MINIMALISMO VERDE – NORMAN FOSTER SPIEGA LA SUA REGOLA AUREA: “LESS IS MORE” – “LA GREEN ARCHITECTURE È UNA QUESTIONE DI SOPRAVVIVENZA DEL PIANETA E AL TEMPO STESSO UNA NECESSITÀ ESTETICA”
Cloe Piccoli per “la Repubblica”
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Sembra strano che la filosofia di uno degli architetti che sta ridisegnando la skyline del pianeta, con all’attivo aeroporti (Londra, Pechino), ponti (Millennium Bridge, Londra) viadotti (Millau, in Francia) e poi edifici-icone (dal Cour Carrée di Nimes al Millenium Tower di Tokyo), sia « less is more ».
Eppure Norman Foster ragiona proprio così, sempre in termini di risparmio energetico, sia che si tratti di scegliere quali materiali utilizzare per uno dei suoi progetti sia che si tratti delle passioni che riempiono la sua vita privata. Per lui fare di più con meno non è uno slogan ma uno stile di vita teorizzato e praticato.
Del resto se così non fosse non potrebbe (per di più a ottant’anni quasi compiuti) dirigere uno studio di milleduecento persone, né lavorare a progetti titanici come l’aeroporto di Mexico City, il campus di Apple a Cupertino, o Masdar, la città ecosostenibile in pieno deserto ad Abu Dhabi. Impossibile sarebbe poi dividersi (cosa che puntualmente fa) tra Londra, Città del Messico, New York, Pechino e l’Engadina.
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Già, l’Engadina, è anche tra queste montagne svizzere che nasce l’aspirazione di Foster all’essenziale. «Il fondo, per esempio, è fare di più con meno». Parla di una delle sue passioni più grandi, lo sci nordico, mentre se ne sta seduto accanto al finestrino del trenino del 1910 su cui stiamo lentamente viaggiando. Con noi ci sono due protagonisti della scena dell’arte contemporanea, François Roche e Pierre Huyghe, autori del progetto “What Could Happen”.
E con Foster c’è la moglie Elena, spagnola, fondatrice del Centro d’arte Ivorypress di Madrid, elegantissima con il suo colbacco nero a incorniciarle il viso dalla carnagione chiara. «Prenda l’attrezzatura. È leggerissima, estremamente tecnica. Gli sci, poi, così lunghi e stretti, poggiano su uno spazio davvero minimo, mentre la concentrazione è massima e il silenzio avvolgente. In questa condizione la consapevolezza della natura e dell’ambiente che ci circonda è totale, entriamo in assoluta sintonia con il paesaggio. Mentre sciamo attraversiamo il vento e la luce, acquistiamo velocità, siamo leggeri, concentrati, presenti. Una sensazione straordinaria, un’esperienza poetica, direi estrema».
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“Estremo” è un’altra parola chiave quando si parla con Foster. Estremi sono certamente i suoi progetti perché ogni volta ambiscono a superare i limiti imposti dall’ingegneria. Ma estrema è anche la sua concezione di green architecture , «una questione di sopravvivenza del pianeta e al tempo stesso una necessità estetica». Le due cose coincidono. «Gli aeroporti, per esempio. Sono luoghi che hanno un impatto ecologico devastante. Io cerco di progettarli in modo che possano ottimizzare tutte le loro risorse, la luce, il calore, il raffreddamento dell’aria. Tutto deve funzionare per ridurre al minimo l’impiego di energia e moltiplicare le funzioni».
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In puro stile Foster, a questo punto la nostra conversazione si interrompe ma per riprendere qualche settimana più tardi esattamente da dove l’avevamo lasciata. Solo non più tra la neve e i ghiacci dell’Engadina ma nel suo studio di Londra, a Battersea Park. L’architetto sfoggia un vestito in velluto a coste viola, c’è il sole in questa giornata limpida di primavera e la luce penetra dall’immensa vetrata sul Tamigi. «C’è una grande differenza fra questa nuova generazione di aeroporti, come Pechino, Hong Kong, e ora Mexico City, e quelli tradizionali. Tutto sta nel disegno, e nella forma delle coperture».
Sir Norman Foster architetto per il Campus Apple
Apre un quaderno con copertina in pelle nera e mi mostra gli schizzi a matita, punta grossa e tratto intenso: «Vede? Le coperture oggi sono più leggere, trasparenti, mentre l’ambiente interno ha percorsi più fluidi, facili, funzionali. Nel primo di nuova generazione, Stansted, a Londra, c’era già il concetto in nuce, ma è con gli altri aeroporti, in Asia e in America, che abbiamo raggiunto appieno il nostro obiettivo. Che era quello di avere spazi alti e continui, e una ininterrotta relazione con l’ambiente circostante, con l’aria e il cielo. Ma è meglio vedere delle immagini, venga con me».
