CAPOTAVOLA E’ DOVE SI SIEDE CONTE! DA SALVINI A ELLY, PEPPINIELLO HA FINITO PER DIVORARE TUTTI GLI ALLEATI E I SUOI AMICI-RIVALI NEL M5S (DI BATTISTA È FINITO FUORI DAL MOVIMENTO, CASALEGGIO ANCHE, DI MAIO PURE E BEPPE GRILLO, ORMAI, È COME SE NON ESISTESSE) – FU SEMPRE L’AVVOCATO DI PADRE PIO A FAR CADERE DRAGHI. LA SCENA MADRE DELLA ROTTURA CON SCHLEIN CHE CERCA LA SPONDA DI QUELLI DEL SUO PARTITO CHE DI PEPPINIELLO ERANO STATI SODALI: “CONTE NON RISPONDE AL TELEFONO, QUALCUNO DI VOI RIESCE A PARLARGLI?”
Tommaso Labate per il “Corriere della Sera” - Estratti
«Conte non risponde al telefono, qualcuno di voi riesce a parlargli?». Dentro il Pd la raccontano così la scena madre della rottura tra Elly Schlein e Giuseppe Conte.
(...) Temendo quello che sarebbe successo di lì a poco, quando con un colpo di teatro il leader del M5S avrebbe cancellato le primarie del centrosinistra previste per il fine settimana, la segretaria cerca la sponda di quelli del suo partito che di Conte erano stati, prima ancora che compagni di maggioranza o in qualche caso ministri, addirittura amici.
Nulla da fare: telefonate respinte al mittente o rimaste senza risposta. Da quel momento in poi, tra i fedelissimi di Schlein s’è fatta strada la lettura secondo cui il vero obiettivo della campagna contiana siano la sua leadership e lei stessa, che spostando il Pd troppo a sinistra è andata a occupare il perimetro su cui l’ex premier aveva installato il nuovo Movimento a guida tutta sua, figlio di quell’operazione politica a vasta scala in cui l’ex Avvocato del popolo — un po’ come il mitologico Crono coi figli — ha finito per divorare uno dopo l’altro tutti gli alleati.
Già perché c’è un esercito (che più eterogeneo non si potrebbe) fatto di pezzi di classe dirigente italiana — da Alessandro Di Battista a Mario Draghi, da Beppe Grillo a Enrico Letta, da Luigi di Maio a Matteo Salvini, da Virginia Raggi fino appunto a Elly Schlein, ma l’elenco potrebbe estendersi a Davide Casaleggio e oltre — che arrivato a contatto con Conte ha finito per subire gli stessi effetti di Superman con l’odiata kryptonite. Tolti Gianroberto Casaleggio, scomparso troppo presto, e Matteo Renzi, che pur avendone agevolato il ritorno a Palazzo Chigi non s’è mai fidato di lui, non c’è big del gotha del campo allargatissimo dell’ultimo decennio con cui l’Avvocato del popolo non abbia finito per rompere.
C’è un momento esatto che fissa la separazione netta tra il «Dottor Giuseppe» e «Mister Conte», quello in cui l’uomo dall’indole tranquilla che rappresentava il minimo comune multiplo tra M5S e Lega diventa un leader fatto e finito, con la spregiudicatezza propria di certi leader. È il 6 giugno 2018, il giorno della fiducia alla Camera del Conte 1, con i teleobiettivi che fissano il panico che si appropria del corpo del presidente del Consiglio incaricato mentre cerca disperatamente i fogli del discorso, che non trova. «Inizia a parlare, te li cerco io!», gli sussurra Di Maio. Sembra l’inizio di un film in cui il placido «Dottor Giuseppe» è destinato a essere cannibalizzato dalla politica; al contrario, è il momento in cui arriva «Mister Conte».
Alessandro Di Battista è finito fuori dal Movimento, Casaleggio anche, Luigi Di Maio pure e Beppe Grillo, ormai, è come se non esistesse. Il comico punzecchia Conte in tutti i modi («il suo avatar è più espressivo», «quando parlava non si capiva nulla», «specialista in penultimatum») ma se nel M5S c’era spazio per uno solo dei due, ecco, lo spazio è diventato di Conte. La parte del Pd che un tempo lo celebrava come «il punto fortissimo di riferimento di tutte le forze progressiste» (la frase fu pronunciata da Nicola Zingaretti ma condivisa da molti) ha finito, forse, per pentirsene.
LUIGI DI MAIO - BEPPE GRILLO - GIUSEPPE CONTE
Allergico a qualsiasi tipo di tandem che non lo preveda nel posto davanti e col manubrio in mano — versione contemporanea del «capotavola è dove mi siedo io» reso celebre da Massimo D’Alema, con cui c’è stima reciproca — il leader M5S ha onorato la promessa fatta a sé stesso di sbarazzarsi anzitempo del governo Draghi lasciando che fosse Draghi a far calare il sipario.
Nel suo studio di Montecitorio, quando il governo dell’ex presidente della Bce è quasi caduto, dice a Franceschini e Speranza che «va bene, votiamo la fiducia ma un secondo dopo usciamo dal governo». E in un colpo solo fa strike, giù tutti i birilli: via il governo, via l’alleanza col Pd, fine del campo largo. Che oggi ritorna, coi tormenti di sempre e un finale già scritto. Forse.