PROVINCIA ALL’OPERA - TEATRI PIENI, PUBBLICO APPASSIONATO E ORGOGLIO CAMPANILISTICO: RESTIAMO ANCORA IL PAESE DEL SOTTO-SCALA - A BERGAMO DAL LOGGIONE SI INNEGGIA A DONIZETTI, A VERONA A VERONA SI PIANGE PER ‘’LA BOHEME’’
Alberto Mattioli per “la Stampa”
Basta un giro in provincia per scoprire che non solo l’opera lirica non è morta (anche se magari non si sente troppo bene) ma pure che ha ancora un pubblico. Anzi, di più: che ha ancora il pubblico appassionato che l’ha resa il genere «nazionalpopolare» italiano per eccellenza (Gramsci docet).
Insomma, nel momento in cui anche l’opera si globalizza, in cui si aprono teatri in Cina e negli Emirati Arabi, in cui il pubblico accoglie in tutto il mondo spettacoli più o meno simili con reazioni più o meno simili, in Italia, che d’altronde l’ha inventata, l’opera rimane qualcosa di speciale, identitario, «nostro». Qui Giuseppe Verdi non è ancora Joe Green. Melodramma «no global», insomma.
Gli spettacoli che meritano, più che una recensione, una riflessione sono il rarissimo Torquato Tasso di Donizetti a Bergamo e La Bohème al Filarmonico di Verona che poi, essendo il teatro dove l’Arena trasferisce la sua attività d’inverno, propriamente «provincia» poi non è. Gli spettacoli avevano diversi aspetti in comune.
Intanto, due regie in sostanza tradizionali, ma una (a Bergamo) pretenziosa, l’altra (a Verona) elegante, quindi meglio la seconda. Poi, due direttori giovani e bravi, uno molto promettente, Sebastiano Rolli per Donizetti, uno già affermato, Jader Bignamini per Puccini. Anche le compagnie erano in complesso buone (e, segno dei tempi, il Tasso era coreano). Alla direzione artistica di Bergamo è sfuggito che il Tasso è un’opera semiseria, quindi c’è una parte buffa che dovrebbe essere affidata, appunto, a un basso buffo e non a un baritono «serio», anzi un po’ cupo. A quella di Verona è invece riuscito di trovare un tenore insolitamente elegante, Jean-François Borras, e la circostanza è così rara che monsieur Rodolfo merita la citazione.
Però l’aspetto interessante delle due serate era il pubblico. Intanto, i teatri erano, se non sold out, quantomeno belli pieni, e non solo dei soliti over 60. Poi, colpivano l’entusiasmo e la partecipazione, così intensa da scatenare perfino una specie di orgoglio campanilistico.
È successo a Bergamo, dove in fin dei conti si dava l’opera di un bergamasco su un altro bergamasco, appunto Donizetti e Tasso, e dove alla fine sono arrivati puntuali, sbraitati dal loggione, perfino un paio di «Viva Donizetti!» (fra parentesi: Torquato nacque in realtà a Sorrento, ma papà Bernardo, benché nato a sua volta a Venezia, era di famiglia orobica al cento per cento. Me l’ha seccamente spiegato l’ignota signora vicina di posto, ovviamente bergamasca, cui esponevo i miei dubbi).
Quanto a Verona, non mi capitava da un pezzo di vedere una tizia piangere a dirotto alla morte di Mimì e un’altra, dopo che la tisi aveva fatto il suo dovere, sospirare: «È stato così bello, ho pianto tanto». Viene in mente il Bruno Barilli che scrive del Paese del melodramma: «Durante la recita, il nostro cuore di credenti palpita appeso alle icone dei padri».
Siamo più o meno agli antipodi del pubblico della Scala, che è composto per un terzo di sciure che vogliono esibire il visone o il botox nuovo, per un terzo di turisti stranieri overdressed che si scattano selfie e per l’ultimo terzo di loggionisti isterici che ci vanno per fischiare «a prescindere», allo stesso modo con cui gli hooligans vanno allo stadio non per vedere una partita ma per scannarsi e illudersi così di esistere.
E invece l’opera ha evidentemente ancora un pubblico popolare e verace, una platea doc. Se in Italia si facesse una politica culturale, è questo legame antico fra il nostro popolo e le icone dei suoi padri che bisognerebbe sforzarsi in ogni modo di tutelare e rinnovare. Ma, visto che in Italia una politica culturale non c’è, è solo questione di tempo perché, come molte altre cose (per esempio, l’italiano, inteso come lingua), sia travolto dalla globalizzazione e perso per sempre. Peccato, però.