DI PIETROTOPOLI - FACCI, IL NEMICO PIU’ INTIMO DELL’EX PM, SI SCATENA - “DI PIETRO HA SPUTATO NEL BICCHIERE (DELLA MILANO DA BERE) DOVE HA BEVUTO PER ANNI: IL MAGISTRATO RICEVEVA FAVORI DALLA CRICCA (VESTITI, TELEFONI, MERCEDES SCONTATE, MA ANCHE PRESTITI, AFFITTI A EQUO CANONE, INCARICHI E CONSULENZE PER AMICI E PARENTI)” - “CON LE MANETTE A CHIESA, DI PIETRO CAMBIA LA GIURISPRUDENZA: LA PRIGIONE SERVE A CONFESSARE. DA LI’ L’ANTIPOLITICA CAVALCA LA TV E CREA I SANTORO”…
Filippo Facci per "Libero"
à vero, Mani Pulite nacque per caso, ma il caso non esiste. E comunque non se ne accorse nessuno, dapprima: quasi tutto andava bene a quasi tutti. All'ascesa socialista si era via via accompagnato un discutibile sottopotere socialista: Milano era da bere, ma lo slogan era soprattutto di chi non poteva sedere a tavola. Il Titanic romano già affondava lentissimo mente Milano era una Bismarck. Tutto era diverso e inimmaginabile. La cerimonia d'insediamento di Giulio Catelani, venturo procuratore generale dai toni «rivoluzionari», fu benedetta dalla presenza di Giulio Andreotti.
Persino la nomina di Francesco Saverio Borrelli a capo della procura ebbe il placet della Dc e del Psi. crollato il mondo, nel maggio 1990, quando la richiesta di autorizzazione a procedere nei confronti del senatore socialista Antonio Natali - tesoriere maximo - era stata respinta.
La Metropolitana Milanese era a tutti gli effetti una società per azioni privata, si disse, dunque poteva finanziare i partiti. Tutti. Eppure, neanche due anni dopo, il ragionamento sarà rovesciato e si andrà di ramazza. Allora invece nessuno fiatò, neanche le opposizioni. Non si procedette neppure per violazione del finanziamento illecito. La verità è che la nave andava, e Antonio Di Pietro era a bordo.
TONINO L'AMBIGUO
Molti hanno scritto che già in quel periodo il magistrato indagasse per Mani pulite, anzi, che indagava praticamente da sempre, come un infiltrato che conducesse una sorta di indagini preliminari lunghe quarantadue anni. Così, a cena da qualche personaggio imbarazzante, mica cenava: raccoglieva materiale probatorio. Con altri fingeva amicizia: poi sbirciava nel loro portafoglio - questo scrivono - e annotava il nome delle banche in cui avevano i conti.
Tutto molto improbabile, anzi. Di Pietro continuava a essere quel personaggio straordinariamente ambiguo che è ed è sempre stato, da amico di tutti e di nessuno. A Palazzo di Giustizia non aveva una fama meravigliosa: certi suoi trascorsi l'avevano accompagnato sin lì. «Tu gli giri sempre intorno, ai politici, ma non li prendi mai» gli diceva per esempio Elio Veltri, che lo conobbe in quel periodo e che scrisse: «Confesso che qualche volta ho dei dubbi, perché nelle inchieste non arriva mai ai politici. I loro furti sono così evidenti e la loro certezza di impunità così sfacciata, che si fatica a pensare che non si possa incastrarli».
Le perplessità , condivise da molti cronisti giudiziari, erano legate perlopiù alla rumorosissima inchiesta sull'Atm (Azienda Trasporti milanesi) di cui Presidente era il democristiano Maurizio Prada e vicepresidente il socialista Sergio Radaelli: si era profilato dunque il rischio che Di Pietro incontrasse di giorno gli amici che già frequentava la sera.
