
QUANTO TI AMELIO (ANCHE COL PARRUCCHINO) - “CON I SUOI BALLERINI ALBANESI, HA FATTO MOLTO PIÙ MARIA DE FILIPPI CONTRO IL RAZZISMO CHE NON TUTTI I POLITICI” - ‘’I RICCHI HANNO PIÙ RESPONSABILITÀ DEI POVERI. I POVERI NE HANNO UNA SOLA: QUELLA DI UCCIDERE’’
Malcom Pagani e Fabrizio Corallo per Il Fatto
IL BOOM DE SICA - SORDI download
Compiva sedici anni quel giorno la sua mamma: “I miei genitori mi hanno concepito da adolescenti e sono morti molto giovani. Ormai con l’età li ho superati da un pezzo. Sento di aver usurpato qualcosa”. Del passato, Gianni Amelio ricorda i luoghi: “Il Teatro Politeama di Catanzaro, un gioiello architettonico che come ogni cosa bella da quelle parti, invece di essere restaurata venne abbattuta”, le date e i titoli dei film fondamentali visti da ragazzo:
“Il boom di De Sica con Alberto Sordi era del ‘63. Lui interpreta un imprenditore che a un passo dal fallimento medita di vendersi un occhio per mantenere l’altissimo tenore di vita di sua moglie, Gianna Maria Canale. Al Politeama ridiamo moltissimo fino a quando Sordi, disperato, non le propone di andare ad abitare a Catanzaro dove la vita costa meno. Lei inorridisce. Fa una smorfia di disgusto. Si rifiuta. Nel cinema cala il gelo. In silenzio, senza che nessuno si dica nulla, ci chiediamo se in fondo non abbia ragione. Se chi ha scritto il film, Zavattini, non conosca a fondo la nostra realtà”.
In Calabria, con natali scolpiti nell’inverno del ’45 a San Pietro Magisano, Gianni Amelio ha vissuto le stagioni della formazione. Prima di vincere il Leone d’oro a Venezia ed essere candidato all’Oscar, si fermava sotto altre statuette, quelle votive del paese, ad ascoltare i vecchi: “Raccontavano romanze, vicende tra il vissuto e l’inventato. Io ero ignorantissimo, ma onnivoro di leggende scritte e tramandate.
I cineromanzi che passavano di contrabbando a casa, per me non valevano meno di un libro della Bur. La Rizzoli li faceva pagare 100 lire, ma se il volume era doppio l’investimento equivaleva a un biglietto di prima visione. Il gusto mi diceva ‘vai al cinema e fregatene di Dostoevskij’, il cervello ‘compra Delitto e castigo’. Cosa fare?”. Tra dubbi e passioni, Amelio ha messo insieme più di 30 film e il prossimo, un documentario: “Passerò agosto alla moviola”, parlerà di ricordi: “Si intitolerà Registro di classe e sarà una storia della scuola elementare italiana dall’800 ad oggi”.
Perché un film sulla scuola?
Perché in ogni famiglia c’è un tornante ed esiste qualcuno che decide se devi studiare, leggere, zappare la terra o prendere un diploma. A casa mia di laurea non si parlava. Volevano mandarmi alle magistrali, le scuole delle donne per antonomasia. Mi ribellai e mi iscrissi al Classico di nascosto. Mi muovevo curioso. Vedermi leggere, in un’epoca in cui a stento si apriva il sillabario, era già una conquista sociale. Un salto di classe. Io chiedevo consigli di lettura a Mughini.
A Giampiero Mughini?
Eravamo a Catania, sul corso principale. Mughini era sconvolto dalla mia ignoranza e che avessi letto i Karamazov a 14 anni non lo commuoveva. Capì che era inutile scavare e che più in là del cinema non andavo. Tentai di parlare di Faulkner e intuii la desolazione. Lui fu comunque generoso. Tornò a casa e stilò una lista di libri da leggere. Una lista scritta a mano, di suo pugno, con elenchi infiniti di libri imprescindibili. Non so, da qualche parte forse ce l’ho ancora.
