italia debito pubblico

IL DEBITO PUBBLICO CI AFFONDA - IL GOVERNO È COSTRETTO A DIMEZZARE LA QUOTA DI RECOVERY FUND: PER I PROSSIMI SEI ANNI LA SPINTA DEGLI INVESTIMENTI NON SARÀ PIÙ DI 209 MILIARDI, MA DI 120 - MOTIVO? NON È POSSIBILE FAR SALIRE ANCORA DI PIÙ UN DEBITO GIÀ AI MASSIMI - I CIRCA 88 MILIARDI DI PRESTITI CHE RICEVEREMO DA BRUXELLES VANNO A SOSTITUIRE I PRESTITI ATTESI DAI MERCATI: PRATICAMENTE CI LIMITIAMO A CAMBIARE CREDITORE - ECCO LA BOZZA DEL PIANO

1  – PIÙ SOLDI A VERDE E QUOTE ROSA CHE A SANITÀ, CULTURA E TURISMO

Carlo Tarallo per “la Verità”

 

GIUSEPPE CONTE PAOLO GENTILONI ROBERTO GUALTIERI

La bozza del Recovery plan all'esame del Consiglio dei ministri ha un nome che è tutto un programma: Piano nazionale di ripresa e resilienza. L'acronimo, Pnrr, suona veramente male. «Secondo le conclusioni del Consiglio europeo», si legge nella bozza, «l'insieme dei fondI europei compresi nel Quadro finanziario pluriennale e nel Next generation Eu mettono a disposizione dell'Italia un volume di circa 309 miliardi di euro nel periodo 2021-2029.

 

Per quanto riguarda il Dispositivo europeo di ripresa e resilienza (Rrf), che finanzia il Piano di ripresa e resilienza dell'Italia, il nostro Paese», si legge ancora, «nel periodo 2021-26 potrà accedere a circa 65,4 miliardi di euro di sovvenzioni e 127,6 miliardi di euro di prestiti (il 6,8% del Reddito nazionale lordo), ovvero 193 miliardi complessivamente, che il governo intende utilizzare appieno». Le risorse sono divise su sei macroaree.

giuseppe conte roberto gualtieri

 

La prima, «Digitalizzazione, innovazione, competitività e cultura», può contare su 48,7 miliardi di euro, così divisi: 10,1 miliardi per la «Digitalizzazione, innovazione e sicurezza nella pubblica amministrazione»; 35,5 per «Innovazione, competitività, digitalizzazione 4.0 e internazionalizzazione»; 3,1% per «Cultura e turismo».

 

La seconda macroarea è individuata come «Rivoluzione verde e transizione ecologica», e può contare su 74,3 miliardi di euro, così divisi: 6,3 per «Impresa verde ed economia circolare»; 18,5 per «Transizione energetica e mobilità locale sostenibile»; 40,1 miliardi per «Efficienza energetica e riqualificazione degli edifici»; 9,4 miliardi per la «Tutela e valorizzazione del territorio e della risorsa idrica».

giuseppe conte roberto gualtieri mes

 

La terza macroarea, «Infrastrutture per una mobilità sostenibile», conta su una dotazione totale di 27,7 miliardi di euro, così divisi: 23,6 per «Alta velocità di rete e manutenzione stradale 4.0» e 4,1 miliardi per «Intermodalità e logistica integrata». Passiamo al capitolo «Istruzione e ricerca», al quale sono assegnati 19,2 miliardi di euro suddivisi così: 10,1 per «Potenziamento della didattica e diritto allo studio» e 9,1 per «Dalla ricerca all'impresa».Le risorse della macroarea «Parità di genere, coesione sociale e territoriale» ammontano in totale a 17,1 miliardi, dei quali 3,2 per «Giovani e politiche del lavoro», 5,9 per «Vulnerabilità, inclusione sociale, sport e terzo settore», 4,2 miliardi per «Parità di genere», 3,8 per «Interventi speciali di coesione territoriale».

 

Infine, la macroarea «Salute» conta su 9 miliardi di euro, così divisi: 4,8 miliardi per «Assistenza di prossimità e telemedicina» e 4,2 miliardi per «Innovazione, ricerca e digitalizzazione dell'assistenza sanitaria».Sorprende, ma forse non troppo, la macroscopica differenza tra i 9 miliardi destinati alla salute e, tanto per fare un esempio, i 74 stanziati per la rivoluzione verde.

roberto gualtieri giuseppe conte luigi di maio

 

Saremo maliziosi, ma è probabile che lo scarsissimo stanziamento destinato alla salute sia un modo per far diventare necessari, se non indispensabili, i 36 miliardi del Mes. Ridicolo il finanziamento per i settori della cultura e del turismo: appena 3,1 miliardi di euro per quella che è la spina dorsale dell'economia italiana, che ricevono un miliardo in meno rispetto ai 4,2 destinati alla parità di genere.

