IN-CIAMPI SUL COLLE - L’EX PRESIDENTE SCODELLA RICORDI E VELENI: “IL VETO DI COSSIGA SUL MIO NOME FAVORÌ D’ALEMA PREMIER”

Umberto Gentiloni per "la Stampa"

Nel marzo 2003 l'Italia ha vissuto una crisi istituzionale inedita, una rottura drammatica tra il Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi e il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi. Terreno di scontro la partecipazione italiana alla guerra in Iraq. Ciampi voleva tenere l'Italia fuori del conflitto, con la formula di «Paese non belligerante».

Il Consiglio supremo di Difesa era d'accordo, la risoluzione era già stata approvata: «Nessun militare italiano doveva andare a combattere in Iraq». Ma intanto il presidente del Consiglio, senza avvertire il Capo dello Stato, si era accordato con il presidente degli Stati Uniti Bush: l'Italia entrava a far parte della «coalizione dei volenterosi». Ciampi ne fu informato a cose fatte. La conclusione dell'ex Presidente è amara: «Le istituzioni non contano, la Costituzione diventa da stella polare un intralcio che rallenta il corso delle cose».

La rivelazione è contenuta nel volume Contro scettici e disfattisti, edito da Laterza, da oggi in libreria. L'ha scritto Umberto Gentiloni, storico alla Sapienza di Roma e collaboratore della Stampa che per lunghi mesi ha potuto consultare le agende e gli appunti di Ciampi rimaste fino ad ora gelosamente custodite dal suo autore. Lo stesso Presidente ha lavorato con Gentiloni. Le rivelazioni non sono dunque frutto dell'interpretazione dello storico, ma la viva testimonianza di un protagonista.

I dettagli inediti, sugli ultimi vent'anni di storia italiana, sono numerosi. Dopo la caduta di Prodi, nel '98, ricorda Ciampi che furono Veltroni e D'Alema a proporgli di ritornare a Palazzo Chigi. Lui era contrario, avrebbe accettato solo se la proposta gli fosse arrivata dal Quirinale, dove allora sedeva Scalfaro. Ma il colloquio con D'Alema fu seguito da un lungo e umiliante silenzio. Ciampi seppe poi che a porre il veto sul suo nome era stato Cossiga che con una pattuglia di fedelissimi si apprestava a sostenere la nascita del primo governo presieduto da un ex comunista: Massimo D'Alema.

LO SCONTRO DEL 2003
Tra ricordi e appunti di Diario nel tracciato di Ciampi risalta la consapevolezza di una vera e propria discontinuità nella politica estera italiana del governo Berlusconi: nei modi, nelle priorità, nelle funzioni di indirizzo. [...] Ciampi è molto chiaro su questo aspetto: in Parlamento non ci furono ricadute particolari, ma l'azione del governo, in primis del presidente del Consiglio, mirava a costruire una linea diretta con la Casa Bianca senza tener conto di analisi e strategie di intervento promosse dalla Farnesina. Una vera e propria frattura che si ripercuote sull'insieme dell'architettura istituzionale. [...]

Siamo in presenza di una gestione diretta che svuota altre istituzioni preposte ai compiti specifici. A Ciampi non sfugge la ricaduta sul sistema democratico: «Ripercussioni profonde e un cambiamento enorme nel ruolo e nella stessa considerazione del nostro Paese: un vero e proprio tornante di svolta. Il punto di ricaduta più evidente è stato con la guerra in Iraq. Basta associare e confrontare i comportamenti di Berlusconi e Bush nei modi che prevalgono nel guardare all'Italia; addirittura con dichiarazioni improprie, dando per scontata la partecipazione al gruppo di Paesi che entra in guerra contro l'Iraq. Un falso che dimostra il livello di connubio e di impegno stipulato tra loro». [...]

Il ricordo scivola nella recriminazione per ciò che si sarebbe forse potuto fare per interrompere il flusso di comportamenti pericolosi: «Le Torri Gemelle, me ne sono reso conto con il passare del tempo, rappresentano un punto di svolta anche per la tenuta del quadro istituzionale italiano.

La guerra irachena ne è la manifestazione più chiara ed evidente. Quando Berlusconi torna dal suo viaggio in America del 2001 capisco perché mi arrivano diversi segnali che è successo qualcosa, che ci sono indirizzi e scelte precise da compiere in poco tempo. Vengo estromesso da tutto, non ho neanche le informazioni basilari, resto ai margini di una trasformazione che diverrà importante, forse decisiva per la nostra comunità nazionale».