Perché Mughini era disgustato da Faulkner?
Perché Faulkner, l’immenso Faulkner, non faceva parte delle letture giuste e delle mode dell’epoca. Senza Adorno e i tomi di saggistica, nel ’61, eri fuori dall’orizzonte suggerito dagli intellettuali. Pulsava il desiderio illuminista di sapere le cose senza basarsi sulla narrativa.
Lei ha fatto un’altra scelta.
Ho vissuto a lungo nell’Italia meridionale, in una condizione di disagio più pratico che esistenziale. In famiglia erano emigrati tutti e non c’era una lira. Un giorno passando davanti a un’edicola, vidi Jeanne Moreau sulla copertina di Cinema Nuovo che la omaggiava come protagonista di Ascensore per il patibolo. Chiesi a mio padre di comprarmi la rivista e lui mi disse che con i soldi non si acquistava la carta, ma il cibo. Mio padre aveva ragione e io avrei dovuto capirlo, ma in quel momento il no fu doloroso. “Mia madre -pensavo- non l’avrebbe mai detto”. Quando minacciai di vendere la mia collezione di Cinema Nuovo perché volevo sostenere gli esami universitari a Messina, mi diede uno schiaffo: “Non ti devi mai separare dalle cose che ami”. Aveva la terza elementare e in vita sua aveva letto solo Cronaca familiare di Pratolini: “Sono tutti così belli i libri?” diceva.
Suo padre era partito per l’Argentina e lì era rimasto per 15 anni.
La storia di mio padre non è cominciata con mio padre esattamente come la mia storia non è iniziata con me. Mio nonno aveva già lasciato l’Italia per l’Argentina nel 1930. Mio padre nel ’47 non fece altro che seguire la sua strada. Era una catena.
La ragione era economica?
I soldi erano secondari. L’urgenza era ricongiungersi alla famiglia, capire come mai un genitore fosse partito per l’altra parte del mondo interrompendo ogni comunicazione senza dare più notizia di sé alla moglie e ai figli. Mio padre partì per questa ragione e non scrisse mai la “lettera di richiamo” ai parenti rimasti in Italia. Il padre di suo padre, suo nonno, la famiglia se l’era addirittura rifatta in Sudamerica. L’ho anche incontrata, la mia seconda nonna. Quando mi vide, in un riflesso ancestrale di paura legata alla vendetta, fece istintivamente un salto indietro. Somigliava ad Anna Magnani ne La Rosa tatuata. Pensava fossi arrivato per fare giustizia, per chiudere i conti, per restituire onore a chi era stato abbandonato.
È stato difficile vivere in Meridione?
È stato difficile affrancarsi da un’ipocrisia diffusa. Non è che nella società meridionale dominino gli ipocriti, a sud si crede veramente in alcuni valori. Il problema è che quei valori sono sbagliati.
Quali valori?
Quelli che portano a preferire la tradizione affettiva, il familismo amorale e i legami di sangue alla realtà delle cose. Come raccontavo in Così ridevano disegnando un’atroce rapporto tra fratelli in cui uno dei due sacrifica l’altro, il danno non si verifica quando fatichi a capire dove si nasconde il marcio, ma nasce e si espande quando ti illudi di fare cose buone e in verità stai diventando un fuorilegge. Meglio esserlo per vocazione che esserlo malgrado te ingannando gli altri e te stesso.
GIANNI AMELIO E ANTONIO ALBANESE jpeg
Si sentiva ingannato anche da suo padre?
