SORRENTINO: ‘HO FATTO UN FILM SU BERLUSCONI PERCHÉ SENZA DI LUI LE NOSTRE CENE SONO DIVENTATE NOIOSE’. L’INTERVISTONA AL REGISTA: ‘SILVIO HA LE PAURE DI TUTTI. LA VECCHIAIA E LA MORTE. FINANZIARE IL SAN RAFFAELE, LA RICERCA SULL’IBERNAZIONE O SULL’IMMORTALITÀ SONO SINTOMI CHE DIVENTANO AZIONI. I RICCHI FANNO COSE MOLTO CONCRETE, COSE CHE NOI COMUNI MORTALI PENSIAMO SOLAMENTE E NON OSEREMMO MAI METTERE IN PRATICA’ - E RIVELA PERCHÉ NEI SUOI FILM, DAI FENICOTTERI ALLE GIRAFFE AI RINOCERONTI, C’È SEMPRE UN ANIMALE…
Malcom Pagani per Vanity Fair
paolo sorrentino e nicola giuliano
Non soltanto cene eleganti: «Dal mio primo film a oggi non ho cambiato molto la mia idea di cinema. Per me realizzare un film è sempre stato come sedersi al ristorante. Quando ero ragazzo ci andavo con i miei genitori. Era un evento. Una festa. Un momento per mangiare tanto e bene. Oggi nei ristoranti si chiede l’insalatina. Mia madre diceva: “Se dobbiamo stare a dieta rimaniamo a casa” e aveva ragione.
Quando faccio un film non pretendo assolutamente che sia perfetto, ma roboante, straripante, invasivo e disturbante, quello sì. In sala si va per essere scossi, subissati e magari nauseati da qualcosa che deve somigliare all’overdose. Poi, per carità, c’è uno stile rigoroso che mi piace molto, ma spesso la critica confonde il cinema rigoroso con quello rachitico e io al cinema rachitico preferisco ancora il letto, l’astensione o il digiuno. Posso non uscire di casa e andare a dormire leggero, sicuro che si presenteranno serate migliori».
A quasi 48 anni, con Loro 1 e Loro 2, Paolo Sorrentino ha scritto per immagini la biografia della Nazione. Lenoni e puttane, poveri diavoli e unti del signore, servi e padroncini, galassie, satelliti e pianeti, uniti, copernicanamente, dal perpetuo girare attorno a un sole chiamato Silvio: «Berlusconi è un grande narratore di se stesso e – ricordiamoci solo del fotoromanzo per immagini che ci spedì a casa nel 2001 o del contratto con gli italiani – è già di per sé un perfetto soggetto cinematografico.
A un film su di lui ragionavo da anni e forse, inconsciamente, tra una foto e un video, all’idea di autorappresentarsi proprio come faceva Mussolini, pensava da tempo anche lui. Si sono succeduti i Moro, gli Andreotti e i Berlinguer, campioni della riservatezza e dell’essere schivi, alieni alle feste e ai salotti e poi ci è toccato in sorte Berlusconi. L’esatto contrario della disincarnazione del potere».
LORO SORRENTINO BERLUSCONI APICELLA SERVILLO
Il sigaro in bocca, una torta sul tavolo, un bicchiere di vino. C’erano anche l’ultima volta, a luglio, quando Sorrentino e Berlusconi si ritrovarono a pranzo dalle parti di Palazzo Grazioli: «Le occasioni private sono tali per definizione e raccontare cosa ci siamo detti sarebbe ineducato. Berlusconi chiese di incontrarmi e io andai. È chiaro che per uno come me, che fa dell’osservazione il suo principale lavoro, può essere utile anche vedere Berlusconi muovere un dito o spostare un tovagliolo. Ma fu un modo per dirsi buongiorno, niente di eclatante, rivelatorio, incredibile o misterioso. Tutta questa mania del retroscena, avendo fatto due film per un totale di tre ore e venti, a essere gentili, mi pare irrilevante».
Perché un film su Berlusconi adesso?
