IL RAP SI E’ IMBORGHESITO E NON LOTTA PIU’ CON NOI: DALLE PALLOTTOLE ALLO SHOBIZ - GLI “ACAB” COL MICROFONO ORA SONO STUDIATI A YALE

Piero Melati per "il Venerdì di Repubblica"

A metà degli anni 90 i Public Enemy sbarcarono a Napoli. Dall'89 non erano più un fenomeno di nicchia, grazie alla colonna sonora del film di Spike Lee, Fa' la cosa giusta. Il gruppo fece un giro in città. Poi l'ala militare della posse, rigorosamente in mimetica, circondò come un esercito occupante il palco del concerto, montato nella Villa Comunale. Gli agenti di polizia non credettero ai loro occhi. Chuck D, leader del gruppo, noto per il taglio politico dei suoi testi (aveva fatto del rap la Cnn dei ghetti) firmò un po' di autografi. Poi entrò in scena Flavor Flav.

La sua security lo seguiva a vista, con un misto di affetto e apprensione. Flavor era il giullare del gruppo. Occhialoni colorati e sveglia al collo, sul palco evocava l'immagine che i bianchi hanno dei nigger: il «bovero negro» con una sveglia penzoloni sul petto. Tutto secondo copione. Salvo un particolare. Flavor Flav aveva le braccia ingessate. Si è fratturato in un incidente di moto, spiegò Chuck D. Ma nessuno gli credette. Rientrato negli Usa, Flavor Flav fu coinvolto in un conflitto a fuoco e arrestato. L'anima politica del rap era in declino.

Alzava il tono, invece, il lato oscuro della forza hip hop: il gangsta. C'è una scena madre dell'universo rap, utile a capire anche cosa sia il gangsta. La racconta Alban Lefranc in Il ring invisibile (66thand2nd editore), bio-fiction sulla vita di Cassius Clay. Il 28 agosto del ‘55 Emmet Till, un quattordicenne nero, viene massacrato nel Mississippi. Ha osato guardare una donna bianca.

All'epoca Cassius Clay ha 13 anni e, ascoltando il racconto dal padre, giura a se stesso che mai permetterà a nessuno di toccarlo in faccia. Il futuro campione di boxe, da quel giorno, si costruisce intorno un ring immaginario, per sfidare l'America del white power.

Il rap nasce da questa «attitudine», e Cassius Clay ne sarà la prima icona. Qui, volgendo lo sguardo fin dentro La capanna dello zio Tom (bestseller del XIX secolo di Harriet Stowe) il nuovo genere trova le radici. E sempre seguendo questa «attitudine », incapperà nelle polemiche che ne hanno accompagnato i quarant'anni di esistenza. Specie quando, tra la fine degli Ottanta e l'inizio dei Novanta, il morbo si propagherà dagli Stati Uniti alle banlieu parigine, alle periferie londinesi, alle borgate italiane, colorando simbolicamente di nero la pelle dei giovani disadattati del pianeta.

A questo punto, nel pantheon rap entra una seconda icona, ben più scomoda di Muhammad Alì. Si tratta di Scarface, il protagonista del remake di un film del ‘32 di Howard Hawks, scritto da Oliver Stone e diretto da Brian De Palma, dove Al Pacino interpreta il trafficante di droga Tony Montana. Una storia di bianchi. Ma che diventerà oggetto di culto per i neri, almeno fino alle nove pallottole che, nel Duemila, colpiscono senza ucciderlo un ex pusher che si farà chiamare 50 Cent, ultimo della covata, lanciandolo verso i suoi 50 milioni di dischi venduti.

Il rap diventa un'avventura americana che sposa pallottole e showbiz. Narra una guerra civile mai dichiarata nel cuore delle metropoli. Dalla quale puoi uscire cadavere o star. Oggi un uomo che viene da questa trincea ha deciso di fare il punto: Art of Rap (Feltrinelli Real Cinema) è un film fabbricato con interviste «non convenzionali» a tutti i protagonisti. Da un capo all'altro degli States, sfilano Dr.Dre, Snoop Dogg, Eminem, Ice Cube, Public Enemy, Common, Mos Def, Run Dmc, Cypriss Hill. Un documento arricchito da un libro, Il rap spiegato ai bianchi, di Mark Costello e David Foster Wallace.

L'inchiesta, condotta dal grande scrittore americano impiccatosi nel 2008, fu il primo tentativo di interpretazione del fenomeno. Oggi il rap è entrato in accademia. Accettato da quando, ricorda l'esperto Marco Denti, «la pubblicazione nel 2010 della Anthology of Rap da parte della Yale University, una delle più prestigiose case editrici universitarie, ne ha sancito la consacrazione».

