1. SORRENTINO: “ALL’ESTERO MI CAPISCONO DI PIÙ”. COME NO, INFATTI TI STRONCANO 2. "LIBERATION": “DA EFFETTI MANCATI PER TROPPA GRANDILOQUENZA (L'IRRUZIONE DI UNA GIRAFFA) AGLI OMAGGI LACRIMOSI (UN'APPARIZIONE FANTOMATICA DI FANNY ARDANT), SORRENTINO PENA A TROVARE LA DISTANZA GIUSTA. A VOLTE, SI LANCIA IN UN DISGUSTO CIECO VAGAMENTE REAZIONARIO, CONSEGUENZA INTIMAMENTE LEGATA ALLA NOSTALGIA” 3. MARIOROSA MANCUSO: “LA GRANDE FUTILITÀ DI SORRENTINO E LA MACCHIETTA SEMPRE UGUALE DI TONI SERVILLO” CON UN BEL PARADOSSO, IL FILM CHE VUOLE BATTERSI CONTRO LA SUPERFICIALITÀ È IL PIÙ FUTILE TRA QUELLI FINORA PASSATI IN CONCORSO” 4. FERILLI E VERDONE, ATTORI DEL FILM, PARLANO DI “FUOCO AMICO” E GIUDIZI “NON LIBERI”

1. SORRENTINO: "ALL'ESTERO MI CAPISCONO DI PIÙ". COME NO, INFATTI TI STRONCANO
Scrive Bruno Icher su "Liberation": "Se il progetto di Sorrentino e' costruito integralmente su una nostalgia che si immagina dolorosa, l'uso che ne fa e' troppo diseguale per dare al film una architettura seducente. Da effetti mancati per troppa grandiloquenza (l'irruzione di una giraffa in un set da spot) agli omaggi lacrimosi (Fanny Ardant che fa un'apparizione fantomatica), Sorrentino pena a trovare la distanza giusta. A volte, si lancia in un disgusto cieco vagamente reazionario, conseguenza intimamente legata alla nostalgia..."

1. SORRENTINO: "ALL'ESTERO MI CAPISCONO DI PIÙ"
Valerio Cappelli per "Il Corriere della Sera"

«Il mio film è stato capito più all'estero che in Italia», dice Paolo Sorrentino. Agli occhi della stampa internazionale, l'unico regista italiano in gara appare come un «vecchio» maestro di 42 anni. E che alla première di La grande bellezza riesce a strappare ovazioni e dieci minuti di applausi.

Per gli osservatori stranieri, la pellicola è seriamente candidata alla Palma d'oro. Tutti pensavano il contrario, e cioè che il ritratto feroce e metafisico della Roma notturna che a torto o a ragione riporta alla Dolce vita potesse non essere capito all'estero. I recensori italiani invece sono andati in ordine sparso tra lodi e riserve.

«Forse non sapete leggere bene le cose, errori di valutazione ne facciamo tutti», risponde il regista, «mi era già successa la stessa cosa con Il divo qui a Cannes, d'altra parte si ha a che fare con una platea internazionale prima ancora che del paese d'origine. Vuol dire che abbiamo centrato l'obiettivo».

Gli attori del film parlano di «fuoco amico» e di giudizi «non liberi». Carlo Verdone, alla sua prima interpretazione non di commedia, dice che «in un momento in cui l'Italia non conta più niente, venire a Cannes con un film importante vuol dire già qualcosa. Quanto a me, sono 34 anni che faccio commedie, mettetevi nei miei panni».

Sabrina Ferilli ricorda che è un film «selezionato tra altri 2000». Per il Guardian, il protagonista Toni Servillo deve vincere come migliore attore, e sottolinea il suo «magnifico ritorno col regista» dopo il premio della giuria a Il divo nel 2008. Servillo nel film è il re della mondanità, uno scrittore che ha dissipato il proprio talento, la pallina impazzita di una roulette in cui ogni personaggio, in una Roma barocca sepolta sotto la pietra tombale di scandali e fesserie, gira senza senso parlando del nulla.

Le Monde lo accosta a Mastroianni, alter ego di Fellini, paragone a cui lui si sottrae: «Sarebbe presuntuoso, parliamo di due geni, ma è vero che Sorrentino su sei film ne ha fatti quattro con me, lui è come l'appassionato di ippica che scommette su un cavallo. Le polemiche? Non è un argomento che mi appassiona».

Scrive Variety: «Una intensa e spesso sorprendente festa cinematografica che onora Roma in tutto il suo splendore e superficialità». Hollywood Reporter: «Fortunatamente Sorrentino sa fare di meglio che imitare il gigantesco Fellini». Première, lodandone la potenza visiva, dice spiritosamente «scusi Nanni», perché in Francia Nanni Moretti è amato assai.

E quando una giornalista italiana chiede al regista se il tema del film non sia vecchio perché la gente non si diverte più a quel modo, Sorrentino pacato risponde: «È una lettura approssimativa e generica, il film parla della bellezza della vita, è un po' atemporale». Dall'Argentina annotano che era dai tempi del Ventre dell'architetto di Greenaway che Roma non veniva rappresentata così, mentre un giornalista belga sgrana gli occhi apprendendo che certe statue filmate si trovano in un palazzo nobiliare e non al museo.

