traviata san carlo

UNO SPETTRO SI AGGIRA PER IL PAESE DEL MELODRAMMA, QUELLO DELL’OPERA AD USO DEI TURISTI - MATTIOLI: "AL SAN CARLO UNA ”TRAVIATA” DI ROUTINE AD USO DI AMERICANI SMODATAMENTE ENTUSIASTI MA LO SPETTACOLO È BANALE E INERTE. LA RIVELAZIONE È STATA UN BARITONO MONGOLO DAL NOME IMPOSSIBILE E DALLA VOCE BELLISSIMA, AMARTUVSHIN ENKHBAT"

TRAVIATA SCHIAVO

ALBERTO MATTIOLI per la Stampa

 

Uno spettro si aggira per il Paese del melodramma, quello dell’opera ad uso dei turisti. Serpeggia l’idea che i nostri illustri teatri debbano mettere in scena a raffica i titoli più abituali e conosciuti e gettonati (e anche un po’ usurati, diciamolo) in produzioni «facili», allo scopo di acchiappare le orde di visitatori bramosi di tipicità del Belpaese. E si sa che, insieme con la pizza, la moda, l’ammore, la mamma, il caffé, la mafia, la pasta, le mani in pasta, l’opera è un prodotto «made in Italy» dei più scontati e consolatori, dunque appetibili.

 

 

 

L’idea in sé non è sbagliata. Ha iniziato la Fenice di Venezia a reinventarsi come teatro di semirepertorio, dove sfilze infinite di Traviate, Bohème, Elisir, Butterfly e altri ultraclassici, tutte regolarmente esaurite o quasi, permettono di fare cassa da investire poi in sfizi più di nicchia e meno prevedibili. Il Maggio è orientato a ripetere lo stesso modello, se non altro perché il suo sovrintendente arriva appunto da Venezia e Firenze è un’altra grande meta turistica. Pare avviato sulla stessa strada anche il Regio, ma qui forse più per confuse idee di autarchia nazionalpopolare che per intercettare un flusso di visitatori che peraltro a Torino è meno robusto che altrove.

TRAVIATA SAN CARLO

 

Il modello ha un senso, ma a tre condizioni. La prima, che i nostri teatri non propongano soltanto cartelloni di sempreVerdi o di soliti noti, perché l’impoverimento culturale che ne deriverebbe toglierebbe loro la ragion stessa di esistere, o almeno di godere di consistenti finanziamenti pubblici. La seconda, che nell’imperversare delle repliche sia comunque garantito un certo decoro esecutivo, perché si tratta di teatri prestigiosi e vorremmo che continuassero a esserlo. La terza, che il marketing lavori bene e queste sale poi riesca a riempirle.

 

libro presentato

Il dubbio, specie sul punto 3, è venuto domenica 10 al San Carlo di Napoli, ultimo arrivato nella lieta brigata degli acchiappaturisti. O meglio, che ambirebbe ad acchiapparli, perché alla matinée domenicale di un’ennesima Traviata (diciannove recite in un mese, perfino in un’occasione due in un giorno, ritmi da Broadway o da sfinimento) la grande meravigliosa sala risultava tristemente mezza vuota.

 

Quanto al livello, era una Traviata così così, dignitosamente di routine, senza infamia e senza lode, a dirla tutta un po’ noiosetta ma, ammettiamolo, magari più per chi come il soprascritto era alla trentaduesima Traviata della sua vita e non alla prima come alcuni americani presenti, infatti smodatamente entusiasti. Lo spettacolo firmato da Lorenzo Amato con scene e costumi dei gloriosi Ezio Frigerio e Franca Squarciapino, qui entrambi al minimo sindacale, è banale e inerte. La grande idea è mettere sullo sfondo una pioggia perenne, anche al chiuso (sunt lacrimae rerum? Boh), mentre tutti fanno poi la solita Traviata nei saloni Secondo Impero, ma curiosamente senza nemmeno un pouf dove sedersi (tutte cene in piedi? Ri-boh). Molto bello solo il primo preludio, con i gaudenti al funerale di lei con l’ombrello aperto: infatti viene dalla Traviata di Pelly. Per il resto, non succede nulla.

 

alberto mattioli

Dal podio, Jordi Bernàcer si limita a smistare con tranquilla autorevolezza il gran traffico di interpreti: in un mese, cinque Violette e altrettanti papà Germont, per dire. Talvolta non basta, come all’«Amami Alfredo» della mia recita, tutto un punto di domanda, attacchi tu o attacco io? Però ogni tanto emergono anche dettagli interessanti, come gli incisi dei legni dell’eccellente orchestra napoletana nel duettone del secondo atto. 

 

Non molto da dire sulla compagnia. A me è toccata Maria Grazia Schiavo, una Violetta un po’ limitata nell’acuto che gioca di rimessa nel primo atto ma fa un terzo bellissimo, anche perché il fraseggio è sempre elegante e l’interprete partecipe. Il suo Alfredo, Francesco Demuro, è sicuro e professionale, ma deve stare attento a qualche suono metallico che denota o un po’ di fatica o dei problemi tecnici da sistemare. La rivelazione, per me, è stata un baritono mongolo dal nome impossibile e dalla voce bellissima, Amartuvshin Enkhbat. E’ un po’ che se ne parla, nell’ambiente, ma dal vivo non l’avevo mai sentito. Beh, ne valeva la pena: timbro scuro, emissione morbida, volume non enorme ma ragguardevole, italiano perfetto, fraseggi non fantasiosi ma corretti. In scena è un palo, però non si capisce se non fa nulla perché non ne è capace o perché non gli è stato chiesto di fare qualcosa. In ogni caso, con la penuria di baritoni che c’è, Enkhbat fa l’effetto dell’arrivo di Babbo Natale fuori stagione: una sorpresa, ma di quelle belle.

AMARTUVSHIN ENKHBAT

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