Un capitolo a parte merita l'intervistatore. Si tratta di Ice-T, uno dei padri old school. Rapper, attore, produttore, è l'autore del brano Cop Killer (uccidi il poliziotto). Il testo è stato il più citato dai promotori delle campagne per la censura dell'hip hop in Usa. Ice-T, nell'intro del film, spiega che l'hip hop non ha inventato nulla. Ha cucinato soul e funk, rilanciando James Brown, Sly and Family Stone, Marvin Gaye, Steve Wonder, Funkadelic. Ma, si chiede, bisogna interrogarsi sul perché non goda buona fama, almeno quanto il blues o il jazz.

E si risponde: «I musicisti blues o jazz collaborano tra loro, parlano bene l'uno dell'altro. Chick Corea non dice: quel negro fa schifo, mi deve ciucciare il cazzo. Ecco perché li rispettano tutti». Nel rap, invece, si spara. Tupac Shakur. Notorius Big. Nati a New York. Uccisi dall'altra parte del Paese: Tupac nel ‘96 a Las Vegas, Bigga l'anno dopo - a West Hollywood. Erano i numeri uno. Perché cade il rap di New York? Spiega il rapper Mos Def: «L'hip hop è nato a New York, come il blues nel Delta del Mississippi e il jazz a New Orleans. Poi il rap è cambiato per le migrazioni. Ma il luogo di nascita ha senso, determina qualcosa».

Notiorius, quando venne ucciso, era con Sean Combs, detto Paff Diddy, produttore e storico fidanzato di Jennifer Lopez. Afferma Chuck D: «C'è un lato B del gioco, che solo i criminali conoscono. Nessuno ne vuole parlare, ma c'è un lato B». Per Krs-One, in realtà, quel «lato B» (l'aspetto più criminale della storia) sarebbe stato mitigato proprio dalla cultura hip hop. I duelli tra rapper, le cosiddette battle (narrate nel film di Eminem, 8 Miles), hanno sostituito le guerre tra gang.

Spiega il rapper: «I duelli vengono dalla antica tradizione della "dozzina". Se uno schiavo era menomato, mancava di un braccio o di una gamba, non veniva venduto isolato, ma in una "dozzina". E lì dentro uno sfidava l'altro: tua madre è brutta, ha il collo più grande della gamba. I duelli nel rap sono stati influenzati da quelle sfide. Poi Zulu Nation, l'organizzazione fondata nel ‘73 da Afrika Bambaataa, spiegò ai neri che anziché spararsi o picchiarsi ci si poteva sfidare con l'arte. Con un innocuo duello a colpi di rime, dove vince il migliore».

Infine arriva Obama. Il rap volta pagina. Le pistole vanno in soffitta, e con loro il cosiddetto bling bling (fenomeno che prevede l'ostentazione di gioielli, catenoni griffati e maxi-Rolex d'oro). Il mafia-style dei rapper diventa più sobrio. Ma resta immutata l'ansia di scalare lo star system. Senza ammettere questa propensione, scrive Foster Wallace, non si capirebbe nulla del fenomeno. Conclude Ice-T: «Il rap non è un gioco, è l'arte del rap. Significa due cose: far conoscere le strade oppure combattere. Il microfono è l'arma e il calibro è il flow». Il flow.

È il segreto meglio custodito dell'hip hop. Significa flusso, trance agonistica. Ma non basta. Il suo soffio vitale, dal palco, può creare dal nulla nuovi brand alla moda, linee di profumi, design e fiction tv, tutti legati al nome del rapper di turno. Se hai flow, sei il re. E verrai citato da Parag Khanna, uno dei consiglieri di Obama, come è accaduto all'imprenditore del rap Jay-Z, il marito di Beyoncé Knowles.

Parlando dei nuovi scenari che prepara il mondo tecnologizzato, Khanna riporta una frase di Jay-Z: «Io non sono un uomo del businnes, io sono il businnes, uomo». Lo slang è lo stesso delle parolacce rap. Ma il messaggio ha cambiato casa. Ieri le strade. Oggi le stelle.

 

THE ART OF RAP DI ICE T SNOOP DOGG SNOOP DOGG E ICE T NOTORIOUS BIG E PUFF DADDY NOTORIOUS BIG E PUFF DADDY ICE T E COCO Flavor flav Flavor Flav FIFTY CENT EMINEM E ICE T Coco and Ice T at LAVO Art of Rap

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