Chiedono a Sorrentino quale sia la grande bellezza del cinema italiano, lui dice che «a dispetto di quello che si dice è un cinema vivo e troppo spesso per strane abitudini lo si stronca aprioristicamente». Non ha nessuna voglia di rovinarsi la festa. Servillo, che la notte dorme e non va per feste, ricorda che La dolce vita in un primo tempo doveva intitolarsi La bella confusione: «Era un'Italia diversa, viveva sulla spinta del rilancio del dopoguerra. Ho la sensazione che Fellini abbia guardato Roma appoggiato dolcemente a una balaustra. Paolo invece c'è cascato dentro come dalla tromba delle scale».


2. LA GRANDE MACCHIETTA - IL DIAVOLO E LE TRAGEDIE DEL LIBERO ARBITRIO, MOLTO MEGLIO DI SORRENTINO
Mariarosa Mancuso per "Il Foglio"

......... Un catalogo di belle immagini - quasi tutte con il copyright altrui, prendiamolo come un omaggio a Federico Fellini - alternate a chiacchiere, pettegolezzi, qualche intervista, qualche performance di bambine artiste che gettano bidoni di pittura sulla tela (una scena già vista in "Una donna tutta sola" di Paul Mazursky, film del 1978 destinato a un vasto pubblico che capiva il riferimento e rideva: oggi siamo parecchio oltre la data di scadenza della gag).

Jep Gambardella, scrittore in pantaloni bianchi e giacche colorate, non pubblica più un romanzo da quarant'anni. Forse è un bene: davvero non riusciamo a immaginare come campione di un mondo da rimpiangere uno che aveva intitolato il suo capolavoro "L'apparato umano". Si atteggia a dandy, ma non gli esce di bocca - colpa della sceneggiatura firmata da Sorrentino medesimo con Umberto Contarello - una sola frase davvero cinica. All'epoca di "Il Divo", toccò spiegare ai giornalisti stranieri che le battute del film, assieme alla proposta di matrimonio al cimitero del Verano, erano uscite dalla factory di Giulio Andreotti, non da quella di Sorrentino.

Qui c'era da saccheggiare Ennio Flaiano. Ottima, per esempio, la frase che sempre torna in mente quando sentiamo parlare dei trans e del loro successo: "La fica non la vuole più nessuno. I pompini li fanno anche le mogli. Gli dai il culo sembra che gli dai la merda".

Jep Gambardella è Toni Servillo: al cinema attore di una sola parte proprio come in "La grande bellezza" risulta lo scrittore di un solo romanzo. Giudizio non condiviso dal mensile francese Première, che gli dedica un'intervista e lo chiama "camaleonte". Troppa grazia, per un attore che sullo schermo - a teatro quando recitava Goldoni era meglio - si potrebbe teletrasportare da un film all'altro solo cambiandolo d'abito, voce e gesti rimangono identici. Ha più facce Carlo Verdone, che di Jep Gambardella è il doppio sfortunato, ancora in cerca del successo letterario da usare come pussy magnet: calamita per attirare qualche bella figliola nel proprio letto.

La Santa, in un film su Roma, ci può anche stare. Sono anni che vediamo tonache svolazzanti, dipinte o fotografate: non ne subiamo il poetico fascino, ma sappiamo benissimo di essere in netta minoranza. Questione di gusti, in questo caso. Ma il personaggio della direttrice di giornale nana non è questione di gusti. La nana è davvero troppo. Con un bel paradosso, il film che vuole battersi contro la superficialità è il più futile tra quelli finora passati in concorso.


3. LA CRITICA SI DIVIDE SULLA "BELLEZZA": ITALIANI TIEPIDI, STRANIERI ENTUSIASTI
Arianna Finos per "la Repubblica"

La bellezza del film di Paolo Sorrentino è più grande per la stampa estera che per quella italiana. Il film è stato accolto dal plauso di molti critici internazionali, decisamente meno tiepidi dei recensori di casa nostra. A cominciare dall'autorevole Variety, che definisce La grande bellezza «un'intensa e sorprendente festa cinematografica che onora Roma in tutto il suo splendore e in tutta la sua superficialità», scrive Jay Weissberg.

Quattro stelle (su cinque) nella recensione del britannico Guardian, Peter Bradshaw scrive: « La grande bellezza, come la grande tristezza, può significare amore, sesso, arte o morte». Il critico aggiunge che «per il meraviglioso Toni Servillo è giunto il tempo di essere premiato come migliore attore qui al Festival». Lee Marshall di Screen International afferma che «certamente questa miscela di satira sociale e malinconia esistenziale, questa ricerca di poesia anche ridicolizzando la poesia stessa è già stata fatto da Fellini. Ma La grande bellezza resta una grande esperienza cinematografica».

Malgrado la presa di distanza di Paolo Sorrentino, inevitabile l'accostamento in molte recensioni, a La dolce vita. «Per fortuna Sorrentino sa fare meglio che imitare il gigantesco Fellini e La grande bellezza è più di un inchino riverente al passato», questa l'opinione di Deborah Young per The Hollywood Reporter.

Per Le Monde «senza essere un capolavoro, il film si riallaccia alla tradizione malinconica di pellicole come Roma e La terrazza» , ma «il film ha belle idee e intuizioni, ma non eguaglia i suoi maestri».

E se il critico di Cahiers du cinéma, Vincent Malausa, si era mostrato molto critico, definendo il film «invitato invadente» al Festival, si era dichiarato entusiasta invece il Frédéric Foubert di Première: «I virtuosistici movimenti di camera che troncano il respiro e fanno sgranare gli occhi, la sensazione paralizzante di un montaggio pop, il pensiero che si manifesta con uno stile quasi allucinato. Fin dai primi momenti del film si capisce che ci siamo! Questa altezza di visione estetica, questa disperazione crepuscolare danno al film l'impronta di una summa filmica».

 

 

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