«Lessi una frase di Susan Sontag che mi sembrò illuminante: “Gli argomenti iniziano ad appassionarmi quando finiscono di appassionare gli altri”. Diamine, pensai. È esattamente quel che capita a me. Così dopo averci tanto riflettuto, quando su Berlusconi non più al governo si sono spenti i riflettori ed è calato il sipario, mi sono finalmente mosso».
Come mai proprio allora?
«Mi pareva che spente le luci, non ci fosse più quel carico abnorme di emotività che trascina dritti alla cronaca e all’attualità. Ormai collego la parola attualità all’emotività della gente, a questa ricerca ottusa della simpatia o dell’antipatia nei confronti dei personaggi politici, dei corridori automobilistici o di chiunque abbia un minimo di visibilità. Ho pensato si potesse fare un ragionamento più lucido, più distante, più storico. Perché questo è un film storico, un film in costume, un film che non ha nulla a che vedere con l’attualità. Era ed è il racconto di un periodo definitivamente chiuso e di un personaggio che ha attraversato una certa età della politica ormai tramontata. Loro non mira a essere attuale e ancor meno ad agganciarsi alla contemporaneità della politica. Ma soprattutto non è né un’odiografia, né tantomeno un’agiografia. Non è un attacco pretestuoso che arriverebbe tra l’altro fuori tempo massimo, né una difesa aprioristica».
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Nella finzione di Loro i dialoghi tra i sodali di una vita sembrano se non veri, verosimili. Fedele Confalonieri dice a Silvio: «Non sei mai sceso dalle navi da crociera» e l’altro risponde: «Forse non ci sono mai salito».
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«Confalonieri gli sussurra una cosa tenera che forse avrebbe potuto dirgli davvero. Sostiene che in lui la dimensione del sognatore, del ragazzo che all’epoca delle navi riteneva fosse ancora tutto possibile è molto forte, per cui la gente finisce o per credergli troppo o, nel caso dei suoi detrattori, nel non credergli per niente. Io penso che in Berlusconi, l’ottica del sognatore che ricopre di simbologie, anche cromatiche, tutta la scala degli ottimismi possibili tinti di azzurro, esista davvero. Il “noi possiamo farcela”, uno dei refrain che ci ha proposto per anni, non è solo parte di una strategia comunicativa in cui è maestro, ma fa intravedere di più. D’altronde Berlusconi non ha costruito bulloni, ma ha prodotto televisione e secondo il suo punto di vista, una delle cose che andava venduta agli italiani era proprio il sogno».
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Quale?
«Un sogno i cui confini si spostassero ogni giorno un metro più in là. Per descrivere Berlusconi e per farne una complessa sintesi, la frase più centrata del film la pronuncia un calciatore. “Tutto non è abbastanza”, dice rifiutando un ingaggio faraonico e Silvio, quella frase, la fa subito sua».
Qual è il vero tema di Loro?
«È un film sulle paure degli individui e su alcuni italiani che fanno parte di un Paese che, perfettamente diviso tra Sud e Nord, da un lato possiede pregi, difetti, inerzie, eroismi e cialtronaggini del Sud e dall’altro certe sconvolgenti forme di calvinismo del Nord. Loro, alla fine, sono gli italiani».
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Di che paure parliamo in Loro?
«Ognuno ha la sua. C’è chi teme di essere condannato alla marginalità della provincia, una paura comune a tutti quelli che hanno fatto carte false per abbandonarla e trovare un posto al sole in città. Poi c’è la paura di restare indietro, motore atavico, risalente a molto tempo prima che Berlusconi si affacciasse, per cercare scorciatoie, affarucci e piccole svolte che farebbero storcere il naso a un finlandese, ma che, in un Paese in cui la parola etica è declinata al minuscolo e la tendenza all’amoralità diffusa, sono la norma.
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La paura dei giovani, ragazzi e ragazze, di essere inadeguati e di percepire, travestito da divertimento, un costante, profondo, cupo senso di scontento. E la paura di Veronica, una donna di 50 anni, la paura di diventare superflui, di non essere più significativi per se stessi e per gli altri, una paura che avendo la sua stessa età riconosco bene».
Qual è la paura di Berlusconi?