Attraversiamo lo studio in cui sono allineati decine di tavoli lunghi decine di metri con centinaia di architetti, ingegneri, addetti alla comunicazione. In fondo a una grande sala, alte un paio di metri, le fotografie mostrano gli stadi d’avanzamento del cantiere di Mexico City. «Ecco, vede come filtra la luce? La luce è leggerezza, gioia, espansione dello spirito. In un contesto così puoi fare tutto, anche una mostra».
L’arte, altra grande passione dell’archistar. «Uno dei miei favoriti è Boccioni. C’è una sua celebre scultura, Forme uniche della continuità nello spazio, che esprime perfettamente la mia idea di espansione dello spazio e dello spirito». Si fa portare un libro in cui ha raccolto la sua hit parade artistica, le sue fonti di ispirazione: Long, Serra, Boccioni, Brancusi. E poi progetti di eliche e aerei, opere di futuristi, la Dmaxion Car di Buckminster Fuller. La collaborazione con Fuller è stata fondamentale.
«Ho lavorato con Bucky gli ultimi dodici anni della sua vita. Vede questa foto? Quello sono io con la sua Dmaxion Car. La prima volta lo incontrai a Londra, cercava qualcuno che collaborasse con lui al suo primo progetto inglese, erano gli anni Settanta e Bucky era già famoso per le sue enormi strutture sempre essenziali. È stato il primo a pensare al concetto di sostenibilità, ancora prima che ci si inventasse la parola green architecture.
mostra futurismo guggenheim boccioni
A quell’epoca non era molto cool, né interessante, parlare di energia, nessuno si sarebbe immaginato che un giorno avremmo avuto tutti questi problemi di inquinamento e di sostenibilità. Bucky è stato un pioniere, e come tutti i pionieri non è stato capito. Soltanto ora i suoi concetti di spazio e energia sono diventati la base stessa dell’architettura contemporanea».
Sul concetto di energia sostenibile e di emissioni zero si fonda il progetto di Foster per la città di Masdar, ad Abu Dhabi: «Masdar significa “città sorgente” e sarà una città che si sostiene sfruttando l’energia solare, e farà risparmiare miliardi in petrolio e in emissioni. Francamente trovo incredibile che ci sia un solo esperimento di questo genere al mondo, vista l’urgenza della situazione ce ne dovrebbero essere venti di Masdar in giro per il pianeta. Voglio dire: qui c’è in gioco la sopravvivenza stessa della specie, quando ce ne renderemo conto, quando sarà troppo tardi? Certo, il mio è un esperimento, ma se funzionerà sarà qualcosa di straordinario, in caso contrario sarà un eroico fallimento. Bisognava comunque provarci».
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A provarci l’architetto cominciò fin da ragazzino, quando a Manchester, la sua città, girando in bicicletta un bel giorno scoprì che non appena passato il ponte del quartiere operaio in cui era nato c’erano quartieri con alberi, parchi, ville, luce. «Poi, intorno ai vent’anni, venni assunto in Comune, un lavoro noioso, terribilmente deprimente. Così, durante la pausa pranzo, inforcavo di nuovo la mia bici e me ne andavo in giro a guardare le case. Ne guardavo l’architettura, ma non sapevo che la stavo guardando. L’ho scoperta e ho scoperto di nutrire nei suoi confronti una vera passione quando ho capito che l’architettura può cambiare la vita delle persone.
È stato allora che ho cercato lavoro in uno studio. Ma ci voleva un portfolio. Un portfolio? Non sapevo nemmeno cosa fosse, figurarsi, ma la sera disegnavo tutto quello che vedevo dalla finestra della mia stanza, le case, i binari del treno, e poi ancora oltre. Misi insieme tutti quei disegni e quando bussai alla porta di uno studio finalmente mi diedero un primo incarico».
Contabile, ma poco importa: «La cosa per me straordinaria era che potevo parlare con gli architetti, capire il loro lavoro, come si fa un progetto. Solo poi cominciai anche a studiare. Perché in qualsiasi cosa devi sempre migliorare, essere sempre un passo avanti. Se non lo fai significa che non hai imparato da quello che hai fatto prima, e allora dovresti pensare che è ora di smettere e fare qualcos’altro che ti riesce meglio. Anche per lo sci di fondo è così, sa?».