REALITY SCIO' - INTERVISTA ALL'AUTORE DI "GIOVANI E RICCHI", IL DOCUMENTARIO SUI RICH KIDS OF ITALY DEFINITO "VACCATA" E "TRIONFO DEL VACCHISMO" - "CHI MI ATTACCA E' MOSSO DALL'IDEOLOGIA: PARLARE DEI RICCHI IN ITALIA E' TABU'". SU RAI2 HA FATTO OLTRE IL 10% DI SHARE MA STASERA LA SECONDA PUNTATA NON ANDRA' IN ONDA (GRANDE DALLATANA!)
Elena Martelli per Dagospia
Dopo aver visto “Giovani e Ricchi”, il documentario sui rich kids italiani di Alberto D’Onofrio andato in onda su Rai 2 scatenando una buona dose di furia mediatica ho capito che l’autore era il medesimo di “La sindrome del Golfo”, “Tamarreide”, “Erotika Italian”a e il recente “Party People”, una docuserie su Ibiza e i suoi mondi.
Non era la prima volta che uno dei suoi documentari, andando a toccare tasti controversi come il sesso, i giovani, l’esercito, avevano procurato irritazione, anche eccessiva, nei media. A questo sui giovani e ricchi della nostra penisola - i quali, senza essere famosi, sono a modo loro stelline di Instagram, con tanti follower e tanti like solo grazie all’ostentazione della loro infinita ricchezza - anche “El Mundo” ha dedicato un articolo.
Forse su indicazione di Michele Anzaldi, che ha subito gridato allo scandalo. Il cafonal al cubo in onda sul servizio pubblico: orrore e raccapriccio. Praticamente, “Giovani e Ricchi” è una variazione sul tema dei ragazzi del Bling Ring che volevano essere Paris Hilton. Epifenomeni, i rich kids, delle tante Instagram-star da Kim Kardashian in giù.
alberto d onofriocon bob sinclar
Mi sono incuriosita. Così mi è venuta voglia di conoscere questo Oliviero Toscani del documentario TV. E’ nato a Pescara 58 anni fa, è mite e gentilissimo. In barba ai dibattiti, ogni volta fa centro con gli ascolti: i rich kids hanno fatto il 10 per cento, in seconda serata.
Al contrario dei suoi protagonisti, D’Onofrio nei suoi documentari non si vede mai. Si sente solo la sua voce, piana, fredda, oggettiva. Commenta e fa le interviste un po’ come Moana, nella imitazione di Sabina Guzzanti, ripeteva “Ti Tocchi?!”.
Racconta con lo stesso tono di voce con cui leggerebbe l’elenco del telefono. Le sue immagini sono sempre curatissime, patinate, come un videoclip di moda. «I documentaristi puri mi accusano di essere troppo commerciale. I direttori di rete sono spaventati dal mio linguaggio: troppo alto, troppo da Channel 4».
Lui punta a provocare. Ogni qual volta c’è un argomento controverso, arriva lui. «E’ chiaro che ho puntato su questo. Navigo in questo solco da anni ma ho fatto doc che sono andati al festival di Venezia, oltre che in tv e sempre con ascolti alti. A parte “Tamarreide”».
Il problema è quando i suoi lavori passano sul servizio pubblico. Questa volta le accuse spaziano da Antonio Dipollina «bisognerebbe buttare la cassetta fuori da una delle finestre di viale Mazzini» a «questo documentario è una vaccata» scritto su twitter da Sandro Veronesi.
A me i suoi rich kids non hanno indignato. Mi hanno fatto invece ritrovare certe atmosfere di cui è fatta la ricca provincia del Nord Est d’Italia. Dove i ricchissimi figli d’industriali stanno nella stessa compagnia dove c’è il figlio dell’avvocato e del ragioniere, dell’impiegato e dell’operaio. Questo perché, molto semplicemente, c’è solo un liceo e in quello vanno tutti.
Cosa che non accade, per esempio, a Roma dove le classi sociali sono separate dai quartieri e funzionano come le caste indiane. I super ricchi, oggi come ieri, spendono cifre esorbitanti, in provincia: le ragazze in vestiti, borse e scarpe, perché il vestito è ancora uno status symbol nelle città paciose del Nord. I ragazzi in macchine, che oggi preferiscono chiamare super car. In provincia, la sfilata delle Ferrari un tempo si fermava nelle vie del centro storico. Ora, finisce su Instagram.
A Londra, dove c’è l’unico rich kid del gruppo che si è fatto da sé e ha la fidanzata russa stramiliardaria, si vede cosa è diventata Chelsea. Una succursale di italiani — non solo più di arabi — nelle cui vie una delle attrazione principali è la sfilata bolidi dorati che, anche mio figlio, come altri ha fotografato: perché è un trend di Instagram, scopro. Una volta, tutti questi ricchissimi andavano a finire al massimo sui giornali locali goliardici, oggi c’è Instagram. Il fenomemo è glocal, per usare un termine demodé.
