1- SIMBOLO DELLA PREVALENZA DEL CAFONE O ANTAGONISMO ESTETICO INCISO SUL CORPO? 2- IL CORPO COME OSSESSIONE E COME PERNO DELLA SEDUZIONE O SOLO CATTIVO GUSTO? 3- L’ANTROPOLOGO NIOLA: “I MILIONI DI PERSONE CHE OGGI SI TATUANO CERCANO DI FAR EMERGERE LA LORO STORIA, LA PERSONALITÀ, I GUSTI, GLI AFFETTI. GESTO DI CHIRURGIA PITTORICA. SOCIALIZZAZIONE ESTETICA DEL SÉ. IL CORPO COME UN BLOG ILLUSTRATO “ 4- FRANCESCO MERLO: “QUEST’ANNO LE NOSTRE SPIAGGE SONO SIMILI ALLE ORRENDE PASSERELLE CAFONAL DI DAGOSPIA, MUSI DI GOMMA E SENI DI PLASTICA, GLUTEI ESPLOSIVI ESALTATI DAI PIÙ ASTRUSI E SGUAIATI TATUAGGI DI OGNI GENERE E IN OGNI PARTE DEL CORPO”

1- LA TRIBÙ DEI TATTOO
Marino Niola per "L'Espresso"

Chi non è tatuato non è un uomo. Lo dicevano i caduveo, il popolo più tatuato del mondo insieme ai maori. Questi indios che abitano il Brasile centrale, resi celebri dal grande antropologo Claude Lévi-Strauss, assomigliano alle carte da gioco di "Alice nel paese delle meraviglie".

Autentici arabeschi viventi, sono letteralmente ricoperti di disegni geometrici, labirinti e spirali, quadrettature e asimmetrie. Per loro il corpo diventa umano solo grazie alla decorazione che vi segna a caratteri indelebili l'identità individuale, l'appartenenza sociale, lo status, il genere, il rango. Una persona senza tatuaggi non esiste, è semplice biologia, nuda vita per dirla con parole nostre. Solo i bruti e le bestie si tengono il corpo così com'è. È questa la filosofia tribale.

"I nostri tatuaggi, i nostri anelli al naso o ai capezzoli hanno tante cose da dire: comunichiamo così il nostro desiderio di differenziarci dalla massa". A dirlo è un internauta adepto del piercing. Una forma di antagonismo estetico inciso sul corpo, una differenza rivendicata sulla pelle. Un'autocertificazione che il proprio corpo non è a norma. E non lo è nemmeno l'anima.

E in più è come dire che il corpo, così com'è, non basta. È troppo poco, non significa abbastanza. È questa la filosofia globale. Che a tutta prima non è molto diversa da quella tribale. Entrambe infatti, sia con il tatuaggio sia con il piercing, riportano sul soma il significato più profondo della persona.

L'identità personale, quella della propria collettività, il senso del proprio essere, insomma un'intera storia incisa per sempre sull'epidermide. È proprio l'idea della pelle come pagina da scrivere e superficie da decorare, l'idea di un corpo istoriato, a fare da trait d'union fra il tribale e il globale. Perché nel dilagare contemporaneo del tattoo e delle trafitture più o meno profonde che ci infliggiamo - per etica e per politica, per poetica e per retorica, per estetica e per erotica - riaffiora un orizzonte arcaico.

Ma è un arcaismo postmoderno, un futuro anteriore nel vero senso del termine. Che mescola gli elementi tradizionali di queste pratiche, che servono a riconoscersi, a dichiararsi, a creare identità e differenza, assieme a elementi globali che, all'opposto, sconfinano quei codici particolari e li rendono universali, replicandoli all'infinito, traducendo dei motivi etnici e locali in un alfabeto somatico planetario.

Farfalle posate sulle spalle o stampate sui glutei, draghi spaziali arrampicati sui bicipiti, frasi celebri incise sugli avambracci, pittogrammi che si srotolano lungo la colonna vertebrale, stelle rosse su pugni rivoluzionari, svastiche su nuche reazionarie, aquile che enfatizzano deltoidi possenti, serpi sinuose per caviglie maliziose, mostri cyber e ogni sorta di esseri mutaforme per una body art che fabbrica murales viventi, graffiti a misura d'uomo. Un po' pirati, un po' galeotti, un po' guerrieri maori, un po' capi indiani, un po' ragazzi selvaggi anche a cinquant'anni.

Se il tatuaggio appartiene idealmente al campo della pittura e del disegno, il piercing invece si può considerare una branca dell'incisione e della scultura. Spilloni che trafiggono la lingua, cerchietti che pinzano le sopracciglia, anelli al naso, cilindri che fanno pendere a dismisura i lobi, palline di acciaio che sottolineano il profilo della bocca. Senza dire di quelle forme di piercing intimo che trasformano i luoghi dell'eros in scrigni tempestati di brillantini, eden proibiti per mostrare gioielli indiscreti.

