TOMO TOMO LEMME LEMME, E’ VINCENZO SALEMME: “SONO STATO IN ANALISI, QUANDO HO ATTRAVERSATO UN MOMENTO PRIVATO MOLTO DIFFICILE - FIGLI NON NE HO, E LO DICO CON RAMMARICO, MA LA SORTE NON È STATA BENIGNA - PERCHE’ NEL 2018 BISOGNA PARLARE DELL'IDENTITÀ SESSUALE? E PER COSA, PER LA NOSTRA PRESUNZIONE DI TRARRE CONCLUSIONI SULL'INCLINAZIONE DI UNA PERSONA ERGENDOCI A GIUDICI DELLA SUA SESSUALITÀ?”
Antonello Piroso per “la Verità”
Vincenzo Salemme, classe 1957, autore, attore e regista, uomo di teatro, cinema e tv (in proprio anni fa, con Famiglia Salemme Show, o come ospite fisso di Tale e quale e Che tempo che fa, in onda attualmente entrambi su Rai 1), una cosa non sopporta...
Essere definito «comico napoletano». È vero?
«Non sono nato a Napoli, ma a Bacoli. Non mi voglio prendere un merito che non ho, e al tempo stesso offendere i miei concittadini d'origine. Premesso questo, se senti parlare di comici "milanesi" o "toscani", l' estrazione geografica è un aggettivo qualificativo. Invece, nel caso mio e non solo mio, è il "napoletano" a prevalere. Sei napoletano? Ah certo, per forza che sei un (o fai il) comico. Insomma, se mi dai del "comico napoletano" non mi offendo, ma diciamo che so cosa pensi di sapere di me».
Essere un, o fare il, comico non è così disdicevole.
«Per nulla. Ma per me il comico è un umorista, lo dico pensando agli intrattenitori, ai cabarettisti, facendo risalire la tradizione a figure quali Achille Campanile o Marcello Marchesi: creatori di battute e aforismi che ti fulminano. Ma io ho sempre cercato innanzi tutto di essere un attore, che può anche arrivare a strapparti la risata, ma solo perché è convincente nel restituire al pubblico la possibilità di riconoscersi in una situazione e in una reazione. E sa da chi l' ho imparata questa lezione?».
Da chi?
«Dall' immenso Eduardo De Filippo, con cui ho avuto l' onore di iniziare questo mestiere. Quando mi volle con lui sul palco, durante le prove alla prima battuta mi fermò: "Ma che volete fa', u comico?". Che tradotto voleva dire: se tu vuoi fare lo scemo per far ridere, il pubblico ti castiga. Perché nei confronti del cabarettista è ben disposto, mentre da un attore si aspetta un quid che sia sostenuto da verismo, sentimento e umanità».
A De Filippo come era arrivato?
«Quando ero al liceo classico Umberto, con altri studenti ci venne in mente di mettere in scena una versione "arrangiata" di Napoli milionaria, in cui mi fu affidato il ruolo del protagonista. Ci vide Sergio Solli, attore della compagnia di Eduardo, che mi portò a Roma, a Cinecittà, al cospetto di De Filippo che stava cercando comparse per una registrazione tv».
Fu un colpo di fulmine professionale da parte del Maestro?
«Più che altro credo di avergli fatto tenerezza, perché mi guardò e disse: "Facimm' dicere 'na battuta a 'stu guaglione, così si prende la paga". Cioè: non prendiamolo come comparsa muta, perché almeno così può guadagnare qualcosa e... mangiare. Doveva aver concluso che fossi alla fame, perché io all' epoca (nel 1977, avevo 20 anni) ero magrissimo, smunto, mangiavo a quattro palmenti e non prendevo un grammo. Quello fu l'inizio, rimasi con Eduardo fino alla sua morte nel 1984 e poi con suo figlio Luca fino al 1992».
All'epoca De Filippo raccomandava ai giovani partenopei: «fujetevenne» da Napoli. Invece lei è tornato a viverci.
«Lo diceva 40 anni fa, quando già solo arrivare da Napoli a Roma era una transumanza. L'attore è nomade per natura, ma oggi, che ti svegli e fai colazione a Napoli, tre ore dopo sei in riunione a Roma, pranzi e in due ore fai tappa a Firenze, la sera sei a Milano, tanto più con l'ausilio delle nuove tecnologie, vivere in un posto anziché in un altro non fa differenza per il tuo lavoro. Tornare a Napoli, a Chiaia, non è stato né un sacrificio né un ripiego, perché in fondo da Napoli non me ne sono mai andato».
Visto l'accenno, che rapporto ha con il suo smartphone?
«Non lo demonizzo. Ma non ho l'ansia di rimanere sempre connesso. Quando ho del tempo libero, mi godo un buon libro, una cena con gli amici, o anche il dolce far nulla, anche se poi lavorare sotto pressione non mi spiace, mi pare di stare meglio anche in salute (lo dico mentre faccio i debiti scongiuri)».
Lo stress può avere anche effetti nefasti.
(Pausa). «Guardi, Piroso, io mi considero un privilegiato, che il suo status, ci tengo a sottolinearlo, se l' è conquistato con la gavetta e con il lavoro, ma pur sempre un privilegiato, non ricco ma benestante. Per capirci: io il disagio delle periferie - grandi, piccole, le periferie delle nostre città ma più in generale le periferie del mondo - non lo conosco. Questo però...».
(Altra pausa).
Però?
«Non significa che io, come altri, non abbia conosciuto disagi di altro tipo. Ho una vena malinconica che le persone spesso non si aspettano. Sono stato in analisi, quando ho attraversato un momento privato molto difficile, approfondendo poi i rapporti che ci sono tra psichiatria, psicanalisi e psicologia».
