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ZEROCALCARE CALLING - DAL MITO BRECHT ALL’OPINIONISMO SOCIAL, L’AUTORE SI CONFESSA: “SO PARLARE CON COGNIZIONE DI CAUSA SOLO DI TEPPISMO E SERIE TV. HO CENSURATO COMMENTI ORRIBILI SU CARLO GIULIANI. C’È CHI HA SCRITTO DI VOLERLO RICORDARE CON UN BUCO IN TESTA. NON MI STUPISCE PIÙ NULLA DI QUELLO CHE VIENE DETTO SUL G8''

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Stefania Parmeggiani per “la Repubblica”

 

A 16 anni aveva il mito di Brecht. Oggi disegna storie che parlano di lui e del suo mondo con una esplosione di cultura pop che piace anche a chi non legge fumetti. Michele Rech, conosciuto da tutti come Zerocalcare, non vuole dare lezioni a nessuno e così passa gran parte del suo tempo a smitizzare se stesso: non sia mai che qualcuno lo consideri un intellettuale o peggio ancora un maestrino.

 

Cresciuto nel quartiere romano di Rebibbia tra musica punk e militanza nei centri sociali, odia gli indifferenti e forse per questo non smette di dire la sua. Si interroga sul degrado e sul senso civico, firma strisce sulle unioni civili e raggiunge il confine tra Siria, Turchia e Iraq per raccontare la resistenza curda e la guerra contro lo stato islamico (Kobane Calling, Bao Publishing).

 

Argomenti seri, anche se affrontati con ironia, presentazioni e dibattiti in tutta Italia, l’ultimo domani a Roma: «Adesso basta, faccio una pausa, mi riprendo il diritto a parlare di ciò che voglio, anche di cose frivole ». Lo dice, ma intanto le ultime vignette che ha disegnato e che pubblichiamo in anteprima, affondano la matita in un argomento sensibile: l’ansia di dire la propria opinione su un social network sempre e comunque, anche inzuppando le parole nell’odio.

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Quali sono i limiti del commentare un fatto in pubblico?

«Non credo ci siano limiti e comunque non sono io a doverli stabilire. Io posso parlare solo di quello che trovo inquinante in un dibattito. Non mi piace questa ansia di dovere essere i primi a commentare, di farlo su qualsiasi cosa accada al mondo, dalla Brexit agli attentati terroristici, magari due minuti dopo il primo lancio di agenzia».

 

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Ci vuole prudenza?

«Prima di postare un commento dovremmo chiederci se stiamo dando delle informazioni, un punto di vista originale o almeno degli spunti di riflessione. Se stiamo ripetendo cose già dette, stiamo solo alzando il volume e non andiamo avanti di un passo».

 

Qualche giorno fa, prima che Facebook oscurasse la sua pagina fan, lei ha censurato per la prima volta dei commenti…

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«Stavo promuovendo un evento dedicato a Carlo Giuliani. E ci sono stati dei commenti orribili, persone che hanno scritto di volerlo ricordare con un buco in testa. Non mi stupisce più nulla di quello che viene detto sul G8 del 2001, ormai il dibattito si è sclerotizzato. Ma non accetto che in una pagina sotto la mia responsabilità si scateni questa violenza, senza rispetto per i morti e per i vivi».

 

Non ha risposto a nessuno, neanche a chi criticava senza offendere.

«Genova è anche la mia storia, quelle ore mi hanno cambiato la vita e ancora adesso mi fanno venire i brividi. Non cerco di imporre la mia opinione a nessuno, ma non considero Genova un argomento di dibattito».

Dice di saper parlare “con cognizione di causa solo di teppismo e serie tv”.

«So parlare solo delle cose che conosco».

 

E tra queste ci sono i graphic novel…

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«Tra le cose più belle che abbia mai letto ci sono I solchi del destino di Paco Roca, un’opera sulla guerra civile spagnola e sull’esilio in Francia dei combattenti antifascisti, ma anche La mia vita disegnata male di Gipi e Lo scontro quotidiano di Manu Larcenet, due autori che riescono a descrivere attraverso il quotidiano una gamma di emozioni in cui mi riconosco: la paura, il dolore, i sentimenti che si provano quando la vita ci mette di fronte a certe cose, come la morte di una persona cara, la paternità e l’amore».

 

Ha citato solo autori a lei contemporanei. Perché?

«Mi appassiono alle cose del mio tempo. Ad esempio Pazienza l’ho scoperto tardi e distrattamente. Però il suo lavoro ha influenzato moltissimo gli autori che sono venuti dopo, tutta la scuola italiana e di conseguenza qualcosa di suo è arrivato fino a me».

 

Però aveva il mito di Bertolt Brecht…

«A sedici anni stavo vivendo un momento super idealista e lui toccava delle corde, usava delle espressioni che mi fomentavano ».

 

E dopo di lui, che autori ha amato?

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«Se parliamo di scrittori che utilizzano un linguaggio universale, capace di superare le distanze tra generazioni, mi viene in mente José Saramago. Per il resto leggo molto noir americano, Don DeLillo, Edward Bunker, Elmore Leonard. Mi affascina il loro stile, nel ritmo mi ricordano le serie tv.

 

E poi mi piacciono i francesi, Fred Vargas e Jean-Claude Izzo. Le atmosfere cupe mi hanno sempre attirato, come quelle de La strada di Cormac McCarthy. Sono una persona con un grande senso del tragico, mi lascio suggestionare da una certa retorica».

 

Nelle sue opere il tragico lo stempera con l’ironia.

«Perché mi vergogno, ho paura di diventare lacrimevole».

 

Adesso cosa sta leggendo?

« I giorni di fuoco di Ryan Gattis. È curioso scoprire un romanzo sulla rivolta di Los Angeles del 1992 mentre l’America precipita di nuovo nella violenza. Viene da pensare che la questione razziale sia solo peggiorata: allora tutto nasceva da un pestaggio, oggi da omicidi».

 

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Legge solo romanzi?

«Leggo i romanzi per evadere dalla quotidianità. E i saggi per approfondire i temi che mi stanno a cuore».

 

Prima di “Kobane Calling” che libri ha letto?

«Per approfondire la teoria della rivoluzione curda ho letto i libri di Ocalan e Sakine Cansiz».

 

Crede che ci sia un momento adatto per ogni libro?

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«Abbino i libri alle stagioni della mia vita. Ma se penso all’oggi mi sento smarrito, confuso… Non c’è nulla che mi piaccia veramente».

 

Cosa sta cercando?

«Qualcuno che mi aiuti a leggere il mondo, che sappia raccontare le cose nella sua complessità. Il problema è che quelli che lo fanno non dicono mai niente di diverso rispetto alle posizioni mainstream».

 

E di cosa vorrebbe occuparsi ora?

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«Vorrei riprendermi il diritto a parlare di quello che voglio, anche di cose frivole».

 

Così conferma l’idea di appartenere a una generazione di narratori ombelicali.

«Se uno è onesto con se stesso e con il proprio lavoro, se non cerca di insegnare qualcosa, ma si limita a testimoniare quello che ha dentro, non vedo cosa ci sia di male. Se invece uno ha le qualità per fare il maestro, beh lo faccia sul serio».

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