Pensavo: “Non manda soldi, sta in Argentina, non ci fa l’atto di richiamo, starà forse male? E se sta male, perché non torna?” Un giorno del ’59 finalmente tornò. 72 ore dopo era già in fabbrica. L’Italia era cambiata, Svizzera e Germania aprivano le porte, per lavorare non bisognava più attraversare l’Oceano e si poteva rientrare a Sud durante le vacanze estive. La storia di un padre che lascia la famiglia e di un figlio che rimasto solo parte all’avventura per cercarlo l’ho anche scritta. Si chiamava Amado mio e si arenò nei cassetti di Cecchi Gori. In qualche vecchio listino il film era anche annunciato.
È una grande storia.
Non me lo dite. All’epoca feci anche i sopralluoghi. Vorrei ancora girarlo. Immagino questo ragazzino a cui hanno raccontato per anni che il padre guadagna bene, fa l’elettricista e conduce un’esistenza meravigliosa, raggiungerlo e scoprire la miseria. La attraversano insieme, come due complici della stessa età in lotta per la sopravvivenza. Io e il mio vero padre non avevamo molti anni a distanziarci, ma un rapporto profondamente diverso. Sperare di riprendere un legame che si è interrotto bruscamente nella prima infanzia è un’illusione totale. Non lo acchiappi più. Non ce la fai.
Con il cinema lei ha iniziato presto.
Ho lavorato molto fin dal principio. Ho fatto l’aiuto regista per 5 anni e per altri 5 ho girato per la televisione cose di cui non è che mi vergogni completamente. La fine del gioco, il primo film che ho fatto, è bello. E non disconosco neanche lo spot delle Smarties o i ritratti sportivi che facevo per Sprint. Nel ’67 mi occupai del Catanzaro calcio. In una provincia che contava 35.000 emigrati, i calciatori venivano tutti dal nord. Lo intitolai Undici immigrati.
Quanto hanno contato Sciascia e Volontè conosciuti in occasione di Porte aperte?
Devo essere sincero? Non più del servizio per Sprint sul Catanzaro. La verità è che nessuno di noi riesce a capire il momento in cui si sente davvero realizzato. Non c’è il tempo. E per quanto mi riguarda, neanche la smania di fare classifiche retrospettive. Mi sono goduto la mia vita da cineasta e me la godo ancora.
Non è orgoglioso neanche di Colpire al cuore, il miglior film italiano di sempre sul terrorismo?
Affrontare il terrorismo in tempo reale mi diede un’inquietudine pazzesca. Capitava di mettere in scena un attentato finto quando il giorno prima, nella strada accanto, se ne era verificato uno vero. Mi chiedevo se stessi raccontando con la necessaria lucidità.
Colpire al cuore è il suo primo film per il cinema.
C’è stata una crescita. Tra il primo film e Porte aperte, mi era fatto i muscoli. Il capo macchinista mi diceva fiero: “Ahò, sei cambiato, me pari Monicelli”. Oggi tra un film e l’altro insegno ai giovani del Centro Sperimentale. Con i ragazzi ho un bel rapporto, senza retorica. Non mi sento Dracula e non succhio loro il sangue. C’è dialettica. A volte i giovani ti fanno incazzare: se nomini Douglas Sirk si fa il vuoto attorno.
Lei però continua a insegnare.
Anche a bocciare se serve. Il Centro è stato un pezzo importante della mia vita. Ora compie 80 anni e a Venezia alcuni allievi a cui io e il montatore Roberto Perpignani abbiamo dato una mano, presenteranno un film sulla sua storia.
Eravamo alla bocciatura.
Per uno specifico esame avevamo assegnato un tema su Miracolo a Milano. Un ragazzo finisce prima degli altri. Mi consegna un compito perfetto, così fitto di riferimenti bibliografici, che senza vocabolario e computer, non poteva che aver copiato per forza. Mi segno il nome e lo aspetto al varco. Il giorno dell’orale gli domando il nome dello sceneggiatore del film. Passa un minuto, ne passano due ed esasperato inizio a sillabare: “Za-vat-ti-ni”. Lui si toglie da sotto il culo La Repubblica e mi fa: “Ma poteva dirmelo, io compro il giornale solo per le sue vignette”. Lo aveva confuso con Forattini.