Un sospiro e un peso che sembra togliersi dopo anni: «Si trattava di una rottura vera e sul momento non me ne resi conto. Non si può impostare una politica estera su base personale senza neppure comunicarla a chi ha le prerogative istituzionali per condurla e implementarla. Mi costa dirlo, ma questa è la mentalità che rischia di prevalere: le istituzioni non contano, la Costituzione diventa da stella polare un intralcio che rallenta il corso delle cose». Il nuovo governo rimette progressivamente in discussione parte degli assi fondamentali della politica estera italiana, soprattutto dalla profonda revisione di modalità consolidate. [...]

Il punto di caduta più critico riguarda il teatro iracheno e si snoda su diversi livelli: reazione internazionale della Nato e degli Usa, ruolo dell'Italia e caratteristiche del processo decisionale.

Il racconto del Presidente si fa articolato e partecipe. «La rottura vera e propria sulle questioni internazionali arriva a marzo 2003; prima avevo tollerato e mal digerito una situazione di fatto. Solo in quel momento decido di puntare i piedi rischiando di far scivolare il tutto in una crisi istituzionale senza precedenti, difficile da spiegare ai nostri alleati durante l'emergenza dell'intervento in Iraq. Inizialmente sembrava che a livello continentale si potesse trovare una posizione comune; con decisione puntavo sulla cornice Onu e sull'intesa tra i Paesi europei.

Mi ricordo che andai in visita di Stato ad Algeri, mi raggiunse nel frattempo il ministro degli Esteri, Frattini, che mi disse compiaciuto: "Abbiamo raggiunto un accordo tra i ministri europei". Quando mi accorsi che invece sostanzialmente l'Italia aveva aderito senza remore alla politica statunitense, cercai una via d'uscita, chiedendo un confronto nel Consiglio supremo di difesa. [...]».

Il problema è dirimente. Ciampi non transige sulla posizione italiana; di conseguenza prepara una bozza di comunicato finale del Consiglio supremo di difesa e contestualmente un messaggio per il Parlamento, qualora non si fosse trovato un accordo sulla dichiarazione. Ricorda il Presidente: «Ero determinato a proporre la formula di "Paese non belligerante". Mi impegnai a fondo nella riunione con i vertici militari. Alla fine era chiaro che l'Italia non avrebbe partecipato e non avrebbe mai mandato un uomo a combattere in Iraq. [...] Il mio testo fu approvato, con piccole modifiche. Tuttavia, non venni messo a conoscenza degli impegni che nel frattempo aveva assunto il presidente del Consiglio dei ministri». [...]

La ricostruzione della vicenda da parte del Presidente evidenzia il permanere in quelle settimane di ambiguità e doppi giochi, offrendo l'immagine pericolosa di un Paese senza guida certa, oscillante tra dettami costituzionali e sollecitazioni dell'alleanza militare.

«Lo ricordo come fosse ieri: l'Italia - prosegue il Presidente - venne inserita dagli americani tra i Paesi che sarebbero intervenuti con mezzi in assetto di guerra. Mi opposi apertamente anche con il ministro della Difesa, riuscii a bloccare l'invio di truppe, o il passaggio dalle nostre basi di contingenti dell'Alleanza. Furono momenti durissimi, di scontro frontale. Mi resi conto, con il passare del tempo, che in Usa grazie alla diplomazia personale di Berlusconi era stata già venduta e presentata un'altra posizione. Non ne sapevo nulla e anche per questo mi sentii in dovere di far rispettare il nostro ordinamento». [...]

Prende fiato mentre racconta, ci tiene a sottolineare che più di tanto non può rivelare, sarebbe sbagliato e improduttivo: «Non ho mai saputo quale tipo di impegni e quali dettagli fossero stati decisi dal governo in accordo con gli indirizzi dell'amministrazione Bush».

LO "SCHIAFFO" DEL '98: "MI ASPETTAVO LA CONVOCAZIONE AL QUIRINALE E INVECE..."
Le dinamiche successive alla crisi del governo Prodi sono al centro di tante ricostruzioni e interpretazioni della lunga transizione italiana. [...] Tutto ha inizio dopo la rinuncia di Prodi a un nuovo incarico, le condizioni non lo consentono e gli esiti sarebbero tutt'altro che incoraggianti. Lo stallo sembra sbloccarsi in seguito a una telefonata di Walter Veltroni appuntata sul Diario dell'11 ottobre 1998: «Preannuncia la loro decisione per un "governo fotocopia" con me presidente. Prodi sarebbe d'accordo. Lui resterebbe vice e ministro della Cultura».

Uno scenario davvero impensabile fino a poco tempo prima, tuttavia le condizioni ci sarebbero e le ragioni politiche ed economiche non sono distinguibili dalle rotte del cammino intrapreso fino ad allora. Ciampi è incredulo, ripensa alla breve stagione a Palazzo Chigi, non sa se iniziare a definire una rosa di possibili ministri o attendere gli sviluppi della giornata.

