RAY OF LIGHT - MASSIMO COTTO MEMORIES DAL 1990, QUANDO RAY CHARLES E B.B. KING SUONARONO INSIEME ALL’OLIMPICO. INSIEME SI FA PER DIRE, VISTO CHE NON SI INCONTRARONO PRATICAMENTE MAI – L’INTERVISTA A CHARLES: “LA MUSICA È DENTRO DI ME, È LA MIA ACQUA E IL MIO PANE. SE VUOI SEPARARLA DA ME, DEVI RIMUOVERLA CHIRURGICAMENTE. MI SPIACE NON VEDERE LA BELLEZZA DELLE DONNE, MA POSSO INTUIRLA. OGGI, SE PASSO LE MANI SUL VISO DI UNA DONNA, SO…”
E Ray Charles disse: «Gospel e blues sono le voci di Dio»
Massimo Cotto per “il Messaggero”
Roma, 6 novembre 1990. Concerto al teatro Olimpico. Ray Charles e B.B. King, due leggende. Sulla carta, un evento. In realtà, una piccola delusione. Intanto, perché lo sbandierato concerto a due con il supporto della big band erano in realtà due concerti distinti. Il Genio e il Re non si incontrarono mai, se non per il paso doble del bis.
Ray Charles salì sul palco svogliato e nervoso con i musicisti, mostrando evidenti segni di insofferenza per certe parti a suo dire non suonate come si doveva. Però, ed ecco il colpo da maestro, arrivò Georgia On My Mind, con l' orchestra attentissima e meravigliosa nell' assecondare note, pause e silenzi. Ray smise di imbufalirsi con il mondo e si concentrò sul canto. E fu magia.
Tre minuti che valevano l' intero concerto, come una giocata di Baggio o Maradona valeva il prezzo del biglietto ai tempi in cui il calcio non era solo fisicità, ma anche fantasia. Aspetto l' arrivo di Ray Charles per l' intervista.
Mi viene incontro il manager. Mi dice che è molto nervoso e che l' intervista è in forse. Tutto dipende dalla stretta di mano. Non capisco. Sì, continua il manager. Ray Charles accetta di incontrarmi, ma se non ha belle vibrazioni mentre mi stringe la mano, non se ne fa nulla. Mi faccio ripetere quello che ha detto. Sono certo di non aver capito.
LA PRESA IN GIRO
Mentre il manager va a prendere Ray Charles, mi guardo la mano. E se sudasse improvvisamente? E come dovrà essere la stretta, forte o normale? Ma che storia è questa? Va bene, sia quel che sia. Ray Charles entra, saluta, si siede. Io tendo la mano verso di lui, lui dice semplicemente: Iniziamo. Il manager ride.
Mi ha preso per i fondelli. Lo maledico fino alla settima generazione. L' intervista fu bellissima, perché Ray fu profondo nelle risposte. Gli chiesi in prima battuta di definirmi il soul. «Duke Ellington diceva che la musica è combattimento e che il compito di noi artisti è essere sempre gladiatori. Io penso invece che la musica sia restituzione.
La grande musica è di tutti, io posso solo restituirla dopo averla lucidata e spolverata. Il soul non appartiene a me, è dentro il ventre di Dio e della Grande Madre. Io vado a scovarlo, come un esploratore, e lo porto alla luce, in modo che tutti possano vedere la sua bellezza.
La musica è dentro di me, è la mia acqua e il mio pane. Se vuoi separarla da me, devi rimuoverla chirurgicamente. Il soul è la musica dove non c' è distinzione tra bianco e nero, né tra bianchi e neri. Sono cresciuto in anni in cui il razzismo distruggeva le menti. Davanti a una canzone, il mondo si ricompone».
Mi colpì quell' espressione: rimuovere chirurgicamente.
RAY CHARLES E I BLUES BROTHERS
Gli chiesi che cosa avrebbe voluto rimuovere chirurgicamente dalla sua vita. «La povertà dell' infanzia e dell' adolescenza. Ho conosciuto gente che era all' ultimo gradino della scala sociale, ma noi eravamo ancora più sotto. Più in basso di noi, c' era solo la terra. E poi, la morte di mio fratello, che non sono riuscito a salvare, e di mia madre.