Non lo ha perdonato?
L’ho cacciato in quel preciso istante: “La porta che ti è servita per entrare, adesso ti serve anche per uscire”. L’indulgenza sulla cultura cinematografica la puoi avere solo verso una ragazza di 16 anni che si presenta per fare l’attrice. Se ti arriva di fronte Lucia Bosè, ti dici ‘lo schermo si innamorerà di lei’ e chiudi entrambi gli occhi. Per il resto l’indulgenza è indizio di complicità. E io decido di esser complice soltanto di chi mi diverte.
Matteo Renzi da Maria De Filippi ad Amici
A Venezia, nel 2013, l’accoglienza al suo L’intrepido la divertì pochissimo.
Quanto mi avete fatto incazzare. Del film non avete capito una beata minchia e ho provato per la categoria giornalistica una profonda pena. Detto questo, mi avete allungato la vita. Voglio mettermi qui e aspettare con tigna il pentimento generale.
Non abbiamo capito il film?
È uno dei film più intelligenti, forti e dolorosi degli ultimi 10 anni, ma nemmeno chi lo ha amato lo ha capito davvero. Come cazzo vi è venuto in mente di farmi le pulci come se avessi girato Ladri di biciclette? Ma scherziamo? L’avete preso come un film realistico quando dalla seconda scena, imitando in tutto e per tutto un’inquadratura di Chaplin, vi avevo indicato la chiave. L’Intrepido è un atto di dolore sul presente fatto da uno che dice ‘non voglio piangere’. E se non vuoi piangere allora devi fare il buffone. Come l’omino, come Charlot. Un essere che vive tra il cielo e la terra, tra la fantasia e la realtà.
Sullo sfondo passano ricchi e poveri.
Maria De Filippi piange a Italias Got Talent
Come nella vita. Non ho mai pensato che per affrontarla bisognasse possedere una cultura bibliografica, perché l’unica cultura che conti davvero è quella che ti fa interagire con ciò che mangi, con la fame che hai, con chi ami, con chi odi, con i bisogni. Partono sempre da quelli elementari sia i ricchi che i poveri. I ricchi non mi sono simpatici, ma non ho mai demonizzato la ricchezza. Penso soltanto che dovrebbe essere patrimonio di chi la merita. Avere dei soldi in tasca è una cosa talmente importante che farne l’uso giusto è il minimo che si possa chiedere ai ricchi. Hanno più responsabilità dei poveri. I poveri ne hanno una sola: quella di uccidere.
A Natalia Aspesi, l’anno scorso, ha rivelato di essere omosessuale.
Come ai tempi de Lamerica mi definii albanese. Perché dovevo dire di non essere gay? In nome di quale privilegio? I miei amici lo hanno sempre saputo. La Aspesi mi chiedeva di Felice chi è diverso un mio film non sull’omosessualità di oggi, ma su quella assai più osteggiata dei froci di ieri. Non a caso il mio film non è piaciuto ai gay, ma è stato molto apprezzato dai froci che avevano vissuto la loro scelta in anni cupi. Non ci fu nessun coraggio comunque da parte mia. Il coraggio è dire “ho truffato, ho ingannato, sono un mafioso, accetto le mazzette”. Questo è vero coming-out. Già che ci sono ne faccio un altro: “Io sono eterosessuale”. Non ho mai disdegnato i rapporti con le donne. Spero non ci facciate un titolo però.
Tra un anticonformismo e l’altro ha elogiato anche Maria De Filippi.
Ha fatto molto più lei contro il razzismo che non tutti i capi di Stato presenti ai summit antirazzisti di questi anni. Con i suoi ballerini albanesi, ha liberato un paese intero dagli stereotipi e ha fatto la storia. Non so se ve lo ricordate, ma qualche anno fa, nell’immaginario collettivo, albanese faceva rima con assassino. Io ho adottato un ragazzo albanese. Non dovrei essere grato a quella signora lì?