Esibizionismo, vanità, moda? Certo, ma non solo questo. La lunga durata del fenomeno, la sua diffusione universale e il suo prepotente ritorno contemporaneo ci dicono che in tutti i tempi e in tutte le culture gli uomini hanno nel corpo il mezzo di comunicazione primaria. La pelle dice chi siamo.

Quando Cesare invase la Britannia fu impressionato dall'aspetto dei guerrieri locali che si dipingevano completamente di un azzurro indelebile per terrorizzare i nemici. Pare addirittura che il nome britanni derivi da una radice indoeuropea che significa incisione. E gli antichi scozzesi erano chiamati picti, ovvero dipinti, perché si tatuavano il corpo secondo il loro rango e il loro valore. Un po' come avere le stellette e le medaglie impresse direttamente sull'epidermide.

L'idea è che più la persona è importante più informazioni deve archiviare il suo corpo. Quello imponente dei principi maori era letteralmente zippato di segni che illustravano le loro gesta e riassumevano le tappe di una vita gloriosa. Qualcosa fra l'obelisco vivente e le colonne imperiali romane. Nei grandi reami Yoruba dell'Africa subsahariana, gli unici ad essere completamente privi di tatuaggio erano gli schiavi: grado zero della scrittura sociale grado zero della persona. Uomini senza storia e senza memoria.

In fondo i milioni di persone che oggi si tatuano, si perforano, si segnano, cercano proprio di far emergere la loro storia, la personalità, i gusti, gli affetti. Quasi che il significato dell'essere stia in una sorta di palinsesto di segni, parole, immagini, emblemi. La parte più importante di noi diventa così quella visibile, quella che compare in superficie. Secondo un procedimento di somatizzazione sociale e simbolica, una esteriorizzazione di sé che è l'esatto opposto di quello che noi intendiamo per interiorità.

D'altronde per una civiltà in progressiva secolarizzazione come la nostra - che si allontana sempre di più dall'idea dell'uomo immodificabile perché fatto a immagine e somiglianza di Dio - l'essere è fatto a immagine e somiglianza dell'io. E dunque il corpo tatuato è il grande ologramma dell'uomo contemporaneo. E della sua ansia di comunicare. Mentre nelle società tradizionali il tatuaggio è legato a un riconoscimento dell'intera collettività che attribuisce a certi segni un significato condiviso.

Spesso con un valore iniziatico. Al contrario, nella società dell'individualismo di massa, le persone si iniziano da sole. E da sole scelgono le parole per dirlo. Se il tatuaggio tradizionale è una segnatura che socializza, è il verbale somatico di un dialogo tra individuo e società, nella civiltà globale il dialogo avviene tra l'individuo e se stesso o al massimo il suo gruppo, proprio per differenziarsi dal resto della società.

Come nelle culture giovanili. Una pelle antisociale dunque, ma anche un segnale ad alta risoluzione rivolto a spettatori anonimi che non sanno nulla di noi. Fatto per essere visto, magari in mondovisione, come nel caso dei tatuaggi di Totti, di Ibrahimovic, di Hamsik, che esibiscono alla platea mediatica tutto quel che c'è da sapere su di loro. Amori, figli, successi, pensieri. Corpi monologanti, corpi emittenti, corpi in cerca di share.

E in ogni caso, a dispetto dell'apparente frivolezza narcisistica, l'indelebilità del tatuaggio rappresenta una sorta di sfida lanciata al panta rei che governa il presente, alla bulimia di un mondo che consuma e dimentica con la stessa superficiale velocità. Al di là di ogni moda effimera e di ogni autocontemplazione voyeuristica il corpo diviene così un mediatore simbolico tra gli uomini e la complessità di una realtà che fugge da ogni parte. E l'incisione sulla pelle diventa una sfida all'irreversibilità del tempo, un punto fermo nella propria storia.

Un gesto di chirurgia pittorica. Ma anche una forma di body art, una socializzazione estetica del sé. Trasformando il proprio corpo in un blog illustrato che trasmette informazioni non stop. Col rischio però che l'eccesso di segni prodotti ne azzeri il senso. Che è quel che avviene nell'informazione contemporanea. Se tutti sono tatuati il tatuaggio smette di significare, perde definizione per diventare decorazione, manierismo, modaiolismo.

È il paradosso del nostro tempo. Da una parte l'estrema smaterializzazione del digitale, dall'altra l'estrema materializzazione del corporale. È l'esito di un andirivieni millenario della parola significante. Che, uscita dal corpo come voce, fa ritorno al corpo come scrittura.


