CIAO, CIA, CIAO - GINA HASPEL, CAPO DELLA CIA, A ROMA HA INCONTRATO CONTE E IL CAPO DELL'AISI MARIO PARENTE. POI VA NELL'AMBASCIATA USA, DOVE HANNO BASE CIA, FBI E SERVIZI MILITARI, E INCONTRA IL GENERALE MANENTI, CHE COMANDAVA L'AISE NEL 2016, AI TEMPI DI QUELLO CHE I TRUMPIANI CHIAMANO ''IL COMPLOTTO''. IN TEORIA OGGI È IN PENSIONE, MA SUBITO DOPO VA CON L'AMBASCIATORE LIBICO A INCONTRARE IL MINISTRO DELL'INTERNO LAMORGESE. COSA SI SARANNO DETTI, LA HASPEL E MANENTI?
Luca Fazzo per ''il Giornale''
Una verità fin troppo semplice, quella cui Giuseppe Conte si sta appoggiando per dimostrare la sua innocenza nel pasticcio del Russiagate. Dopo settimane di silenzi e di veleni, il premier spiega che a venire contattato dal governo Usa che cercava prove del complotto democratico contro Trump del 2016 non è stato lui. Non è stato Trump a chiamare «Giuseppi», e non è stato «Giuseppi» a mettere i nostri servizi a disposizione degli americani. I due incontri, nell' agosto e nel settembre scorso, in cui Aisi e Aise promisero di fare il possibile all' emissario della casa Bianca, il procuratore generale William Barr, non furono incontri anomali.
Peccato che la verità di Conte, se toglie buona parte delle ombre sul suo ruolo, solleva domande sul ruolo di altri. A partire dall' interlocutore che l' amministrazione Usa sceglie per veicolare la richiesta, ovvero l' ambasciatore a Washington Armando Varricchio. Varricchio non è una feluca qualunque. È un diplomatico di stretta osservanza renziana, consigliere di Renzi durante la fase della sua ascesa e piazzato proprio da Renzi, nella primavera del 2016, nella sede più ambita di tutte: Whitehaven street, la sede tricolore a due miglia dalla Casa Bianca.
Quando lo staff di Trump chiama Varricchio, dunque, sa bene di avere davanti un amico di Renzi. Non la persona più adatta per avviare una operazione che ha tra i suoi bersagli possibili proprio l' ex premier italiano, che la principale fonte dell' indagine, George Papadopoulos, indica senza mezzi termini come uno dei complici del giro Obama-Clinton nel complotto del 2016. E infatti, secondo quanto risulta al Giornale, Varricchio fa una mossa che punta a rilegittimarlo verso il nuovo governo: invece di riferire della richiesta degli americani al suo superiore diretto, il ministro dell' epoca Moavero Milanesi, chiama direttamente Conte. E gli racconta tutto.
mike pompeo gina haspel donald trump
Da quel momento è come se un sasso da un quintale fosse stato gettato nello stagno dei nostri servizi segreti e dei loro rapporti con la politica. Molti capiscono in fretta che la controffensiva di Trump seguita alla pubblicazione del rapporto Mueller, che ha dimostrato la sua innocenza, rischia di fare delle vittime anche in Italia, tra chi - politico o 007 - nel 2016 si prestò ai giochini dell' improbabile professore Joseph Mifsud e dei suoi amici a stelle e strisce. Cominciano a cogliersi segnali di nervosismo tra i vari servizi, sia nelle gestioni attuali che in quelle dell' epoca, perché il Russiagate è (ben che vada) un buco epocale nella nostra rete di controspionaggio, che non si è accorta né all' estero (Aise) né a Roma (Aisi) dei traffici di Mifsud e compari. A meno, ovviamente, che non fossero tutti d' accordo.
Accade una cosa bizzarra.
Una ventina di giorni fa, arriva a Roma il capo della Cia, nominata da Trump, Gina Haspel. Incontra Conte, incontra il capo dell' Aisi, Mario Parente. Poi va in via Veneto, all' ambasciata Usa (dove, oltre ai suoi uomini, hanno base anche l' Fbi e i servizi militari: e ognuno ha i suoi amici e i suoi contatti tra i nostri). E qui chi incontra? Il generale Alberto Manenti, ovvero l' uomo che comandava l' Aise nel 2016, ai tempi del complotto contro Trump. Che in teoria oggi è in pensione, ma continua a muoversi energicamente, tanto che subito dopo va con l' ambasciatore libico a incontrare il ministro dell' Interno Luciana Lamorgese. Cosa si saranno detti, la Haspel e Manenti? E quanti servizi segreti trafficano oggi in Italia?
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