 

La bozza prevede una riforma della Giustizia e anche interventi di natura fiscale. «La riforma fiscale che abbiamo in mente», si legge nella bozza, «e i cui principi e criteri saranno presentati con il disegno di legge delega che il Parlamento sarà chiamato a esaminare risponderà, da un lato, all'esigenza di definire una riforma organica del nostro sistema fiscale e, dall'altro, alla necessità che il disegno riformatore possa essere attuato nei tempi previsti per la fine della legislatura. Abbiamo pensato innanzitutto», si precisa nel documento, «a una riforma dell'Irpef, perché è l'imposta principale, interessa circa 41 milioni di contribuenti (dichiarazioni 2019 riferite all'anno di imposta 2018), e perché è quella che mostra più di ogni altra evidenti problemi di inefficienza, iniquità verticale e orizzontale e mancanza di trasparenza.

 

Roberto Gualtieri e Giuseppe Conte al lavoro sul Def

Anche in considerazione degli interventi posti in essere negli ultimi anni, si ritiene che l'esigenza sia ora di concentrare le risorse disponibili per ridurre prioritariamente la pressione fiscale sui redditi medi. Finora siamo infatti intervenuti sui lavoratori con reddito fino a 40.000 euro, ora dobbiamo intervenire», si legge ancora nella bozza, «a favore dei lavoratori (sia dipendenti sia autonomi) con un reddito medio, ovvero orientativamente incluso tra 40 e 60 mila euro, perché si tratta della fascia che oggi sconta livelli di prelievo eccessivi rispetto ai redditi ottenuti».

 

Il punto dolente, quello della governance, sul quale c'è baruffa in maggioranza, è questo: sull'attuazione del Piano, si legge, «vigilerà con compiti di indirizzo, coordinamento e controllo un Comitato esecutivo, composto da presidente del Consiglio, ministro dell'Economia e delle Finanze e ministro dello Sviluppo economico. Viene inoltre individuato il ministro degli Affari europei, di intesa con il ministro degli Esteri e delle Cooperazione internazionale per quanto di competenza di quest' ultimo, quale referente unico con la Commissione europea per tutte le attività legate all'attuazione del Piano. Il Comitato può delegare a uno dei propri componenti, senza formalità, lo svolgimento di specifiche attività».

 

2 – L'EFFETTO DEBITO DIMEZZA GLI AIUTI

Federico Fubini per il “Corriere della sera”

 

DEBITO

Chi pensa che il livello del debito pubblico sia irrilevante, può valutare quanto segue: sta dimezzando il Recovery fund. O quasi. Di fatto, l'Italia sta rinunciando a una quota di investimenti in più finanziati da Next Generation EU per poco meno di cento miliardi di euro - sui 208,6 offerti al Paese - perché non può far salire ancora di più un debito pubblico già ai massimi nella storia dello Stato unitario.

 

Poche righe nella bozza del «Piano nazionale di ripresa e resilienza» approdato ieri in Consiglio dei ministri lo spiegano. I sussidi da Bruxelles per 65,5 miliardi saranno usati per investimenti aggiuntivi. Del resto il governo non deve rimborsarli e quelli non finiscono nel debito pubblico. Invece, si legge, «per i prestiti si ipotizza che una quota (40 miliardi) venga usata per iniziative additive»: cioè in più, non previste senza Recovery fund.

DEBITO PUBBLICO

 

Però, continua il testo, si ipotizza che «la restante parte venga utilizzata per finanziare investimenti e altre misure che sarebbero state supportate da risorse nazionali». Ora, al di là dell'italiano non proprio da anniversario dantesco («additive», «supportate»?), il senso è: con la «restante parte» di circa 88 miliardi di prestiti all'Italia da Bruxelles il governo non progetta investimenti in più, che darebbero una spinta supplementare alla crescita. No: mantiene i piani che aveva prima ma sostituisce i prestiti attesi dai mercati con prestiti dall'Unione europea. Si limita a cambiare creditore.

 

E il motivo è evidente: quella porzione di denari prestati da Bruxelles pesano per oltre 5% del prodotto lordo e usarli per progetti in più, aggiunti a quelli già decisi prima, farebbe salire troppo il debito pubblico. Insomma per i prossimi sei anni la spinta del Recovery fund non è più di 209 miliardi, ma di 120: simile al deficit in più fatto nel solo 2020. Il «Corriere» lo aveva anticipato il 30 settembre e anche ieri. Ma neanche il «Corriere» poteva prevedere l'altra sorpresa: il ministro per gli Affari europei Enzo Amendola diventa «referente unico» con Bruxelles sui fondi, «di intesa con il ministro degli Esteri». Unico, ma non troppo: si è autoinvitato al party anche Luigi Di Maio.

             

 

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