2 - ORMAI È UN ALTRO SIMBOLO DELLA PREVALENZA DEL CAFONE...
Francesco Merlo per "il Venerdì di Repubblica"

Conosco un tipo che, quando gli è nata la figlia, Alessia, 13 aprile 2002, si è fatto incidere addirittura sulla pancia che intanto, in dieci anni, è cresciuta più della sua bambina. Uomo cisposo e ruvido, sul braccio esibisce con fierezza due rose. La moglie ha il piercing all'ombelico e nella lingua. È ricco, ma il barman che gli serve l'aperitivo lo ha annichilito con un complicato disegno astratto sulla schiena: una copia del Flower Myth di Paul Klee. Perciò ora si confrontano e si rispettano: si trattano come poeti, come scultori o, almeno, come installatori d'arte su se stessi.

E tuttavia sarebbe troppo facile cedere alla tentazione e liquidarli come vandali del proprio corpo che esprimono in forma vistosa e inequivocabile il cattivo umore, prima ancora del cattivo gusto, nazionale e bene illustrano la smania italiana di arrivare all'eccesso, come nelle commedie plebee. Di sicuro oggi ci sono più tatuati in Italia - anche tra i lettori di questo giornale - di quanti ce ne sono nelle marina inglese, ennesima conferma di quell'avanzata della linea della palma, di quel Meridione che conquista tutta la Penisola e rende sempre più napoletano il popolo italiano, sempre più estroverso ed espressionista e dunque anche volgare e tuttavia creativo e perciò sempre più tatuato.

E difatti non si fanno tatuare soltanto i soliti italiani gesticolosi e rumorosi, quelli attorniati da bonazze rifatte, eccitati dal trovarsi al centro dell' attenzione, destare l'interesse, italianizzare e appropriarsi, come fecero già Alberto Sordi e Renato Carosone col mito dell'America, del codice antico e trasversale del tattoo che può essere occidentale od orientale, virtuoso e religioso o malavitoso e gotico, aristocratico o popolare, settario o individualista: navi e carceri, mondi primitivi e raffinatezze da body art.

Cominciamo col dire che i corpi degli italiani non sono incisi e manipolati per nobiltà marinara né per appartenenza a qualche sottoproletariato industriale né tanto meno per eccentricità da artista, ma per narcisismo individualista e per conformismo. Spesso il tatuaggio è la chance che ha il poveraccio di sentirsi strafico. Anche se qualcuno prova pure il tatuaggio discreto che subito si rivela come un ossimoro perché il tatuaggio più è discreto e più è visibile, sostituisce il neo degli incipriati benché sia vero che da un danno piccolo si può uscire con una cicatrice piccola (da laser).

Il più diffuso modello di riferimento rimane il semi vip, l'orrenda categoria antropologica dei presenzialisti e dei riccastri con la pancia a pera tatuata, sotto l'ombelico, come un cartone animato. Mezzi vip sono gli eroi televisivi del pomeriggio, le retrovie Rai, quelli degli aperitivi autorevoli fotografati nelle riviste di quartiere con un tricheco sul petto che fa molto Billionaire di Briatore, il covo della pacchianeria italiana.

Alla fine, non potendo fare brum brum sulla Porsche e solcare il mare calmo con barche da 43 metri, il poveraccio si dà arie da strafico facendo un uso sgargiante di quel poco che ha, il proprio corpo appunto, sporcato e imbrattato, come i ponti e i muri d'Italia, con le proprie deiezioni sentimentali depositate sulle braccia e sulle gambe, come i graffiti che hanno stravolto il centro delle nostre città, come il turpiloquio inciso con i coltellini sulle vestigia di Pompei.

Non dico che bisognerebbe vietare i tatuaggi, per carità: il corpo è sacro e il solo sovrano del corpo è l'individuo. La libertà personale è il valore al quale bisogna attenersi, sempre: sia nel caso estremo della morte assistita sia in quello della signora che vuole piercing nell'ombelico o sogna di rimodellarsi il seno. Il buon gusto non si può imporre per legge. Ma forse sarebbe opportuno vietare ai minori i tatuaggi, come vuole la nuova legge sulla chirurgia estetica, perché le decisioni irreversibili non siano troppo premature né esclusivamente affidate, come avviene adesso, all'autorizzazione dei genitori che spesso sono a loro volta tatuati, magari con la squadra della Roma sulla schiena o un'avventura di James Bond illustrata sul sedere, una bella croce sul braccio sinistro, uno squalo sul piede e un mitra sull'inguine.

Quanti anni aveva Narciso quando morì d'amore per la propria immagine riflessa nell'acqua? Tutti capiscono che il narcisismo può essere amore di sé e cura di sé anche nella forma della chirurgia estetica o del tatuaggio, che però è spesso praticato da avidi e presunti Michelangelo che operano senza le necessarie precauzioni igieniche. E basta leggere le loro pubblicità che ormai dilagano su Internet, partecipare almeno una volta a qualche raduno di questi tatuatori, sfogliare i cataloghi dello loro mostruosità presentati come i cataloghi del Louvre.

