SE NON T’AMMAZZA IL MARE, CI PENSANO I SOCCORSI - SONO STATE LE MANOVRE SBAGLIATE A CAUSARE LA COLLISIONE TRA IL PESCHERECCIO CARICO DI MIGRANTI E LA NAVE MERCANTILE PORTOGHESE CHE SI ERA AVVICINATA PER SOCCORRERLI
Giusi Fasano per il “Corriere della Sera”
Manovre di accostamento eseguite «con imperizia» hanno «causato la collisione fra il peschereccio carico di migranti e il mercantile portoghese King Jacob» che si era avvicinato per soccorrerli. Quindi, «a causa della predetta collisione e della precaria stabilità, il peschereccio sovraccarico si rovesciava affondando in pochi minuti».
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Questo sostiene la Direzione distrettuale antimafia di Catania che chiede al giudice delle indagini preliminari un incidente probatorio, in questo caso un’udienza (venerdì mattina) per sentire cinque testimoni chiave sulla dinamica del naufragio e sulle responsabilità dei due presunti scafisti. Loro, gli scafisti, sono il tunisino Mohammed Ali Malek (27 anni) e il siriano Mahmud Bikhit (25): sono in carcere e aspettano la convalida del fermo per immigrazione clandestina (entrambi), e per omicidio colposo plurimo e naufragio (soltanto Malek). Reati che hanno commesso, dicono gli atti della procura, «in concorso con altre persone non identificate».
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Il tunisino, quello che tutti i testimoni chiamano «il comandante», ieri ha incontrato il suo avvocato, Massimo Ferrante, con il quale ha scambiato poche parole in inglese per dire che lui non c’entra niente.
«Credevo che mi tenessero qui dentro perché sono clandestino» si è stupito quando il legale ha cercato di spiegargli che era in stato di fermo. «Non ho fatto niente» giura. Anche se di lui e del suo «assistente», gli altri 26 sopravvissuti raccontano il peggio che si può. Compreso il fatto che quando Malek ha visto avvicinarsi il mercantile battente bandiera portoghese, per non farsi scoprire avrebbe cercato di confondersi con gli altri migranti facendo così quella manovre sbagliate che avrebbero portato alla collisione invece che alla salvezza.
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Al rumore dello scontro le centinaia di uomini, donne e bambini chiusi a chiave nella stiva e nell’altro livello sotto coperta, si sono spostati tutti verso le uscite destabilizzando ancora di più una barca che faticava fin dalla partenza a rimanere dritta. Gli altri, nella parte alta e all’aperto, hanno fatto il resto sporgendosi tutti assieme verso il mercantile. Quella carretta si è rovesciata ed è scomparsa nel buio in pochi minuti.
«Era priva di ogni dotazione di sicurezza, un numero di passeggeri del tutto sproporzionato alle dimensioni del peschereccio e al lungo tragitto da percorrere in alto mare» scrivono i magistrati della Dda ricostruendo la storia del più grande naufragio del Mediterraneo. E a proposito di numeri: nella relazione dei portoghesi si parla di 850 migranti ma i sopravvissuti raccontano di cifre che variano fra i 400 e i 950.
Gli inquirenti non escludono l’eventuale recupero del relitto, inabissato a oltre 400 metri di profondità, 70 miglia al largo della Libia. Ci sono superstiti che hanno raccontato di essere partiti da una località vicino a Tripoli (Darabli) la sera del 16 aprile, dopo aver fatto tappa per settimane in una fattoria-prigione vicino al porto di partenza.
I trafficanti di uomini chiedevano a ciascuno fra i 400 e i 1.000 euro. Impossibile tirarsi indietro come qualcuno avrebbe provato a fare dopo aver visto la barca troppo piena sulla quale doveva salire. Armi alla mano, gli organizzatori dettavano legge: botte a chiunque non obbediva agli ordini oppure osava fare domande.
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«Voi non avete nemmeno una lontana idea di quello che succede in Libia» è stata una delle poche cose che Ibrahim, 25 anni, è riuscito a dire a Francesco Rocca, il presidente nazionale della Croce Rossa Italiana. Ibrahim Viene dal Gambia, era partito con altri cento del suo Paese. Conosce poche parole in inglese ma ne ripete due ossessivamente da domenica scorsa: «all dead», tutti gli altri sono morti.