LA SECONDA VITA DI AL QAEDA - DOPO AVER PRESO CEFFONI IN MEDIO ORIENTE, L’ORGANIZZAZIONE HA PIANTATO LE TENDE IN AFRICA - GRAZIE ALLA POVERTÀ, NON MANCANO I DISPERATI DISPOSTI A RICICLARSI IN TERRORISTI

Luigi Spinola per "il Venerdì la Repubblica"

All'indomani dell'uccisione di Osama bin Laden, al Qaeda sembrava avviata verso un inesorabile declino. Lo stato maggiore dell'organizzazione era stato decimato nelle basi pachistane, argomentavano gli esperti, e anche le più pericolose sezioni locali (su tutte la yemenita al Qaeda nella Penisola Arabica) subivano il costante martellamento dei droni della Cia.

La frammentazione del network lasciava in vita la minaccia dei lupi solitari, magari addestrati on line. La predicazione qaedista, però, insidiata dal fascino della primavera araba, faticava a trovare nuovi adepti. Stando ai documenti trovati nel covo di Abbottabad, lo stesso Osama bin Laden prima di morire meditava di cambiare nome alla sua creatura in crisi. La scelta del canuto dottore egiziano Ayman al-Zawahiri come successore avvalorava l'immagine dell'autunno qaedista. «La disfatta strategica di al Qaeda è a portata di mano» assicurava l'allora capo del Pentagono Leon Panetta.

La notizia dell'imminente dipartita della centrale del terrore era perlomeno prematura. La «base» oggi è viva, moltiplica gli attacchi e imprime il suo marchio sui potenziali rivali nel business della jihad. Soprattutto, al Qaeda avanza sul territorio, sottraendo intere regioni agli Stati in crisi. Almeno nei sogni qaedisti, la restaurazione del Grande Califfato islamico non è mai stata così vicina.

Anche dove è stata colpita duramente, l'organizzazione dimostra una flessibilità nell'adattarsi alle circostanze pari alla sua rigidità ideologica. L'avventura nel Sahel è esemplare. Nel Mali settentrionale, al Qaeda nel Maghreb Islamico (Aqmi) è riuscita nell'estate 2012 a mettere in piedi assieme al partner Tuareg Ansar Dine l'entità più vicina a uno Stato dai tempi della caduta dei Talebani in Afghanistan.

«L'Emirato delle sabbie» è stato spazzato via dall'intervento dei francesi, ma non è stata una rotta. Aqmi si è ritirata nel deserto sud-occidentale della Libia, dove l'autorità dello Stato è inesistente. I jihadisti hanno aperto i loro campi nelle valli al confine con l'Algeria, ma operano a viso scoperto anche nelle città-oasi del Fezzan, da Ubari alla capitale Sebha. Qui al Qaeda sceglie con accortezza i suoi partner tra le tante milizie presenti, fa girare soldi, offre una prospettiva ai giovani della regione e ai reduci che arrivano dai Paesi limitrofi. L'esercito libico è troppo debole per ostacolarli. E la Francia rimane nel mirino.

Il terreno dove operano i qaedisti maghrebini ha confini incerti. Aqmi ha piantato da tempo le sue tende nelle sterminate zone desertiche - dalla Mauritania al Niger - lasciate incustodite dai governi della regione. A nord della Nigeria la sua area d'influenza lambisce le basi dei terroristi Boko Haram, che nel Paese più popoloso dell'Africa seminano il terrore tra cristiani e musulmani moderati.

Più difficile la situazione dei mujihaddin in Somalia, dove gli al-Shabaab si sono uniti ad al Qaeda un paio di anni fa. Scacciati da Mogadiscio nel 2011, dopo l'attacco al centro commerciale Westgate di Nairobi, i jihadisti ora sono insidiati dalle truppe dell'Unione Africana anche nelle loro ridotte a Sud, mentre gli Stati Uniti intensificano gli attacchi mirati contro i leader.