Prada e Radaelli, infatti, facevano parte di un giro di frequentazioni ad ampio raggio (il sindaco, l'ex questore, il capo dei vigili, industrialotti vari) che il magistrato aveva anche invitato a casa sua. Tra gli amici non mancavano industriali come Giancarlo Gorrini o il costruttore Antonio D'Adamo: che fecero, insieme, più di duecento milioni di «prestito» beneficiato da Di Pietro.
Lo spaventoso elenco di favori che il magistrato ebbe dallo stesso potere che poi avrebbe abbattuto (prestiti, affitti a equo canone, domicili, auto per sè e per la moglie, incarichi e consulenze per moglie e amici, impieghi per il figlio, vestiario, telefoni, la celebre Mercedes scontata) non rappresentano solo comportamenti «di indubbia rilevanza disciplinare», come avrebbe sancito la magistratura: rappresentò, allora, la ragione principale per cui, tra i ben informati, a Milano nessuno pensava che Di Pietro avrebbe fatto il botto.
Anche al famoso Mario Chiesa, cioè alla miccia iniziale, Di Pietro arrivò quasi distrattamente. Nel giugno 1990 «Il Giorno» aveva pubblicato un articolo nel quale un impresario funebre raccontava che per lavorare al Pio Albergo Trivulzio bisognava pagare: la querela di Mario Chiesa era stata affidata a Di Pietro, che aveva archiviato, sì, ma aveva anche preso nota e in parallelo aveva aperto un fascicolo e disposto intercettazioni.
Ma l'arresto di Chiesa fu comunque un caso. Luca Magni, un imprenditore del ramo pulizie, non si rivolse a Di Pietro perché strozzato dalle tangenti e dal bisogno: lo fece perché vessato dall'arroganza di Chiesa.
GRANDE SCALPORE
Il lavoro non gli mancava, ma per gli appalti della Baggina, «Chiesa cominciò a chiamarmi insistentemente. Mia sorella non stava bene, era stata ricoverata, per cui non avevo tempo da dedicargli. La risposta fu che la salute di mia sorella era affar mio, non dell'ingegner Chiesa». Magni - che ha raccontato queste cose, vent'anni dopo, nel libro «Alla fine della fiera» di Federico Ferrero - allora si rivolse a un'associazione di commercianti che gli diede un numero dei Carabinieri.
Il capitano raccolse la denuncia e la presentò al magistrato di turno: che era Di Pietro, ma poteva anche essere un altro. Chiesa aveva chiesto a Magni di versare il 10 per cento su un appalto. Allora l'impresario andò nell'ufficio dell'ingegnere con settanta banconote segnate da centomila: flagranza di reato, concussione, galera.
Le modalità di quell'arresto, riviste oggi, fanno comprendere quanto fosse diverso l'atteggiamento della magistratura a proposito della custodia cautelare: in Mani Pulite una sola chiamata in correità basterà per incarcerare chicchessia, ma, prima di essa, Di Pietro non si fece bastare la confessione di Luca Magni e neppure le intercettazioni telefoniche: predispose banconote segnate, un microfono e persino una telecamera che peraltro non funzionò.
L'arresto di Chiesa destò scalpore, certo, ma il neonato Tg5, per capirci, non pronunciò la parola «socialista» neanche una volta. Sembrava tutto sotto controllo: l'avvocato di Chiesa, Nerio Diodà , chiese subito il patteggiamento. «Faremo la direttissima» annunciò Borrelli, inconsapevole di quanto aveva tra le mani. O, forse, sin troppo consapevole.
Dirà Di Pietro: «Io dimenticai di depositare gli atti nei tempi prescritti per la direttissima... Borrelli aveva dato indicazione di depositarli... erano in vista le elezioni del '92, la tensione montava, il fatto risultava chiaro, era opportuno rinviare Chiesa a giudizio per direttissima e chiudere così il caso e le crescenti polemiche. A quel punto, io non ho la forza di dire al dottor Borrelli che non lo faccio perché voglio arrivare a un obiettivo preciso; e allora "mi sbaglio"». Così la faccenda s'insinuò nella campagna elettorale per le elezioni politiche. E Craxi, il 3 marzo, disse: «Mi ritrovo un mariuolo che getta un'ombra sul Partito».
