IN LOTTA PER LA BELLEZZA – DA VENEZIA A FIRENZE, I RICORDI DI CARLO RIPA DI MEANA DAL SUO PERSONALE FRONTE CONTRO LA SPECULAZIONE – IL RAPPORTO CON GAE AULENTI E IL MATRIMONIO CON MARINA
Umberto Silva per “il Foglio”
Quanto era bella Venezia nei giorni e nelle notti della Biennale del Dissenso! Ci si poteva amare per le calli della città e sul mare, finalmente un’aria di libertà nei campi e nei campielli umiliati dall’iconoclastia sessantottarda che aveva invaso la laguna con grottesche rivendicazioni. Nel 1977 vennero alla luce della parola gli esuli fuggiti dalla tetra terra dai cui confini non tornava alcuno, la cupa Urss di Breznev, la Cecoslovacchia, la Polonia calpestate…
Un pubblico felice di esserci passeggiava per la laguna, in barba a un Pci furiosamente ostile, per non parlare dei più accaniti, i saccenti e pavidi compagnuzzi di strada. Vinse un profumo di speranza che dodici anni dopo si concretizzò quando i muri del pianto e del dolore caddero e ci si abbracciò l’un l’altro. La Biennale del Dissenso scaturì dal coraggioso lavoro di Carlo Ripa di Meana, l’uomo che ha raccolto l’accorato invito di Simone Weil a salvare Venezia.
La pièce “Venise sauvée” è ambientata nel Diciassettesimo secolo, e toccò al mercenario Jaffier, colui che avrebbe dovuto metterla a ferro e fuoco, l’onore di salvare la Serenissima; nel 1977 toccò a Carlo Ripa darle lustro con una Grande Opera dell’anima, che nella sua temporalità si è rivelata ben più utile e solida del Mose, fantoccio ingannatore contro il quale Ripa di Meana fin da subito si oppose.
Venezia, città amata per eccellenza, ricorre spesso nelle trecento pagine edite da Maretti “Le bufale”, titolo ostentatamente plebeo che solo un vero aristocratico può permettersi. Il fantasma del nonno generale che comandava l’Arsenale militare spinge Carlo Ripa di Meana a dar battaglia ovunque l’imbecillità metta a repentaglio la bellezza, siano in pericolo gli intellettuali russi o le acque della Giudecca schiacciate da minacciosi transatlantici, o da Marghera aleggi lo spettro della vampiresca torre di Pierre Cardin.
Non solo Venezia. Ripa corre là dove la speculazione cerca di sfregiare i monti sorgenti dall’acque, contro di essa Ripa si avventa e colpisce duro; tutt’altro che visionario eroe della Mancia, Carlo unisce all’eleganza del tratto una praticità che ne è il sigillo. E’ un lavoratore instancabile e appassionato, l’oltraggio alla bellezza e alla giustizia gli risulta insopportabile al punto di riuscire a muoversi con elegante determinazione persino negli scivolosi labirinti della burocrazia e della politica.
Se l’insofferenza per il male è tanta, altrettanta è la pazienza di Ripa, sa che senza di essa il male non può essere estirpato. Male che può assumere le forme demoniche della schiavitù dei cinesi di Prato, arrostiti tra l’indifferenza di tanti, solennemente compianti e ancor più velocemente dimenticati. Ripa vede, prevede e non dimentica. Va sui luoghi del crimine, segnala, denuncia. Un giustiziere? Una Cassandra che ci mette in guardia dall’impostura climatica e dalla green economy, ci sollecita a fare attenzione all’adozione dell’euro e all’incessante trasmigrare dei popoli? O semplicemente un uomo che osa pensare e dire, lungi dal fare finta di niente?
Ben sappiamo come i delinquenti passano alla storia e le loro vittime marciscono nei sepolcri, senza che nessuno ne ricordi il nome. Carlo ricorda i nomi dei cinesi bruciati che pure nome non hanno, ricorda tanti nomi, tutti. Altri ricordi, altri nomi. “Mentre parlavamo vidi che Gae si toccava i capelli. Le sfiorai la testa, che era umida. Sudava, e misi le mani come per asciugarla. Mi guardò. So che più tardi, parlando con un’amica, Gae disse di me: ‘Non se ne voleva più andare’. Quel pomeriggio, in poche ore, abbiamo capito che ci univa la storia di un amore”.
Altra Grande Impresa di Carlo l’addio a Gae Aulenti, che per il di lei rifiuto non vedeva da trent’anni. Una pensierosa fotografia li ritrae su una barca degli anni Trenta, lei è una donna di Campigli, lui un aristocratico giovanotto della “Règle du jeu” di Renoir. Spavalda invece la foto sulla Harley Davidson che la moglie quindici anni fa gli ha regalato, permettendo a Carlo d’imitare il suo mito, Marlon Brando in giaccone a quadri in “Fronte del porto”, ma anche sul sellino della Triumph ne “Il selvaggio”. A dire il vero, nella foto in questione Carlo mi sembra più somigliante a William Holden, mentre la donna che gli sta dietro con le gambe all’aria non può essere che lei, Marina forever.