«Le paure di tutti. La vecchiaia e la morte. Nel film non l’ho messo, ma finanziare il San Raffaele, la ricerca sull’ibernazione o sull’immortalità sono chiari sintomi che diventano azioni. I ricchi fanno cose molto concrete, cose che noi comuni mortali pensiamo solamente e non oseremmo mai mettere in pratica».
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Quali sono le paure di Paolo Sorrentino?
«Sono sempre stato un ragazzo pauroso e, da un certo punto di vista, la paura è stata un’àncora di salvezza. Aver perso i miei genitori a 16 anni, ricevendo quindi un’educazione e una formazione quantomeno monche, ha fatto sì che purtroppo continuassi a percepirmi come una sorta di ragazzino che pur essendo stato invitato al tavolo degli adulti non ne farà mai davvero parte. Un’estraneità divertente e pericolosa, perché a un certo punto la cognizione di sé, adulto tra gli adulti, bisogna essere in grado di averla».
Invece?
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«Invece, come tutti quelli che giocano con una realtà deformata, faccio molta fatica a entrare nel mondo degli adulti. Non essere del tutto adulti restituisce un’angolazione sulla vita molto interessante: il problema è sempre far capire agli adulti che tu non sei uno di loro. È difficile. Alla lunga, di avere a che fare con un bambino con la barba che sta anche perdendo i capelli, potrebbero anche stancarsi o non poterne più. (Ride). Comunque tornando alla sua domanda, per biografia personale e reazione a un grande coraggio, quello di mio fratello e di mia sorella, sono stato un ragazzo molto pauroso. E può anche darsi che a volte la mia paura sia stata scambiata per aridità».
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Si sente arido?
«A voler essere onesti con se stessi, un fondo di aridità, magari da usare nelle occasioni adatte, ce l’abbiamo un po’ tutti. Però l’aridità, spesso, è anche la maschera che s’indossa per occultare la propria sensibilità».
Nel suo film si respira una certa aridità tra Veronica e Silvio.
«Perché il mio è un film sentimentale. Volevo fare un racconto sentimentale sugli uomini. Nel film c’è un momento in cui Berlusconi capisce che i sogni sono finiti e che è troppo tardi per riconquistare sua moglie. Dopo aver incontrato Veronica Lario sono tornato a casa con la profonda convinzione che lì, nelle pieghe, tra lei e Berlusconi dovesse esserci stata una grandissima storia d’amore.
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Molti concentreranno la loro osservazione sulla politica allo scopo di creare polemiche per le quali provo l’indifferenza più assoluta. Ma io sono fedele a Truffaut che sosteneva che non tutto si può ridurre al politico, perché in ballo c’è sempre l’uomo. Poi magari, se lo vedrà, Berlusconi dirà che non ho capito nulla dei suoi sentimenti».
Nel film più che i rapporti, Veronica Lario gli rinfaccia le occasioni perdute.
«Nel film Veronica esprime un risentimento che da cittadino mi è capitato di provare tante volte nei confronti di Berlusconi. Il dispiacere per ciò che avrebbe potuto essere e non è stato. Governare però è complicato, se ne è accorto anche Renzi. Stare a casetta a giudicare, più semplice».
Con Veronica, Silvio lamenta il cambiamento irreversibile: «Dov’è finita quella ragazza di Bologna che sorrideva sempre?».
«Ai suoi occhi lei incarna certe doti: il buon senso, la responsabilità e la logica, doti che sulla carta sono meravigliose, ma non ti permettono di lasciarti andare e alla lunga possono farti apparire come pedante. Ogni volta che mi trovo a fare il padre con i miei figli mi avverto così: noioso. Mi piacerebbe dir loro di fare follie, però, per il ruolo che ho, non posso».
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Anche Berlusconi è sempre uscito dal ruolo.
«Perché ha sempre avuto la convinzione di dover ricoprire più ruoli. La verità è che a Berlusconi i ruoli stavano stretti e la politica pone dei paletti, non solo burocratici, che per una personalità come la sua erano complicati da rispettare. Di certo è stato un grande mattatore che ci ha tratto a lui come una calamita. Se ci vedevamo in un bar o a cena, non si parlava d’altro. E tutto sommato quelle cene erano più divertenti, perché adesso, con gli attuali protagonisti della scena politica, la conversazione langue, arranca, muore. Sono diventate noiosette, le cene». (Ride).