IN GALERA PER «CANTARE»
Mariuolo che intanto marciva in galera mentre vari imprenditori pellegrinati in Procura - per paura o perché tirati in ballo da un collega «infiltrato», Fabrizio Garambelli - cominciarono a parlare e straparlare pur di scampare la galera. Chiesa decise di parlare il 23 marzo: era politicamente finito, non aveva più un lavoro né una moglie, suo figlio non gli scriveva da un mese e la sua nuova compagna era incinta da sette.
Parlò per questo. Ammise i versamenti ai vari big del Garofano e non solo a loro. Il 30 marzo i cronisti si appostarono con l'orecchio vicino alla stanza di Di Pietro, la 254, e annotarono un urlo di Chiesa: «M'avete rotto i coglioni con quel nome». Il nome di Bobo Craxi. Suo padre era candidato alla presidenza del Consiglio e vantava ancora un alto gradi- mento.Il 2 aprile concessero gli arresti domiciliari a Chiesa.
Si delineava uno scenario probatorio da paura, e il gip Italo Ghitti disse chiaro e tondo: «Il nostro obiettivo è colpire un sistema, non le singole persone». Cominciò una nuova fase giurisprudenziale. Ogni reato ipotizzato, di lì in poi, sarebbe stato inquadrato nell'affiliazione a un sistema, e dimostrare che l'indagato ne avesse fatto parte sarebbe bastato a giustificare il protrarsi delle carcerazioni.
Chi parlava e denunciava altri, invece, poteva essere liberato perché ritenuto ormai inaffidabile agli occhi del sistema: come i pentiti con la mafia. Ogni proposta di sistematizzare la confessione sarebbe stata avallata dal Pool. E ogni tentativo di limitare le carcerazioni sarebbe stato chiamato colpo di spugna.
LA TV CI SGUAZZA
L'antipolitica montò soprattutto in tv. Su Raitre c'era Gad Lerner col suo «Profondo Nord», poi diventato «Milano, Italia». Su Italia Uno c'era Gianfranco Funari col suo «Mezzogiorno italiano». Michele Santoro, col suo «Samarcanda», aveva fatto grandissimi ascolti con una puntata dedicata alla crisi dei partiti; poi, dopo che il 12 marzo a Mondello avevano ucciso il democristiano Salvo Lima, si era rivolto direttamente alla piazza televsiva: «Siete contenti che l'hanno ammazzato?».
Scoppiò un putiferio. Gli fui intimato di rinunciare alla piazza nelle settimane preelettorali, ma rifiutò, sicché gli chiusero la trasmissione per quindici giorni. Da immaginarsi che cosa ne venne fuori.
In ogni caso il voto del 5 aprile 1992 segnò il crollo storico della Dc e perdite minime per il Psi, ma il pentapartito ne uscì comunque malconcio. La Lega superò i tre milioni di voti (9 per cento) e cantarono vittoria anche neo movimenti come la Rete. La stampa aprì un fuoco di fila contro la maggioranza e ci fu anche una telerissa in diretta fra il direttore del Tg1 Bruno Vespa e il segretario repubblicano Giorgio La Malfa: «Lei, Vespa, è stato sconfitto come l'onorevole Forlani, e se ne deve andare!», «E lei ha lottizzato la Rai come hanno fatto gli altri partiti, se non peggio».
Cominciava un burrascoso interregno giudiziario. Ebbe inizio un periodo incredibile: chiamate in correità a mezzo stampa, il Tg3 come se l'Armata rossa fosse alle porte di Trieste, telefonate concitate, avvocati coi clienti in lista d'attesa. La Prima Repubblica era finita, ma neppure questo avevano ancora capito.