L'Africa tuttavia rimane un teatro periferico nelle mappe della guerra santa. Il Califfato deve rinascere nella regione della Mezzaluna Fertile, storica sede del governo della Umma islamica. Ed è sui campi di battaglia attorno a Damasco e Bagdad, dove accorrono i volontari ansiosi di combattere «il nemico vicino» (il governante apostata), che i jihadisti fanno registrare l'avanzata più impressionante. Al Qaeda non ha mai controllato così tanto territorio in Medio Oriente come adesso, sintetizza Peter Bergen, il primo cronista dell'organizzazione del terrore (in Italia, Holy War, Inc. Osama bin Laden e la multinazionale del terrore, Mondadori 2001).

Dopo il ritiro americano dall'Iraq, i qaedisti hanno riconquistato i luoghi simbolo della resistenza all'occupante, assumendo il controllo di Ramadi e di Falluja. E ai primi di gennaio hanno annunciato la nascita di uno Stato islamico proprio nella città dove i marines combatterono la battaglia più letale dai tempi del Vietnam.

Oltre a insediarsi nel cuore sunnita del Paese, i qaedisti colpiscono nel Sud sciita - più di 700 morti nel primo mese del 2014 - e aprono nuovi fronti. Sin dalla primavera 2013 varcano il confine con la Siria ed estendono i loro possedimenti in una vasta zona lungo l'Eufrate, cancellando de facto la frontiera tra i due Stati.

«Lo Stato Islamico in Iraq» - ultima incarnazione di Al Qaeda in Iraq, del tagliagole giordano al Zarqawi - diventa così Lo Stato Islamico in Iraq e nella Grande Siria (Isis), un'area che storicamente include anche Palestina, Giordania e Libano, dove il gruppo si affaccia a gennaio con una serie di attentati contro la milizia sciita Hezbollah.

L'Isis è l'attore più ambizioso tra le tante milizie che operano in Siria. Non si limita a combattere il regime, vuole governare. Conquista una serie di centri urbani a Nord - inclusa Raqqah, la prima capitale di una provincia sfuggita dalle mani di Assad - e vi applica la sua legge. Le carceri si gonfiano di prigionieri accusati di reati contro la morale. Gli esattori qaedisti si presentano a casa a riscuotere le tasse.

Dissidenti e rivali vengono passati per le armi. L'Isis però fa poco per conquistare i cuori e le menti dei cittadini, o degli altri ribelli, ai quali prova a imporre la propria egemonia. Non appena sbarcato, il leader Abu Bakr al-Baghdadi annuncia «l'acquisizione» del Fronte al-Nusra - la milizia più temibile, autoctona ma affiliata ad al Qaeda - concedendo al suo capo il ruolo di luogotenente. Abu Muhammad al-Golani non gradisce e lo stesso al-Zawahiri sconfessa l'operato dell'Isis.

Tra i diversi conflitti che si svolgono in Siria, si accende così anche quello interno alla famiglia jihadista. L'identità ambigua di al Qaeda (confederazione? unità autonome che operano in franchising?) rivela tutto il suo potenziale autodistruttivo. La guerra tra ribelli ha fatto centinaia di vittime, aiutando al contempo le truppe lealiste a recuperare terreno.

Non stupisce quindi che diversi servizi occidentali - secondo una recente inchiesta del Daily Telegraph - siano convinti che il regime abbia favorito il proliferare delle milizie islamiste, per seminare zizzania tra gli oppositori e rivendere la repressione in corso come lotta al terrore. E Bashar al-Assad avrebbe perfino pagato «il pizzo», prima al Fronte al-Nusra poi all'Isis, per proteggere i pozzi petroliferi nella provincia orientale di Deir-ez-Zor.

Nel momento della massima espansione, quando prova a farsi Stato, al Qaeda espone così la sua natura di criminalità comune, più o meno organizzata. E scivola su una «guerra di mafia» che vede i qaedisti e i loro compagni di strada gli uni contro gli altri armati, come capi bastone giunti alla resa dei conti. Magari sarà una crisi di crescita, ma il Califfato
per ora è lontano.

 

la coppia italiana sequestrata da al qaeda AL QAEDANAIROBI ATTENTATO TERRORISTICO OSAMA BIN LADENosama bin laden

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