L'analisi le ha fatto bene?
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«Tutto fa bene, perché vivere fa bene alla vita. E le dirò di più: sia benedetta la psichiatria, di cui non ho mai avuto bisogno, che focalizza la ricerca del disturbo mentale a livello fisiologico, perché i problemi dell' anima sono un tutt' uno con quelli del corpo, noi siamo un' entità unica, non scissa, e del resto già gli antichi nella loro saggezza dicevano "mens sana in corpore sano", e viceversa, perché poi ci sono i risvolti psicosomatici».
La sento emotivamente coinvolto.
«Non sono un medico né mi permetto di esprimere pareri in materia, ma io ho visto per esempio persone combattere la depressione e trovare giovamento dall' assunzione del litio.
Per questo dico: ci sono momenti in cui ti trovi a combattere delle battaglie che gli altri non vedono, di cui gli altri non sanno nulla, e per motivi insondabili. E sono disturbi che non fanno distinzioni di censo, non importa chi tu sia, uomo di successo o meno: il buio può calare all' improvviso, pensi a un uomo, un' artista come Vittorio Gassman».
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Perché sull'home page del suo sito c'è questo monito: «Non si può amare per essere felici, ma bisogna essere felici per poter amare"?
«Diciamo "ti amo" con troppa facilità, amare è una delle azioni più coraggiose dell' essere umano, che tende all' egoismo. Noi chiediamo all' altro di ricambiare il nostro amore: "Io ti amo, tu mi ami? Sennò è inutile che perdo tempo". Amiamo per bisogno, per necessità, quindi per dipendenza. Il che è insano. Se ami devi rispettare e accettare la libertà dell' altro, ma è un traguardo complicato da raggiungere. Che diventa impossibile se prima non siamo realizzati e "risolti" noi. Ha presente la parabola dei porcospini di Arthur Schopenhauer?».
Quella sulla giusta distanza?
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«Quella. Per trovare calore i porcospini devono essere non troppo vicini per non ferirsi ma neppure troppo lontani sennò non serve, ma è un equilibrio che va costantemente ricercato».
C'è l'amore di coppia, quello per un figlio, quello per il proprio Paese.
«Figli non ne ho, e lo dico con rammarico, ma la sorte non è stata benigna. Quanto all' amor di patria, mi piacerebbe che si ritrovasse uno spirito unitario come quello per cui abbiamo tutti esultato per i Mondiali dell' 82. Venivamo da anni di sangue, c'era stato il terrorismo, e ci ritrovammo uniti grazie al pallone. Lo stesso non successe nel 2006, perché lì c' erano già i germi delle divisioni successive, c' era gente che tifava contro, e a favore della Germania».
È un suo modo di riferirsi all'oggi?
vincenzo salemme e fuori nevica
«Mi perdoni ma dell' attualità politica non parlo, e non perché io non abbia le mie idee. Ma ho visto troppo spesso politici mettere in vetrina gli artisti, e artisti che hanno accettato di farsi mettere in vetrina dai politici. Sarebbe meglio per entrambe le categorie rimanere distinte. Un artista dovrebbe rivolgersi al pubblico senza distinzioni, con messaggi universali in cui si possa ritrovare, altrimenti quello stesso artista rimpicciolisce».
Cosa la indigna?
«I milioni di poveri che vivono al di sotto della soglia minima di sussistenza. In un passato ormai lontano, c'era un maggiore spirito di solidarietà, il vicino lo conoscevi e ti dava una mano, oggi non sappiamo chi abita nel nostro stesso condominio. Alla fine rischiamo di tornare indietro: all'Italia dei Comuni, delle corporazioni, dei mille campanili. E comunque: ognuno di noi deve prendersi le sue responsabilità, rimboccarsi le mani, fare i conti con la propria coscienza e dare il buon esempio, perché solo se c' è un buon popolo ci saranno anche dei buoni politici».
vincenzo salemme e fuori nevica
È credente?
«Adesso le rispondo io con un luogo comune: essendo di origini partenopee, almeno San Gennaro lo devo venerare, no? Sono cattolico, ma ho un approccio laico. Credo che Dio sia tutto quello che va al di là della nostra comprensione, e quindi come possiamo avere la presunzione di dire "credo in Dio"? Bisognerebbe rivolgersi a Dio solo per chiedergli la forza di accettare la nostra natura effimera e necessariamente limitata».
vincenzo salemme e fuori nevica
L' anno scorso nel film Il contagio, tratto dal romanzo di Walter Siti, ha vestito i panni dell' omosessuale «Professore». Critica e pubblico concordi nel trovarla strepitoso nel ruolo drammatico. Ma quando le è stato chiesto di parlare dell' identità sessuale, lei ha avuto un moto di fastidio.
«Più che fastidio, genuino stupore: "Ancora con 'sta storia dell' identità sessuale?". E lo ripeto: nel 2018 stiamo ancora qui a parlarne? E per cosa, per la nostra presunzione di trarre conclusioni sull' inclinazione dell' anima di una persona ergendoci a giudici della sua sessualità?».
Sul sesso lei a teatro si era cimentato - partendo da Io e lui di Alberto Moravia, un dialogo con il proprio pene - sul confronto, anche ironico, con un organo che però va alla rottura con il «proprietario», se ne stacca rivendicando dignità e autonomia. C' era qualche addentellato autobiografico?
(Ride). «No. Compatibilmente con l' età, io e "lui" abbiamo ancora un' onesta quanto proficua relazione... dialettica».