C’erano i detrattori e c’erano gli apologeti.
«E in questo gioco, attratti da una forza misteriosa, da un sogno da abbracciare o da un incubo da scacciare, siamo caduti tutti. Giovani, vecchi, donne, uomini. Pensavamo di desiderare cose che, esattamente come nel film, poi si sono trasformate. Sono stati anni drogati e ritmati dalle paure. Anni di vitalismo esasperato. Anche il mio film, in fondo, è un music-hall e un grande caleidoscopio di vitalismo.
Per ragioni che non sono in grado di spiegare, o forse per la deriva di un decennio poco esplorato, gli anni Novanta, in quel primo decennio del 2000 si è respirato un impazzimento generale. Una fretta di esserci, di vivere, di conquistare. Come dice Tarantini in un’intercettazione molto significativa, a un certo punto si è pensato di battere il ferro finché era caldo».
Quando il ferro si è freddato?
«Proprio come in Loro, una volta finito l’effetto della cocaina o dell’Mdma, siamo rimasti storditi, delusi, con un fardello duro da sopportare. La vitalità ha sempre il suo down. Per paradosso si potrebbe sostenere che senza l’avvento di Berlusconi, il conclamato disinteresse per la politica che oggi avvertiamo distintamente, l’estinzione, quasi, della categoria politica, avrebbe potuto verificarsi molti anni prima».
Sono stati anni tragicamente ridicoli?
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«Il senso del ridicolo è stato un gigantesco equivoco. Un grandissimo errore di valutazione. I detrattori hanno pensato che Berlusconi non durasse, hanno supposto che il senso del ridicolo che qua e là trapelava da Berlusconi lo avrebbe condannato all’oblio in poco tempo e invece è accaduto esattamente l’opposto perché il senso del ridicolo ce l’abbiamo tutti e siamo tutti inconsciamente in grado di riconoscerlo nell’altro. Il senso del ridicolo si sposa con quello che forse non vorremmo rappresentare, ma siamo. Se lei adesso scivolasse potrei anche farmi una risata, ma sotto sotto le sarei vicino, perché la riconoscerei come simile. Altra cosa è il successo, perché il successo quando è vicino alla tua porta, spesso trascina all’invidia».
Le sue storie e i suoi affreschi dividono.
«A sentire i miei denigratori, io storie proprio non ne faccio». (Ride).
Si sente già precipitato nella tripartizione arbasiniana, da giovane promessa a venerato maestro, a solito stronzo?
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«Il successo è sempre imperdonabile quando tocca agli altri e non a noi e la tripartizione di Arbasino, in una modernità sempre più emotiva e sempre più orientata dalla simpatia o dall’antipatia, uno dei grandi mali di oggi, sarà ancora più netta domani. Il giudizio dovrebbe dipendere da altri fattori. Quando i miei genitori, persone che avevano strumenti culturali limitati per scegliere, optavano per qualcosa, non sceglievano per simpatia, ma sulla base di una rassicurazione che, mi lasci dire, è già molto meglio».
Si vede che lei non rassicura. Quando la critica non plaude lei soffre?
«Quando la critica italiana non plaude, io ne esco rinfrancato. Molti film fa ho capito che dovevo scegliere: piacere ai critici nostrani, per un mio film, significava rinunciare a un box office decente in Italia e all’estero, rinunciare a una buona critica internazionale e magari a qualche piccolo premio. Ho preferito scontentare la critica italiana e provare a prendermi il resto».
Perché nei suoi film dai fenicotteri alle pecore o ai rinoceronti c’è sempre un animale?
«Mi piacerebbe avere una spiegazione profondamente intellettualistica, ma la realtà, ne ho parlato anche con il mio sceneggiatore Umberto Contarello, è che non c’è altra ragione che non sia quella del divertimento. È molto importante divertirsi quando si scrivono i film, altrimenti si rischia di prendersi sul serio».
«Le apparenze», si sostiene in Loro, «ingannano solo i mediocri».
