"SONO UNA PROSTITUTA MUSICALE" – IL FILM “BOHEMIAN RHAPSODY”, LA STORIA DEI QUEEN PER COME I SUPERSTITI VOGLIONO RACCONTARLA - È IL '64 QUANDO FARROKH BULSARA SBARCA IN INGHILTERRA. HA 17 ANNI E VIENE DA ZANZIBAR. DIVENTERA' FREDDIE MERCURY E REINVENTERA' IL DIVISMO ROCK E LA SUA PROVOCAZIONE ESTETICA – VIDEO
Stefano Pistolini per “il Venerdì di Repubblica”
BOHEMIAN RHAPSODY rami malek nei panni di freddie mercury
È il '64 quando Farrokh Bulsara sbarca in Inghilterra. Ha 17 anni e la cultura che l'accoglie non gli è estranea perché, prima a Zanzibar e poi a Bombay, ha frequentato scuole britanniche.
Il resto lo sta imparando da solo, col suo gusto e con la sua bramosia di vita. Per lui quelli sono gli anni della formazione dello stile che lo proietterà verso la celebrità. È il 1970 quando tutto accelera: mentre ancora s' arrabatta tra i banchetti del Kensington Market, vendendo creazioni di quello che un giorno si chiamerà street style, Farrokh - che adesso si fa chiamare Freddie Mercury - incontra dei musicisti che come lui sono alla ricerca della strada per il successo.
Con Brian May, Roger Taylor e John Deacon, Freddie inventa il progetto Queen: «Sarò una star» dice da subito, cercando conferme negli sguardi di chi lo osserva, sconcertato dalla innaturale dentatura anteriore che lui porterà con naturalezza per tutta la vita.
Freddie dispone di tutta la fede necessaria a creare qualcosa mai visto prima: la più ambiziosa band del mondo, basata su un concept diverso dagli altri gruppi contemporanei.
I Queen infatti, coi loro linguaggi reinventano il rock, che è il codice espressivo della gioventù del momento, contaminandolo con una miriade di livelli dell' intrattenimento classico, ma senza rinunciare alla potenza dei megawatt.
Ci vogliono cinque anni perché la cosa funzioni. È il '75 quando A Night at the Opera diventa il disco dell' anno. Di lì in poi la parabola è folgorante: un decennio di album e di singoli in testa alle charts, di soldi a palate e stravizi a volontà. Nel bene e nel male i Queen sono le rockstar assolute. Fino al 1985, che è l' ultimo anno magico del gruppo: a quel punto sono quasi un' entità dissolta, eppure la loro riapparizione sfiora il mito per ben due volte.
Prima a Rio, dove Freddie e soci suonano davanti a 300 mila persone, l' adunata più grande di tutti i tempi per una singola attrazione musicale. E poi il 13 luglio, quando partecipano al folle carrozzone di Live Aid guidato da Bob Geldof, mix di benefit, narcisismo e glam in mondovisione: sul palco di Wembley, Freddie - canottiera bianca, Adidas, jeans aderenti, baffi e brillantina - domina l' evento e se ne appropria, mettendo in chiaro d' essere il più bravo di tutti.
Dietro l' angolo, però, c' è il viale del tramonto: la band si eclissa, mentre i dissapori si moltiplicano. Sarà la notizia della sua malattia a risolvere la narrazione: Aids. 1991: il conto alla rovescia. Si gira il videoclip di These Are the Days of Our Lives, sulla coda del quale Mercury, guardando dritto in macchina, sussurra al suo pubblico: «Io ancora vi amo».
A novembre, a 45 anni, la dipartita. Attenzione: qui comincia la sua seconda vita. Perché se il fenomeno-Queen è già un classico musicale consolidato, oltre le barriere del tempo e dello spazio, il fenomeno-Mercury richiede una riflessione più approfondita.
Perché Freddie è magnetismo puro, perfezionismo e audacia, estremismo chic. Soprattutto è riscrittura del divismo. Non a caso David Bowie o Lady Gaga ne parleranno come della loro costante ispirazione: è l' istrione definitivo, il sovversivo dei look, l' esteta che si reinventa senza posa.
In lui confluiscono moda, design, teatro, opera: essere il frontman di una super-band arriva dopo, come effetto e non come causa: «Mi piace confondere chi mi guarda» dice Freddie «perché noi abbiamo più in comune con Liza Minnelli che coi Led Zeppelin».
Sul tutto aleggia la questione della sessualità, destino e sberleffo, orgoglio e dannazione: le sue esibizioni en travesti, a cominciare da quella in I Want To Break Free sono capolavori di ambiguità.
E la sua idea di mascolinità è un segno dei tempi: addio alla fragile androginia, spazio a un bel paio di moustache, alle ascelle pelose, agli accessori bondage. Freddie è un colosso della provocazione.
Salvo ridicolizzarsi da solo: «Sono una prostituta musicale» dice. «Mi piace divertirmi: che c' è di meglio che farlo davanti a migliaia di persone in estasi per te?».
Dopo molti stop&go, ora tutto ciò diventa cinema. Arriva Bohemian Rhapsody, diretto da Bryan Singer (I soliti sospetti e la saga degli X-Men), storia dei Queen per come gli artisti superstiti vogliono raccontarla.
