello che raccontava - poter far fuori Craxi «in cinque minuti» perché aveva «il Milan e le televisioni» - magari è lecito qualche dubbio, diciamo così.

Altre opinioni di De Benedetti sconfinano però nell'omissione. A un certo punto racconta: «Nel maggio 1993 concordai con il pool tramite l'avvocato De Luca che mi sarei presentato spontaneamente e che mi sarei assunto tutte le responsabilità, indicando un elenco di 4-5 operazioni in cui la Olivetti aveva elargito soldi e a chi. Nessun capo di azienda si comportò come me». C'è del vero, ma nel senso che a nessun capo di azienda - a parte Cesare Romiti - fu permesso un comportamento analogo.

De Benedetti si presentò effettivamente ai magistrati (16 maggio 1993, una domenica) con un memoriale lunghissimo: spiegò che la sua Olivetti era stata sistematicamente concussa dalle Poste italiane e che aveva dovuto sborsare miliardi per non uscire dal mercato. La postura del «concusso» gli permise, come non capitò ad altri, di non transitare dalla galera, e una successiva e imbarazzata intervista rilasciata a Giampaolo Pansa sull'Espresso («Ingegnere, siamo incazzati, ma tanto...») fece sganasciare giornalisti che non ridevano da anni.

«Spero», disse tra l'altro De Benedetti, «che si distingua». E i magistrati distinsero. «Alla fine», spiegò l'Ingegnere in quel 1993, «nascerà un paese nuovo e le persone meritevoli avranno il loro spazio». Non poteva immaginare che stava profetizzando il destino di Silvio Berlusconi. Ma a parte questo, De Benedetti nel libro di Damilano cerca di trasformare un favoritismo in un comportamento virtuoso.

Il paragone più eclatante rimane quello con Raul Gradini, che nello stesso periodo pensò di potersela cavare come aveva fatto De Benedetti ma anche Cesare Romiti: con un memoriale decoroso al momento giusto. Poi, però, venne a sapere che il Pool aveva chiesto un primo mandato d'arresto contro di lui, dapprima respinto; il successivo 16 luglio, quando il mandato di cattura fu riproposto e gli rimase appeso sopra la testa come una spada di Damocle, Gardini predispose ben più di un memoriale: si dichiarò disponibile a parlare di tutta la vicenda Enimont (soldi ai partiti, contabilità parallela, paradisi fiscali) e chiese un interrogatorio spontaneo mandando in avanscoperta ancora Dario De Luca, stesso avvocato che aveva portato bene a De Benedetti.

Ma andò male. Il segnale fu preciso: non volevano interrogarlo, volevano arrestarlo, o meglio, volevano interrogarlo da galeotto. Come finì è noto. Gardini di primo mattino lesse proprio Repubblica (che riportava alcune anticipazioni che lo riguardavano) e si uccise. Del libro di Damilano ci sarebbe molto altro da dire (magari lo faremo) ma ora tocca soffermarsi sul racconto che Primo Greganti fa nell'altro libro, quello di Federico Ferrero.

L'ex funzionario comunista dice: «È passata la storia che io sarei stato zitto per proteggere il Pci... ma non è vero, non mi sono mai rifiutato di rispondere ad alcun interrogatorio». Greganti, in altre occasioni, era riuscito persino a dire che il Pds era uscito da Tangentopoli con due o tre condannati al massimo: fingendo di non sapere che in tutto lo Stivale gli inquisiti-arrestati-condannati del Partito sono stati centinaia, e tra questi lui. A Milano - tanto per capire quanto il Pci fosse estraneo al sistema - il Partito riceveva le tangenti sugli appalti direttamente dalle mani del segretario amministrativo: ma della Dc.

Greganti ha ragione: parlava. Il problema è che parlava d'altro. Per capirci qualcosa, però, tocca leggere le sentenze. In quella del processo Enel, per esempio, si citano «contribuzioni sistematiche dagli imprenditori al pari degli altri partiti» e si spiega che «Greganti è il fiduciario del Pci pronto a mettere a disposizione i propri conti per le esigenze lecite e illecite del partito... Le somme non sono state incassate da Greganti per prestazioni personali, bensì vanno collegate a un'intermediazione fiduciaria posta in essere da quest'ultimo a vantaggio del Pci».

Nel filone Pci-Pds sull'Alta velocità, invece, il costruttore Bruno Binasco (Itinera, autostrade) raccontò di 400 milioni dati a Greganti per il Pds e citò una riunione del 1989 convocata in via delle Botteghe Oscure. C'erano i massimi costruttori italiani. Si era alla vigilia del varo di grandi opere, tra le quali nuovi tratti autostradali e appunto l'Alta Velocità ferroviaria: e il Pds aveva aderito senza riserve.

Il costruttore Marcellino Gavio confermerà che Greganti incassò denaro per tener buono il partito, e il compagno G. addusse a giustificazione una complicata operazione immobiliare poi smontata dai giudici. Greganti e Binasco sono stati condannati per finanziamento illecito al Pds (rispettivamente a 5 mesi e a 1 anno e 2 mesi) e dalla sentenza si apprende che «era la volontà non del Greganti, ma del Pds, e che tale richiesta egli faceva espressamente in nome e per conto del tesoriere nazionale». Poi ci sarebbe da raccontare del processo Eumit (Greganti prescritto per vari reati) ma qui rischia di farsi lunga. Come un libro. Anzi, due.

 

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