PRONTI, PARTENZA, STOP! - LA GRANDE ALLEANZA ANTI ISIS VOLUTA DA OBAMA NON E’ ANCORA PARTITA E GIÀ S’INCEPPA: LA TURCHIA S’OPPONE, L’EGITTO PONE CONDIZIONI E I SAUDITI SCAPRICCIANO CONTRO IL QATAR
Maurizio Molinari per “La Stampa”
ohn Kerry con il presidente Barack Obama
Il rifiuto turco, le condizioni egiziane, l’interrogativo sulle truppe di terra e il nodo della legalità dell’intervento aereo in Siria complicano l’opera del Segretario di Stato, John Kerry, impegnato a costruire la coalizione internazionale anti-Isis. Reduce dal summit arabo di Gedda e atteso da quello internazionale di Parigi, Kerry può contare sulla carta sull’impegno di 40 Paesi a sostenere la decisione del presidente Barack Obama di «degradare e distruggere» lo «Stato Islamico» (Isis) del Califfo Ibrahim ovvero Abu Bark al Baghdadi. Ma quanto avvenuto nelle ultime 48, da Ankara al Cairo, descrive la difficoltà di trasformare tali impegni in una coalizione militare.
La Turchia di Recep Tayyp Erdogan, dopo qualche esitazione, ha fatto sapere a Washington che non parteciperà direttamente, non concederà le basi alla coalizione e non consentirà neanche alla Nato di adoperare il proprio territorio.
È un «gran rifiuto» che evoca quello espresso all’America di George W. Bush in occasione dell’invasione dell’Iraq nel 2003, anche se le motivazioni in questo caso non riguardano la legittimità dell’attacco quanto interessi nazionali turchi: il timore per la sorte di 49 diplomatici rapiti dall’Isis a Mosul, la volontà di non aiutare l’irredentismo del Kurdistan iracheno per evitare contagi in patria, il rischio di veder la guerra siriana estendersi alle province del Sud dove risiedono circa 1,4 milioni di profughi, il desiderio di non incrinare i rapporti con l’Iran.
Nel 2003 il veto turco obbligò il generale Tommy Franks, capo delle truppe Usa, a rivedere drasticamente i piani di attacco a Saddam Hussein e lo stesso vale ora per John Allen, il generale che viene ricevuto domani da Obama nello Studio Ovale per discutere i piani anti-Isis: senza la Turchia, le basi per gli attacchi - ovvero il posizionamento di aerei e truppe speciali - dovrà avvenire in Iraq e Giordania, gli unici Paesi a ridosso del teatro di operazioni, con l’aggiunta dei Paesi del Golfo come retrovie.
Il governo di Baghdad ha già aperto le proprie basi e quello di Amman è pronto a farlo ma qui sorge il secondo interrogativo su «chi e cosa attaccare» con gli aerei. A descrivere il problema è l’Australia - primo partner della coalizione a promettere uomini e mezzi - che annunciando l’invio di 600 uomini in una base degli Emirati - 400 per far volare gli F-18 e 200 truppe speciali - ha tenuto a precisare che «l’autorizzazione è operare al momento solo in Iraq, perché in Siria c’è un problema di legittimità internazionale».
Se infatti Baghdad «invita» la coalizione a compiere raid sul suo territorio contro Isis, Damasco si oppone e all’Onu il via libera all’intervento è bloccato dal veto della Russia di Putin. La posizione di Canberra suggerisce perché altri Paesi occidentali - a cominciare da Francia, Germania e Italia - parlino di «aiuti militari contro Isis» riferendosi finora sempre all’Iraq.
L’altra questione aperta è la necessità di truppe di terra in Siria. «Noi non le metteremo ma alcuni Paesi le hanno offerte» fa sapere Kerry, precisando di preferire «forze sunnite» perché Isis è sunnita. I nomi sono top secret, ma Egitto e Arabia Saudita sarebbero disposti a farlo.
Il problema per Kerry tuttavia è che entrambi pongono condizioni: il presidente egiziano Abdel Fattah Al Sisi gli ha detto di persona che «Isis è un pericolo anche nel Sinai per la presenza delle cellule jihadiste Beit Al Maqqdis», e dunque «combatterlo solo in Siria e Iraq non basta», mentre Riad ha voluto in cambio l’umiliazione del Qatar, obbligando gli Usa a chiedere a Doha l’espulsione dei leader dei Fratelli Musulmani.