Un progetto che si muove nello sdrucciolevole territorio del film in costume, tra parrucche e abiti vintage, ma anche un assai probabile blockbuster che polarizzerà l' attenzione di milioni d' irriducibili fan. Al centro della produzione la travolgente interpretazione con cui Rami Malek, già apprezzato per la serie tv Mr. Robot, fa rivivere Freddie: «Non ho voluto presentare la mia imitazione di Mercury.
Altrimenti sarebbe meglio guardarsi un documentario sui veri Queen» confessa in un albergo di Soho a Londra, mentre sono in corso gli ultimi ritocchi alla pellicola che uscirà negli Usa il 2 novembre e in Italia il 29 novembre.
«Per me l' unica strada da seguire è stata quella di capire Freddie Mercury: comprendere la sua umanità, misurare la sua anima. Sono partito da lì. Poi sono risalito alla sua fisicità, al suo modo di muoversi, alla voce. È così che ho costruito il personaggio e solo così poteva avere senso».
Visto da vicino Malek dimostra meno dei suoi 37 anni. È piccolo, scattante, con un sorriso contagioso. Sorriso a cui ha dovuto rinunciare, impersonando Freddie: «Se vai online e cerchi le sue foto, vedrai che i veri denti di Mercury erano più grossi di quelli che mi hanno messo per il film.
BOHEMIAN RHAPSODY rami malek freddie mercury
Eppure, una volta che li ho indossati ho capito cosa volesse dire essere preso in giro di continuo, come capitava a lui». Ma è proprio così che è cominciata l' osmosi che ha messo sul volto di Rami la maschera di Freddie: «Era un uomo complicato, coi suoi demoni e il suo percorso di consapevolezza. E poi era un immigrato sbarcato nella nuova Inghilterra dei giovani, dove ha rincorso il suo sogno.
In questo film non c' è l' eroe da venerare, ma una personalità determinata a farcela, anche quando i coetanei lo sfottevano. Freddie sentiva d' essere nato per salire sul un palco e per tenere le platee nel palmo della sua mano».
La trama di Bohemian Rhapsody stilizza i fatti reali. Gli approfondimenti sono smussati ma la musica è grandiosa e la rappresentazione dei Queen come vera macchina da concerti tocca l' apice proprio nella ricostruzione del set al Live Aid: «La prima settimana del set è stata dedicata solo a ricostruire quella scena. Ma è stata sostanziale per calarmi nella parte» racconta ancora Malek, che come Freddie ha sangue asiatico nelle vene, nel suo caso con ascendenze egiziane.
«Quello show è il primo su cui mi sono concentrato, per impadronirmi del personaggio.
Osservandolo si vede questa impronta di machismo e di spavalderia inscenata da Freddie per rappresentare qualcos' altro, in un' esplicita dichiarazione d' intenti che parla di orgoglio e liberazione. Io ho studiato la sua performance movimento per movimento e posso garantirvi che è programmata come un balletto classico».
Costantemente al fianco di Malek, ha lavorato Brian May, chitarrista dei Queen e partner artistico di Mercury, che ha voluto fortemente questo progetto: «Brian ha avuto fiducia in me, dandomi coraggio e motivazione. Mi ha raccontato come la band fosse preoccupatissima per lo show al Live Aid.
Erano convinti che quello non fosse il loro pubblico e che sarebbero stati accolti male. Però nella famosa giornata di Wembley furono tra i pochissimi ad avere l' opportunità di provare e la cosa ebbe notevole importanza per il successo della loro apparizione.
I Queen sono sempre stati dei perfezionisti ossessivi e so che oggi si parla di quella come della migliore performance dell' intera storia del rock. Alcuni giornalisti che c' erano, mi hanno raccontato che quando i Queen hanno cominciato a suonare, tutti hanno capito d' assistere a qualcosa di straordinario: nel backstage vennero interrotte le interviste per correre a vedere».
Nel film Malek rifà per intero lo show, con una maestria e una convinzione che nello spettatore producono quasi lo stesso effetto della prima volta: «Freddie aveva un' estensione vocale fuori dal normale, quasi cinque ottave. E sul palco si muoveva col portamento melodrammatico di un grande attore di Bollywood: un maestro assoluto, che è stato un onore riprodurre».
Dunque Bohemian Rhapsody sarà una leccornia per i fan e un compendio piuttosto entusiasmante per chi all' epoca non c' era. Schematico e suggestivo al tempo stesso, non s' attarda a frugare nelle psicologie degli artisti e non disdegna i toni agiografici, ma il ritratto che offre dei Queen è credibile, per come furono geniali e predestinati, bravi e affamati, e per come trionfarono allorché la visionarietà di Freddie assunse il controllo delle operazioni.
Per loro arrivò uno spropositato successo, a cui subentrarono tradimenti e nuovi ricongiungimenti, mentre si arricchiva quel formidabile repertorio di canzoni che in concerto assumeva la sua forma più smagliante.
Come il regista Cameron Crowe aveva brillantemente intuito in Quasi famosi (di cui Bohemian Rhapsody ricorda le atmosfere) tutto ciò è stato molto romantico, un po' volgare ed enormemente divertente: è il rock, all' apice del suo splendore.
Finché è durato, è stato bellissimo. Anche se adesso, a ripensarci, fa un po' tenerezza e un po' fa venire i nervi. Come questo film. Che ti commuove, ma al tempo stesso ti convince che il tempo sia implacabilmente passato e che, per fortuna, la collettiva sbornia novecentesca sia finita. E che adesso siamo tutti altrove.