E non faccio nomi né esempi volutamente, ma anche la pubblicità del tatuaggio è una materia che dovrebbe esser regolata meglio, disciplinata, e non abbandonata ad un far west così bizzarro. L'adolescenza, del resto, può essere facilmente devastata dal conformismo. Meglio aspettare dunque che la persona sia capace di amare o, se volete, di odiare consapevolmente se stessa e dunque di capire cosa significa fare investimenti narcisistici sul proprio corpo, truccarlo, tatuarlo, manipolarlo senza ritorno.

Intanto non è vero che «siamo tutti poeti e il corpo è la pagina su cui scrivere », ed è tempo di finirla con le considerazioni post moderniste dell'arte cafona, con la celebrazione degli immondezzai, delle sozzure, del sangue, della cacca, della bava, dei tatuaggi che non sono scorciatoie per il Parnaso fai-da-te e su-di-te, ma quasi sempre sconcezze e volgarità.

Quest'anno le nostre spiagge sono simili alle orrende passerelle cafonal di Dagopsia, musi di gomma e seni di plastica, glutei esplosivi esaltati dai più astrusi e sguaiati tatuaggi di ogni genere e in ogni parte del corpo.

Basta una passeggiata su un litorale affollato per capire che l'Italia è il Paese dei corpi manomessi, della presunta body art di massa, del falso come antidoto al veleno del vero; scorpioni sulla spalla e poi stelle, cerchi enigmatici, geometrie maori e funghi sui glutei, un joker sul braccio, una suora cinese su una gamba, Che Guevara sotto l'ombelico e i soliti cuori stilizzati e trafitti con dentro i visi degli innamorati, reticolati e fili spinati sul collo, tutti come Belen e la sua farfallina di cui Corona rivendica il copywriter, e le scritte d'amore o di lutto come quella incisa sul braccio della Gregoraci per la morte della mamma: «Senza di te non sarò più la stessa», e ovviamente in inglese.

Il tatuaggio nel nostro povero Paese ha sostituito l'unghia lunga del dito mignolo, è uno sbuffo di prosopopea sociale, come le labbra che la chirurgia estetica rende grottescamente turgide, come i glutei arrotondati dalle protesi al silicone, come i nasi demoliti e ricostruiti con lo scalpello.

Anche la perenne abbronzatura, isole e lampada è, a suo modo, una forma di tatuaggio, degenerazione del bisogno legittimo e sempre più diffuso di cambiare se stessi, come del resto palestrarsi, modellarsi i bicipiti o gonfiarsi il seno sino alla magnificenza più sguaiata e insolente. Conquistando la massa e incidendosi ormai nel Tricolore, il tatuaggio in Italia ha ovviamente perso tutti i suoi significati elitari, satanisti e devoti, esoterici e ornamentali, erotici e vezzosi, ed è diventato il segno definitivo della prevalenza del cafone.

2- IL TATUAGGIO DEL CATTIVO GUSTO
Sebastiano Vassalli per il Corriere della Sera

C'era una volta il cattivo gusto, reso amabile da Gozzano nelle sue poesie, che poi si è trasformato nel «kitsch» anglosassone e infine è scomparso: chi mai, in democrazia, avrà il coraggio di dire che quasi tutto ciò che oggi trionfa, nel costume, nella moda, nella cultura, nei viaggi e così via, è di cattivo gusto? Sarebbe politicamente scorretto, retrogrado, oscurantista, reazionario. Eppure è così. Prendiamo una moda oggi dominante, quella del tatuaggio.

L'estate che volge al termine ci ha mostrato, casomai ce ne fosse stato bisogno, che metà degli italiani: giovani e vecchi, colti e incolti, ricchi e poveri, pensa di doversi raccontare con la pelle del proprio corpo. (L'altra metà, immagino, è quella che scrive romanzi). Perché? Nessuno se ne meraviglia e nessuno ce ne spiega le ragioni. È la moda, e le mode in democrazia non si discutono.

Né al Festival di Sanremo, dove una gentil pulzella esibì una farfalla inguinale («Non mostrarci la farfalla, mostraci l'inguine!», le avrebbe gridato ai suoi tempi Filippo Tommaso Marinetti), né agli uffici di reclutamento dell'Esercito: dove maldestre direttive tentano (giustamente) di impedire l'accesso all'Uomo illustrato di Ray Bradbury. L'ultimo che si è occupato di tatuaggi, in Italia, è stato Cesare Lombroso: ma Lombroso, si sa, è l'equivalente maschile della nonna Speranza di Gozzano. Qualunque cosa abbia detto, non conta.

 

 

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