Non è trascorsa neppure mezz'ora dalla telefonata del vice premier in carica che il leader dei Democratici di sinistra, Massimo D'Alema, si materializza a Santa Severa, a colloquio da Ciampi. Il Diario è esplicito e immediato: «Ritiene che tocchi a me. Da parte mia faccio presente che è meglio un governo politico: a) presieduto da Prodi; b) se la situazione è matura, "alla Jospin" con D'Alema presidente. D'Alema non ritiene possibile nessuna delle due. Rispondo che se sarà richiesto dal Presidente della Repubblica accetterò a condizioni chiare, cioè subito nomina dei ministri e in Parlamento. Se non avessi fiducia elezioni». Il giorno successivo riceve conferme da entrambi. Attende sviluppi che tardano, senza che il silenzio venga motivato da spiegazioni plausibili.

Il ricordo di quelle giornate brucia ancora, soprattutto l'indeterminatezza di dover dipendere da qualcosa che non si riesce a comprendere fino in fondo. Un'attesa che non trova sbocchi: «Martedì mattina mi aspettavo la telefonata di convocazione al Quirinale. Nel pomeriggio - ricorda Ciampi - capii che qualcosa era mutato, da qualche flash di agenzia. Non ebbi nessuna telefonata con nessuno. Il martedì sera Prodi fu convocato da Scalfaro e poi rinunciò.

Non ho avuto nessuna informazione preventiva, nessuno con me di quest'argomento ha più parlato. Scalfaro non mi ha mai fatto cenni alla vicenda. Mi ricordo la strana sensazione di preparare mentalmente una squadra di ministri durante un incontro a Bruxelles. Avevo ipotizzato, tra i miei pensieri, un governo prevalentemente tecnico, alla stregua del primo, quello del 1993. Tecnico e molto ridotto nei numeri. Ero insomma inutilmente pronto a partire».

Sul Diario del 14 ottobre annota: «Prodi intende aggiornarmi. Non ha potuto sottrarsi a un incarico esplorativo: è pessimista. Mi spiega che su di me Cossiga ha posto un veto pieno. Prendo atto; aggiungo che dato il veto nei miei confronti non farò più il ministro in qualsivoglia governo, fatta eccezione per una nuova presidenza Prodi». [...] Il 15 ottobre scrive ancora: «Viene da me Napolitano. È avvilito per la condotta di Prodi, prima e dopo la crisi. Durante il colloquio mi telefona Prodi: comincia riferendosi alla intervista di Cossiga su Repubblica di oggi, ancora contro di me.

Rispondo che non è quello l'evento importante, ma quanto successo ieri. Prodi lo riconosce, confermando che non poteva fare diversamente. Spera che riesca D'Alema. Rispondo che finiamo con il riconoscimento che il governo Prodi ha fatto bene, ma politicamente la conduzione è un disastro. A Napolitano sottolineo che dopo aver ricevuto nei giorni scorsi le sollecitazioni del suo partito (Mussi, Salvi, Veltroni, D'Alema) da me accolte, è stata adottata una linea diversa, non facendo il mio nome al Quirinale (neanche in subordine a Prodi, per quanto ne so). Quindi di fatto è stato accettato il veto di Cossiga». [...]

In poche ore si fa strada la soluzione di un governo con una nuova guida e una maggioranza variata rispetto al precedente, anche se di poco. [...] Ancora il 15 ottobre scrive: «Verso l'ora di colazione mi raggiunge una telefonata di D'Alema, che cerca di spiegarmi quanto accaduto. In sostanza il suo orientamento di domenica è stato superato dalla improvvisa sterzata di martedì da parte di altre forze politiche verso un nuovo tentativo Prodi. Da ambedue le telefonate (Maccanico e D'Alema) e da altre traggo la conclusione che ha funzionato il veto Cossiga, che quanto meno esso ha sollecitato una reazione favorevole a una soluzione politica. Se così andrà a finire, il risultato ultimo coinciderà con la mia originaria indicazione».

Lo scenario muta rapidamente; il Diario registra il cambio di fase conservando le tracce di uno stato d'animo mutevole. Si apre quindi il cantiere per la formazione di un nuovo esecutivo. Ciampi vorrebbe fare il passo indietro di un orgoglio ferito dai comportamenti e dai veti incrociati. [...] La matassa viene sbrogliata da una fitta corrispondenza tra il presidente incaricato e il ministro del Tesoro uscente.

D'Alema pone la questione della presenza di Ciampi nell'esecutivo come dirimente, imprescindibile per la buona riuscita del tentativo in atto. [...] Solo Ciampi, anche per la sua credibilità personale, poteva offrire risposte a piani così diversi e delicati in un momento nel quale un politico di punta proveniente dalla tradizione e dalla cultura del comunismo italiano si apprestava a presentare un governo alle Camere.

 

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