COMPAGNI ADDIO – HANNO “NON VINTO” LE ELEZIONI, HANNO PERSO PALAZZO CHIGI MA ORA GLI EX PCI ATTACCANDOSI AL MESTO CUPERLO DOVE PENSANO DI ANDARE?
Fabio Martini per "La Stampa"
Hanno perso le elezioni. Hanno perso palazzo Chigi. Nessuno dei loro capi è nel governo e ora i postcomunisti del Pd si preparano al sacrificio più doloroso: cedere la «ditta» ad un estraneo.
Da quando Matteo Renzi, di fatto, si è candidato a conquistare il Pd, il gruppo di comando del partito (in gran parte di sinistra), fatica a reagire. Anche ieri è andata così e a volte il tramonto di una generazione si può scoprire seguendo tracce minimaliste.
Massimo D'Alema è a Cracovia a parlare di Europa; Pier Luigi Bersani ieri è stato accolto con calore alla Festa nazionale del Pd di Genova ma ha parlato a giochi abbondantemente fatti e proprio dallo stesso palco dal quale, uno dopo l'altro e nei giorni precedenti, i tre «democristiani» Renzi, Letta e Franceschini avevano dato le «carte».
E quanto a Walter Veltroni, il meno organico ad una tradizione, ieri sera era ad una festa del Pd, ma a parlare di televisione.
Morale della storia: con Enrico Letta a palazzo Chigi e con Matteo Renzi gran favorito per le Primarie del Pd di fine anno, per la prima volta la tradizione di sinistra che viene dalla storia del Pci, poi proseguita nel Pds-Ds-Pd, resta a guardare, quasi certamente dovrà lasciare l'unica postazione che per quella cultura politica rappresenta un totem: la guida del partito.
Nella tradizione che viene dal Pci tutto si può perdere, tutto si può concedere ai «compagni di strada», ma non il controllo del partito. Anzi della «ditta», come la chiama Pier Luigi Bersani. Tanto è vero che per mesi, Massimo D'Alema ha fatto di tutto incontri riservati a Firenze, interviste, ambasciate - per convincere Renzi: sei il nostro candidato a palazzo Chigi, ma a noi lascia il partito. L'altro ha ascoltato, ha riflettuto e alla fine ha rotto gli indugi: «Loro pensano che io son buono a prendere i voti, ma se al partito restano loro, io i voti non li prendo». Renzi ha imparato la lezione di Romano Prodi, a cominciare dalla prima: nel 1996 l'Ulivo vince le elezioni e il segretario del
Pds Massimo D'Alema, grande artefice di quel successo storico, che fa? Non va al governo. Resta al partito.
Ma se davvero Renzi riuscirà a conquistare la «ditta», quel passaggio rappresenta la fine di una tradizione politica o semplicemente il fisiologico tramonto di una generazione, quella della svolta? «Una cosa è certa - sostiene Igino Ariemma, ultimo portavoce del Pci, autore di un bel libro sulla sinistra italiana "La casa brucia" se oggi i protagonisti sono Letta e Renzi questo non è un caso. La nostra tradizione politica, quella che viene dal Pci e poi dal Pds, ha commesso due errori importanti: non ha saputo impostare un autentico rinnovamento negli uomini, non ha saputo tracciare un disegno politico forte e convincente. Col risultato che oggi il Pd è ancora un partito ipotetico, per dirla con Edmondo Berselli».
Oltretutto i principali esponenti della sinistra di tradizione Pci-Pds-Ds si presentano allo scontro congressuale divisi in quattro tronconi: Bersani e i bersaniani; D'Alema e giovani turchi; Veltroni e Fassino convergono su Renzi; Civati punta agli «indignati» di area Pd.
Il grosso, in termini congressuali (soprattutto al Sud) è destinato a seguire Bersani e D'Alema che però non hanno più ricucito dopo il furibondo scontro personale del dopo-elezioni e culminato nell'invettiva bersaniana contro «i traditori» per la vicenda Prodi e nella successiva esclusione dal governo di D'Alema, che puntava agli Esteri. Bersani, assieme ad Epifani, puntava ad un rinvio del congresso, oramai impensabile, e ad una ricomposizione dell'area ex Ds attorno a Stefano Fassina, mentre il fronte «turchi-D'Alema» già da tempo aveva puntato su Gianni Cuperlo come anti-Renzi.
Ma proprio ieri il fronte bersaniano ha ceduto. Stefano Fassina si è schierato: «Congresso Pd con Gianni Cuperlo #controcorrente», ha scritto su Twitter. Analoga svolta anche per un altro bersaniano doc, il tesoriere del Pd, Antonio Misiani. Può cantar vittoria Matteo Orfini, il «regista» dell'area Cuperlo: «Siamo in battaglia e sarebbe auspicabile una sfida vera a due, senza controfigure.
Certo, sarebbe sperabile - e io invito a farlo - che Renzi rifiuti pubblicamente l'apporto dei professionisti del trasformismo», con allusione trasparente a Dario Franceschini. Un piglio, quello di Orfini, che fa capire come la nuova sinistra del Pd proverà a non lasciare a Renzi il monopolio del rinnovamento, anche perché l'esaurimento di una generazione, ma non di una tradizione, è questione che trova sensibili anche i «giovani turchi»: «Comunque finirà il congresso - dice Orfini - si chiuderà un ciclo e nascerà un Pd diverso».