Mia madre mi ha insegnato a vivere: a non elemosinare mai, anche quando non avevamo i soldi per mangiare. A non rubare. E a cavarmela da solo. Mi ha fatto capire che il mio handicap non doveva essere un alibi. Ero cieco, ma potevo farcela egualmente, qualsiasi cosa volessi fare nella vita».
Nessun rimpianto per quel che avrebbe potuto vedere. Nessuna autocommiserazione. «La mia vita è comunque luce. A volte è più buia, altre volte è luminosa, dolce e chiara. C' è gente che nasce senza il dono della vista, o che la perde dopo pochi anni, e c' è altra gente che ha gli occhi per vedere ma è cieca comunque. Io sto bene con la mia condanna, ci convivo».
LA FORTUNA
«Mi spiace non vedere la bellezza delle donne, ma posso intuirla. Io ho perso la vista a sette anni, quindi ho fatto in tempo a vedere il mondo.
Oggi, se passo le mani sul viso di una donna o una bella giacca, so riconoscerne la bellezza. Io ricordo il mondo, altri non hanno avuto questa fortuna. Da bambino, mi fermavo a guardare il sole, la luna, i lampi. Sapevo che non facevano bene alla mia vista, ma era più forte di me».
Ray si spingeva in avanti a ogni risposta e poi di nuovo indietro, sempre sorridendo. «Mi chiamano Genio, ma io ho sempre fatto quello che pensavo di saper fare, in modo molto naturale. Ho questa voce, ho questo modo di cantare, ho questa voglia di scrivere canzoni senza preoccuparmi di farle rientrare in una categoria. Non ho mai pensato di cambiare faccia alla musica, solo di portare avanti un suono che mi rappresentasse.
La gente mi chiede perché ho voluto osare e unire il gospel con il blues. Ma io non penso che il blues sia la musica del diavolo, penso che gospel e blues siano entrambe le voci di Dio, solo che una è più celestiale, l' altra più terrena.
Il gospel è un' elegia, un inno, un canto alla bellezza della vita, è la lode del Creato e del Signore; il blues è il canto del dolore, l' altra faccia dell' esistenza. Non sono in contrapposizione. Sono due metà di un intero».
L' ASCOLTO
Ero curioso di sapere la sua dieta musicale. Di che cosa si nutre un uomo che ha sfamato intere generazioni con i suoi piatti. «Torno volentieri a nutrirmi di Duke Ellington, Louis Armstrong, Charlie Parker, Nat King Cole, Stevie Wonder, Sarah Vaughan, Count Basie. Adoro Aretha Franklin, perché la sua voce è unica. Rimpiango i Beatles, per la loro freschezza, mentre i Rolling Stones mi hanno sempre lasciato indifferente.
Amo B.B. King, perché è uno dei pochi che sa far parlare una chitarra con il linguaggio del blues. E ascolto sempre volentieri George Gershwin. Da Frank Sinatra ho imparato la bellezza di farti accompagnare da un' orchestra di trenta musicisti.
Con Quincy Jones mi intendo alla perfezione, senza nemmeno bisogno di parlare. A volte, mi vengono strane idee: vorrei vedere cosa potrebbe nascere tra me e Gloria Gaynor, ad esempio. Non ho paura di sperimentare. L' ho sempre fatto. L' istinto, quello conta. E un pizzico di incoscienza e follia».
E mi raccontò com' era nata What' d I Say. «Era il 1959, non ricordo dove, ma il pubblico era impazzito e continuava a richiamarmi in scena. Io non avevo molte canzoni in repertorio e, alla fine, non sapevo più cosa cantare. Ma il pubblico continuava a reclamarmi, così uscii e cominciai a improvvisare. Intonai le parole What' d I Say e tutti, orchestra e pubblico, mi vennero dietro con un call and response.
Era tutto un uhhh!, ohhh!, ahhh!. Fu un momento straordinario. Sull' onda dell' emozione, da lì a qualche giorno entrammo in studio e registrammo un singolo per la Atlantic che vendette un milione di copie. Un giorno, i Beatles mi spedirono un telegramma dove mi dicevano che, grazie a quella canzone, avevano scoperto la musica nera. Riesce a immaginare qualcosa di più bello?».
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