«È una frase utile a capire che Berlusconi ha con la verità un rapporto da romanziere in cui la distinzione tra vero e falso è molto esile, in fondo, anche se utilizza questa chiave a fini personali, sa che l’edificazione del mito, pur poggiando sulla falsità, può significare progresso».
«Tutto è documentato», dice Giorgio Manganelli in testa al film, «tutto è arbitrario».
«Manganelli centra perfettamente un tema che registi e scrittori affrontano in continuazione. La realtà è un oggetto misterioso, ma film e libri vengono considerati manufatti realistici. Per quanto tu possa essere documentato, non è assolutamente detto che tu stia stabilendo una verità. Ma anzi, nella maggior parte dei casi, è sicuro che tu non la stia stabilendo e ubbidisca soltanto a delle leggi artistiche in cui, tra l’altro, non sei veramente responsabile perché non guidi, ma sei guidato. Proprio come dice Jung a proposito dei leader politici. Credo che Manganelli abbia ragione: il regista, o lo scrittore, è guidato da un altro “io” e non è raro leggere di scrittori che una volta riletto il proprio libro faticano a credere di averlo scritto davvero».
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Accade anche a lei?
«Io purtroppo vedo il mondo deformato da una lente cinematografica e vivo in una specie di bolla per cui le cose hanno valore e sono reali soltanto se hanno un valore filmico. A me piace tutto ciò che non ha a che fare con la realtà».
Da sempre?
«Non ero un ragazzino estroverso, ma proprio come mio figlio oggi – lui mi somiglia –sapevo stare molto bene per conto mio. Mia madre era contenta: “Quello si mette nella stanza e non dà fastidio a nessuno”, diceva».
E nella stanza cosa faceva?
«Quello che faccio adesso. Giochi che avevano a che fare con l’invenzione di storie e con la narrazione. Mi misi in testa di scrivere biografie, progettare giornali, quelle follie, quelle stronzate».
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Che rapporto ha con la memoria?
«Del passato mi ricordo tutto, magari fatico a dirle cosa ho fatto tre giorni fa, ma la felicità nel ricevere la mia prima macchina da scrivere, un regalo che avevo chiesto, non me la sono più dimenticata».
Della scuola che ricordi ha?
«Mi è sempre stata indifferente, sia da bambino che da adulto. Mi piacevano le relazioni che si instauravano con gli altri, mi interessava quello che si riusciva a fare nel cambio d’ora, in quei quattro minuti tra l’arrivo di una professoressa e l’altra. La scuola è bella nei suoi interstizi».
I cigni del laghetto di Villa Certosa in Loro, evocano le anatre del Giovane Holden.
«Il giovane Holden è uno dei libri che ho letto da ragazzo e qualcosa, qualche riferimento deve essere rimasto impigliato».
Lei è andato al liceo dai salesiani.
«Come Toni Servillo, Bellocchio e Berlusconi, ma questo non significa che ci somigliamo. Dai salesiani erano tutti maschi e del liceo, che coincide con la morte dei miei genitori, ho un ricordo doloroso. C’era goliardia e cameratismo, anche. Ma il cameratismo ti diverte due minuti su 24 ore e poi alla fine è una forzatura. Una messa in scena. Sa cosa ho sofferto davvero dai salesiani? L’impossibilità di relazionarsi con l’universo femminile: una vera cattiveria».
I primi lavori furono in produzione.
«Non ero portato per l’organizzazione. Una volta lasciai per tutta la notte la pellicola in macchina. Un gesto irresponsabile, da lapidazione immediata».
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La prima volta che ha pensato: giro un film?
«Il primo slancio nel provare a scrivere qualcosa per il cinema lo avvertii dopo aver visto Nuovo Cinema Paradiso, a 18 anni. Sono stato un appassionato autodidatta, ma la capacità di espandere i sentimenti del film di Tornatore mi sembrò meravigliosa».
Il suo primo cortometraggio?
«Una follia. Frequentavo con Ivan Cotroneo e Gianni Mastrangelo una scuola di cinema tenuta da un ragazzo generoso e intelligente, Maurizio Fiume, e, nella stanza in cui studiavamo sceneggiatura, travestii i miei compagni di corso da Marx, Nietzsche e Gesù. Presentammo il lavoro al concorso a tema fisso del Festival di Bellaria che quell’anno era Dio.
