
VARGAS LLOSA A IOSA! - D’ORRICO: "QUANDO AVEVA 23 ANNI 'DON MARIO', IN PREDA A CUPISSIMI PENSIERI DI MORTE RITENENDOSI UN FALLITO, COMPRÒ UN LIBRO COME ULTIMO DESIDERIO. ERA MADAME BOVARY CHE LESSE TUTTO IN UNA NOTTE, CONVINTO CHE LA MATTINA DOPO L’AVREBBE FATTA FINITA. MA ARRIVATO ALL’ULTIMA RIGA QUEL RAGAZZO CAPÌ CHE SCRITTORE GLI SAREBBE PIACIUTO ESSERE E CHE AVREBBE AMATO EMMA BOVARY DI "UN AMORE VERO, CARNALE" – QUANDO I MILITARI PERUVIANI BRUCIARONO UN MIGLIAIO DI COPIE DEL SUO LIBRO “LA CITTÀ E I CANI” PERCHE' SCRITTO DA “UNA MENTE MALATA, UN NEMICO DEL PERÙ”
Antonio D'Orrico per “Domani” -www.editorialedomani.it
Quando Dio ti concede un dono, diceva Truman Capote, ti consegna anche una frusta per autoflagellarti. Ho sempre pensato che il giorno in cui spedì il suo dono a Mario Vargas Llosa, perché diventasse l’architetto delle più alte cattedrali narrative del suo tempo, Dio si dimenticò di allegare la frusta, come un corriere distratto di Amazon.
Don Mario, bello come un attore hollywoodiano del Decennio d’Oro, è lo scrittore che ho amato più di ogni altro scrittore. L’ho amato per La città e i cani, il suo miracoloso esordio a ventisei anni, il romanzo alla Sartre che a Sartre non riuscì mai.
Per Conversazione nella “Catedral”, immenso e dolente romanzo nazionale peruviano (come I promessi sposi per gli italiani), con il quale ha circumnavigato da Joyce a Faulkner a alla fine doppiato anche sé stesso come gli antichi navigatori il Capo di Buona Speranza. Ma soprattutto l’ho amato per La zia Julia e lo scribacchino, la sua educazione sentimentale, il romanzo che Mozart avrebbe scritto se fosse stato uno scrittore, il romanzo più felice mai scritto come se la vita non dovesse mai finire, ma tutt’al più restare sospesa sul più bello in un meraviglioso dei sortilegi.
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Nell’estate del 1959, quando aveva 23 anni, viveva a Parigi e faceva il giornalista, il giovane Varguitas, in preda a cupissimi pensieri di morte ritenendosi un fallito, comprò su una bancarella sulla Senna un libro come l’ultimo desiderio, l’ultima sigaretta del condannato a morte.
Era Madame Bovary che lesse tutto in una notte, seriamente convinto che la mattina dopo l’avrebbe fatta finita, ma arrivato alla riga conclusiva, la più sarcastica riga conclusiva mai scritta («Gli hanno appena conferito la Legion d’Onore»), quel ragazzo disperato capì che tipo di scrittore gli sarebbe piaciuto essere e capì che avrebbe amato Emma Bovary «da quel momento e fino alla morte», di un amore vero, carnale.
Quasi trent’anni dopo, uno degli ultimi giorni di maggio del 1987, lo scrittore si trovava a Firenze assieme alla moglie Patricia quando, all’uscita di Palazzo Pitti, un giornalista italiano lo riconobbe e gli si rivolse citando l’impeccabile descrizione che Varguitas fa del cardiologo Don Alberto de Quinteros nella Zia Julia: «Fronte spaziosa, naso aquilino, sguardo penetrante, rettitudine e bontà nello spirito, nel fiore dell’età: la cinquantina». «Que memoria, señor» commentò lo scrittore, all’epoca cinquantunenne, e poi chiese allo strano tipo come mai conoscesse a memoria intere pagine del suo romanzo.
Il giornalista gli spiegò che era innamorato di zia Julia così come Vargas Llosa era innamorato di Emma Bovary. «Como un novio ama una novia» disse lo scrittore.
Il giornalista disse allo scrittore che per deformazione professionale (obbligo e deontologia) era costretto a chiedergli un’intervista. Varguitas fece una smorfia: «Ma così roviniamo questo bell’incontro!». Il giornalista disse che era mortificato ma la deformazione, l’obbligo, la deontologia… Fu Patricia, la moglie dello scrittore, a intercedere a favore del giornalista. Quel pomeriggio in albergo Vargas Llosa raccontò la sua vita all’«implacable periodista» che sapeva a memoria i suoi romanzi.
Gli raccontò dei genitori che divorziarono prima ancora della sua nascita. Di come fu allevato dalla madre e dai nonni materni. «Un bambino viziato, presuntuoso, i miei capricci erano legge».
Di quando a 14 anni conobbe il padre e fu un colpo di scena da gran teatro perché gli avevano detto che era morto. E fu l’inizio di una guerra. «Eravamo di caratteri opposti». A complicare le cose c’era il fatto che il ragazzino era uno scrittore. E di successo: «Scrivevo da sempre e i miei nonni e i miei zii mi facevano festa, mi applaudivano. Invece mio padre, quando lo scopri, si spaventò. A quel tempo la borghesia di Lima disprezzava la letteratura, la considerava un alibi per i perdigiorno, un’attività da signorine».
Per fare di quel ragazzino delicato e sensibile un vero uomo, il padre lo mandò in collegio, il famigerato Leoncio Prado, qualcosa a metà tra un riformatorio e un’accademia militare, gestito con pugno di ferro da ufficiali fanatici della disciplina. Fu l’inferno e Varguitas lo narrò nella Città e i cani. Anche i militari del Leoncio Prado lessero il romanzo e lo recensirono a modo loro. Nel cortile delle adunate organizzarono una cerimonia in pompa magna e ne bruciarono un migliaio di copie. «Poi due generali presero la parola e dissero che La città e i cani era stato scritto da una mente malata, un nemico del Perù».
No, Dio non scordò la frusta il giorno in cui fece il suo dono a Vargas Llosa, ma l’eterno novio di Emma Bovary è riuscito con la sua arte infinita a farci credere che Dio si fosse per una volta distratto.
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