«Penso che abbia spaccato l’opinione pubblica perché riprendo in modo affascinante la loro vita. Volevo restituire lo stesso fascino che loro credono di raccontare quando si fanno i selfie con gli hotel di lusso e le macchine nel background, facendo i fighi. Sono entrato in quelle foto e le ho messe in movimento, come un video di moda. Ma nei dialoghi con loro son stato beffardo e provocatorio. Chi mi ha attaccato è come se non avesse ascoltato le mie domande. Forse sono mossi dall’ideologia: dei ricchi non bisogna parlare in Italia. E’ un tabù».
A me hanno fatto venire in mente i ragazzi di Sofia Coppola di “The Bling Ring”
«Se li attacchi, va tutto bene. Se li racconti così come sono, oddio. Io volevo conoscere questi ragazzi, la loro educazione, le loro famiglie. “Non farò uno spot della vostra vita” dicevo loro. Ho contatto tutte le più grandi famiglie italiane. Quasi tutti hanno detto no. Chi per via delle famiglie chi per via degli amici che si opponevano al film. Io volevo fare uno spaccato della loro vita: volevo filmare tutto. A certi ho detto no io, solo quei quattro hanno detto sì».
Non vedevano l’ora di andare in tv, dopo tutta la fatica fatta per essere delle stelline di Instagram a colpi di erotismo e di ricchezza!
«Io non racconto mai i fenomeni, racconto storie. Come nella “Sindrome del Golfo”. Nel 1996, prima degli americani, parlavo degli effetti nefasti del vaccino dato ai soldati per difenderli dalle armi chimiche e dalle bombe all’uranio impoverito, durante la prima guerra del Golfo nel ’91. Lo girai ma non andò in onda. Poi quando iniziarono a morire i nostri soldati durante la Guerra dei Balcani finalmente Rai3 lo sbloccò. Si era scoperto e lo mostravo che quei vaccini facevano impazzire il sistema immunitario, facendo poi morire il 10,15 per cento del contingente americano nel Golfo. Cento mila soldati morti, uno scandalo pazzesco. Mentana, Curzi, Ricci mi difesero».
rich kid russo con lamborghini
Come riuscì a farlo?
«Avevo intervistato i soldati ammalati grazie alle loro mogli. Due ex agenti dell’FBI in pensione mi avevano aiutato. Per loro facevo controinformazione. Il pentagono continuava a dire che i soldati morivano per malattia non per i vaccini. E poi ho intervistato i medici, un membro della commissione Clinton, volevo far capire il problema».
All’epoca non si era ancora occupato di sessualità, altro filone del suo lavoro.
«Era il periodo in cui facevo i doc investigativi dall’America per il “Mixer” di Minoli. Ma sul sesso ho fatto un sacco di cose, da “Pelle”, un’inchiesta sugli adolescenti e il sesso, a “Viaggio a luci rosse” per Italia1: altra polemica. Perché facevo vedere che le donne non erano schiave degli uomini nel mondo della pornografia, come tutti dicevano. Avevo capito che erano anzi le donne a comandare. Così, feci una serie di ritratti alle più importanti pornostar americane ed europee. Ha fatto il 20 per cento. Giovalli mi difese».
Come ha iniziato a fare documentari?
rich kids nella vasca idromassaggio
«Il primo me lo sono prodotto io in America. Era sui Polyrock, una band storica di New York che faceva rock alternativo e sperimentale. Era il momento della new wave che secondo me ha segnato tutta la musica di oggi. La musica è la mia prima grande passione. Il documentario andò al festival di Salsomaggiore, Salso e Tv Film Festival. Era 1983. Poi ho iniziato a lavorare in tv e le prime regie importanti me le ha fatte fare a Mediaset Giorgio Medail».
La prima polemica?
«Quando feci “Oltre La Notte” per Rai3, 10 puntate sulla vita notturna nel ‘99. C’erano ritratti di travestiti che di giorno erano infermieri, spogliarelliste che di giorno erano mamme impeccabili. Siamo finiti sui giornali. Ma qualcuno c’era sempre a mio favore. Giorgio Gosetti, Enrico Ghezzi, Sandro Curzi. Nichi Vendola disse: “D’Onofrio fa un tipo di tv che la sinistra non ama”».
Ma a lei che importa. Le sue cose in tv vanno bene.
«Il mio modo di raccontare dà fastidio però. Mi accusano di raccontare con fascino il mondo dei ricchi. Ma io quello voglio fare! Voglio fare un documentario come fosse uno spot di un profumo. E poi le dico una cosa: “In tutti i miei film uso persone che accettano di interagire con me. Quando giro sono uno di loro. Ma li avverto sempre: io faccio quello che voglio”».
Non mi hai risposto se quei ragazzi non vedevano l’ora di andare in tv.
«Non credo. Mi piace di più pensare che abbiano avuto voglia di fare un’esperienza con me. Perché io racconto persone, non fenomeni. Casomai, se vogliamo parlare di fenomeno, questo documentario ci dice che siamo nell’era dei ricchi e poveri. La fascia media sta sparendo, cosa risaputa. Non sto scoprendo l’uovo di Colombo. Non faccio sociologia ma ritratti, spaccati della vita reale».
Forse è per questo che l’accusano di superficialità. E di essere diseducativo.
«A me interessa capire se ad esempio questi ragazzi si rendono conto di vivere in un altro pianeta. E poi che vuol dire che la tv deve essere educativa? Non mostrare i fenomeni? I doc si fanno su tutto, anche sui pusher, se si riescono a fare».
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