Vinsero Ciprì e Maresco, ma lì ebbi forse la più grande soddisfazione professionale della mia vita. La buonanima di Alberto Farassino, su Repubblica, scrisse un articolo e in due righe, puntandomi il nome “P. Sorrentino”, parlò benevolmente del mio corto. Ero al settimo cielo, il ritaglio, da qualche parte, devo averlo ancora. Non ho mai più gioito così per un articolo».
Nel tempo è riuscito a godersi il set?
«Per indole, non lo amo molto. Il set richiede la capacità di relazionarsi con tanta gente, non proprio la mia specialità».
Cosa accadrà dopo i due capitoli di Loro?
«Francamente penso che con questo film, non so in che modo e in che maniera, si chiuda un ciclo. Loro voleva essere un po’ il punto di arrivo di un mio modo, come ho letto una volta, guascone di fare cinema. E credo lo sia. Non so quando e se farò un altro film, e se e quando lo farò, non penso che accadrà ricalcando questi miei ultimi vent’anni. Lo dico molto pacificamente, senza proclami e con positività, ma ne sono convinto».
Perché?
«Perché penso che, in relazione a quel modo di fare cinema, Loro sia il film più bello che abbia fatto e che sia in grado di fare, dunque non ha senso continuare su quella strada. Loro, per tema, ambizione, racconto e rischio era l’ultimo gradino che potevo permettermi. Mi piacerebbe rigenerarmi e tentare strade diverse perché non si può essere sempre uguali a se stessi. Si stanca il pubblico, ti stanchi tu».
Il suo cinema è stato sempre ambizioso.
«In un certo senso faccio da sempre la stessa cosa: intrecciare il cinema d’autore con temi molto popolari. Al netto dell’inesperienza e dei mezzi limitati, andò così anche con L’uomo in più: raccontavo il declino, la canzone italiana e Califano con la stessa spinta narrativa usata con la mafia, Andreotti o Berlusconi. Film appartati non ne ho girati mai».
Si sente fortunato?
«Ma sì, sono molto contento. Io non avevo né arte e né parte, sono figlio di un bancario e di una casalinga e quello che mi è capitato è tutto davvero bello. Penso che sia anche sufficiente. Potrei tranquillamente ritirarmi e, se sapessi fare qualche altra cosa, non ci penserei due volte. Credo di avere ottenuto molto di più di quello che speravo di ottenere. E se domani mi dovessero dire “scendi dalla giostra, è finita” rimarrei male solo per lo smarrimento. Non saprei come organizzare le mie giornate; da anni sono abituato sempre alla stessa routine: girare, montare, missare, fare una pausa, ricominciare».
Il regista è un disadattato per definizione?
«È uno strano modo di stare al mondo, se lei mi racconta la sua giornata io seleziono solo quello che può essere fruttuoso in termini cinematografici e mi disinteresso completamente dei suoi problemi con il collega d’ufficio. Ma accade anche ai dentisti che in coincidenza di un sorriso pensano alle tue carie. Alla fine un regista ha questa grande fortuna. Quella di poter armonizzare l’informe e far coincidere ciò che nella vita resta tragicamente separato: il sublime e il disfacimento».
(L’intervista è finita. In fondo alla scrivania c’è una piccola foto in cornice. Un campo terroso, le bandierine scosse dal vento. Undici ragazzi in maglia rossa guardano nel vuoto con le braccia conserte e un pallone ai loro piedi. Paolo Sorrentino ha 16 anni, i capelli fluenti ed è l’ultimo a destra: «Sono morti quasi tutti», sussurra. E poi dice ancora: «La foto me l’ha data il mio assistente, il figlio del mio migliore amico». Alla porta bussa il figlio Carlo. In un momento di tenera debolezza, mesi fa, il padre gli ha promesso che il Napoli vincerà lo scudetto. Le partite le vedono sempre insieme. Loro due. Loro due e basta. Mancano tre settimane per non passare da bugiardo, proprio come il protagonista del suo film).
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